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« Illustre Signora,

 mandai silenziosamente "La vita che ti diedi" perché mi parve che forse sarebbe stato meglio non disturbarLa affatto, nella presente non lieta condizione della Sua salute, con parole che Le ponessero davanti l’autore, l’attesa di un giudizio e simili altri inopportuni fastidii. Può credermi, se Le dico, che certamente avrei accompagnato con una lettera l’invio se avessi potuto supporre che il mio silenzio Le sarebbe stato invece - come Le è stato - cagione di pena. Dolore da un canto e indignazione dall’altro ho provato per la notizia che Ella mi dà dei mali d’ogni sorta che Le tolgono d’attendere a quel lavoro, che sarà fugace, come Ella dice, ma fugace perchè tale è sempre il miracolo. L’opera ha spesso, invece, la pena di permanere senza più la luce di quel miracolo. Vorrà ancora credermi, se Le dico, che vorrei far di tutto, se mi fosse dato di ovviare in qualche modo a questi mali; e che pertanto certamente non vorrei che l’unica cosa ch’io sia in grado di fare, voglio dire il mio lavoro per quel che possa valere, anzichè un bene, dovesse arrecarLe comunque angustia di pensieri, preoccupazioni d’impegni o altro.. » (lettera di Luigi Pirandello  a Eleonora Duse, 29 marzo 1923)

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« La ringrazio. Mi era di pena aver ricevuto un lavoro Suo, senza una parola che mi incoraggiasse a dirLe la condizione delle cose che mi circondano. Ecco qua. Del lavoro, Lei, mi consenta, oggi di non parlagliene, - direi così male la profonda impressione, il timore e la nobiltà del rischio di assumere una tale responsabilità e l’attrazione alla lotta che un tale lavoro suscita in me.

 Del Suo lavoro, dunque, parleremo quando potremo; ora, bisogna che io Le dica solo la difficile sosta che sto attraversando. Due mesi fa, son stata presa da un attacco di influenza di tutta la persona, quasi direi: anima e corpo. Ma così velenoso che ancora non ne sono uscita risanata. E da due mesi, non posso affrontare il mio lavoro - e tutto s’è complicato in un modo assai grave intorno a me. Mi lagno, mi lamento, me ne vergogno e non posso che attendere. Se, dunque, Ella vede in me la verità di ciò che dico - non c’è che una sola cosa da fare. Attendere. Ma per conoscere bene e degnamente questa umana parola "attendere", bisogna che vi sia fra Lei e me piena intesa, confiance , e fede. E che nessuno, di fuori, vi metta parole, o mezze parole, o insinuazioni che sciuperebbero tutto. O Lei mi crede, e allora, Ella attende con me, senza dubbi, senza insistenze, quasi direi senza speranze, e allora rimane questo lume acceso sulla mia strada... ».  (lettera di Eleonora Duse a Luigi Pirandello, 31 marzo 1923)

« Sento che debbo attendere e attenderò Stop Pirandello». (telegramma di Luigi Pirandello a Eleonora Duse,  

3 aprile 1923, ore 11.30)

ma Eleonora muore negli Stati Uniti l'anno dopo.