Realtà mafiosa e burattinai
Nota della Casa Editrice "Edizioni della Battaglia"
a cura di Francesco Paolo Castiglione

E’ incredibile la rapidità e la pervasività con cui un certo sistema speculativo violento - che oggi chiamiamo mafia - finalizzato al rapido arricchimento di individui e di gruppi familistici, sia comparso e si sia immediatamente e largamente diffuso, come maligna metastasi, in molti piccoli centri dell’agro palermitano, tra la fine del Settecento e gli anni dell’Unità italiana. Questo lavoro di Gioacchino Nania ne fornisce un esempio da manuale, scoprendo, con impressionante evidenza, lo spessore e l’incredibile ampiezza delle dinamiche mafiose che hanno agito nel piccolo centro di San Giuseppe Jato, condizionandovi, per quasi due secoli, la realtà socioeconomica e politica.

San Giuseppe Jato, naturalmente, non è il solo centro interessato al fenomeno. Molti storici, e non ultimo Salvatore Lupo, hanno indagato la realtà mafiosa della fascia agrumicola palermitana. Chi scrive, nel corso del riordino dell’archivio storico di una famiglia della buona borghesia palermitana, oriunda di Misilmeri, si è trovato a constatare, naturalmente da un limitato angolo visuale quale può essere l’archivio di una sola famiglia, lo stesso tipo di dinamiche. E’ apparso chiaro, dai documenti notarili - molti dei quali relativi ai vari passaggi di proprietà dei cespiti poi pervenuti ai proprietari dell’archivio - che le leggi eversive della feudalità e della manomorta ecclesiastica e quelle relative alla liquidazione delle "promiscuità" feudali, degli usi civici e dei beni demaniali dei Comuni, hanno dapprima favorito il nascere di una forte classe di proprietari, appartenenti alla piccola nobiltà e alle professioni. A Misilmeri, centro feudale dominato dai principi della Cattolica e dai marchesi di Spedalotto, grazie a questi meccanismi e col ricorso generalizzato allo strumento dell’enfiteusi, vediamo emergere piccoli nobili come i Tasca, che ben presto si fregiano dei titoli di principi di Cutò e di Trabia, già appartenuti alle antiche famiglie dei Filangeri e dei Lanza; o come i Pilo, conti di Capaci, già feudo della rinascimentale famiglia dei Bologna. Tra i funzionari pubblici e i professionisti di Misilmeri, spicca l’elevazione sociale della famiglia Paternostro, ben presto trasferitasi a Palermo dove sarà protagonista della vita civile e politica. Tutta gente che parteciperà in diverse maniere, assieme ai facinorosi delle "squadre" di picciotti, ai moti unitari. Basti pensare a Rosolino Pilo, dei conti di Capaci.

Assieme a costoro, vediamo nitidamente emergere altri personaggi, senza che la documentazione e la logica ci aiutino a comprenderne le modalità di arricchimento. Per esempio: un carrettiere, impossidente e analfabeta, che già nel 1863, subito dopo l’avventura garibaldina, è in grado di dotare il figlio, per atto notarile, di appezzamenti di terreno e case. Naturalmente, gli atti notarili non documentano sopraffazioni, violenze e profferte di protezione. Documentano, però, l’usura; e la documentano in una dimensione insospettabile in un piccolo centro come la Misilmeri ottocentesca. Numerosissime sono le vendite con patto di riscatto entro un certo tempo e per un certo importo: nient’altro che pegni reali rilasciati ai prestatori di capitali. Quasi sempre, alla scadenza di queste vendite fittizie segue l’atto di presa di possesso del nuovo proprietario: l’usuraio. E il sistema è tanto generalizzato che i pochi notai attivi sul territorio si fanno predisporre a stampa apposite cartelle-copertine per gli atti di "Mutui privati" e relativi "Atti di quietanza", tutti elegantemente rifiniti con la cura calligrafica ottocentesca. E tra i concedenti di questi mutui, che rodono le proprietà dei debitori, troviamo anche uno di questi stessi notai attivi a Misilmeri. Quasi sempre, sulle proprietà così finite nelle mani dei prestatori di capitali, gravano canoni enfiteutici in favore degli antichi feudatari o del "Fondo per il culto", prova inoppugnabile che si tratta di cespiti assegnati ad enfiteuti in forza delle leggi eversive della feudalità e della manomorta, finiti, come si paventava da più parti, nelle mani degli usurai. Tra le righe non scritte degli atti, si può indovinare la notevole capacità di imposizione del rispetto delle condizioni usurarie da parte di questi finanziatori, in un’epoca e in un contesto dove i morti ammazzati, spesso per molto meno e quasi sempre per conflitti di proprietà, si contano a decine. Un doveroso riserbo professionale nei confronti dei committenti del riordino dell’archivio ci ha distolti da un approfondimento che pur ci tentava; speriamo che queste poche righe invoglino qualcun altro, non vincolato a riserbo alcuno, a farlo.

Anche a San Giuseppe Jato si è avuta una prima fase di arricchimento di una nutrita classe di imprenditori e di professionisti di importanza regionale, sui cui meccanismi di elevazione sociale il lavoro di Nania non indaga. E in parallelo con l’elevazione di questo ceto, esplode, con inequivocabile nitidezza, il fenomeno mafioso; uno dei cui primi obiettivi sarà l’occupazione dell'amministrazione comunale, con la benedizione di settori del clero locale e di politici regionali e nazionali. Nessun legame tra i due fenomeni è desumibile dal pregevole lavoro di Nania; ciononostante, sembra di potersi affermare che, per una sorta di incomprensibile meccanismo - ma forse non tanto incomprensibile se lo si collega ai repentini arricchimenti e al successivo bisogno di protezione dei beni acquisiti - la potenza delle cosche mafiose locali è direttamente proporzionale alla potenza economica e sociale raggiunta da questo nuovo ceto di possidenti.

E non possiamo, a questo punto, non accennare al problema delle cosiddette "relazioni esterne".

Marcelle Padovani, nella sua bellissima introduzione, ricordando la lezione del compianto Giovanni Falcone, esclude categoricamente l’esistenza del "terzo livello" e del "grande burattinaio". Siamo d’accordo con lei, ma a certe condizioni e con alcuni distinguo. Allo stato delle indagini - culturali e giudiziarie - non siamo in grado di affermare che esista un "terzo livello"; ma possiamo affermare, senza tema di smentite, che esistono "reati di terzo livello", come dimostrano, per esempio, i "casi" Salvo, Contrada, Mandalari, Sindona, Siino, e via elencando. "Reati di terzo livello", per stigmatizzare i quali, come ben ha affermato lo storico Salvatore Lupo nel corso di un dibattito più avanti citato, la procedura giudiziaria è spesso strumento non idoneo o inadeguato, e nei cui confronti i giudizi vengono validamente pronunciati dalla storia, con maggiore incidenza, pregnanza e validità di quelli pronunciati dai magistrati. E la società civile e il mondo della cultura hanno il diritto-dovere di pronunciarli, anche in disaccordo con la magistratura: basti pensare alle assoluzioni giudiziarie di tanti importanti personaggi coinvolti nello scandalo della "Banca Romana", condannati, però, dalla storia e dalla pubblica opinione, o alle motivazioni politiche che hanno provocato la strage di Portella della Ginestra, rimaste ignote ai magistrati. Ed hanno il dovere di ricordare alla classe dirigente del Paese le sue responsabilità politiche, anche quelle di carattere etico e morale. Il magistrato persegue - quando lo fa - reati individuali; la cultura, invece, giudica fenomeni sociali e culturali che incidono positivamente o negativamente sull’evolvere dei contesti umani. Le stesse parole di Falcone vanno riferite alla situazione di molti anni fa; il magistrato ignorava alcune cose che il tempo ha poi disvelato, e subiva la pressante necessità di non prestare il fianco ad attacchi politici, possibili in quei giorni e in quel contesto, da parte di chi non aspettava che un suo passo falso per vanificare il suo intero operato. Di conseguenza, non ha toccato il tasto delle "relazioni esterne"; e anche per questo, forse, è caduto; vittima non solo di "cosa nostra", ma anche di "complicità occulte in settori deviati e corrotti delle istituzioni e del mondo politico-economico-finanziario" (Luca Tescaroli, Perché fu ucciso Giovanni Falcone, Rubettino).

In un recente, pregevole ed originale studio sociologico sulla mafia - Mafie vecchie, mafie nuove (Donzelli Editore) - lo studioso Rocco Sciarrone dedica molte pagine di acute analisi al cosiddetto "capitale sociale" della mafia, o delle mafie. Cioè, a quell’assieme di risorse che permettono alla mafia di imporsi su un territorio, di operarvi con successo e di caratterizzarsi. Componente essenziale di questo "capitale sociale" è il controllo del territorio, risultante dalla combinazione estorsione-protezione e dall’esistenza di una fittissima rete di "relazioni esterne", senza le quali la mafia non sarebbe mafia ma delinquenza comune. Relazioni esterne, nel cui ambito Sciarrone individua una scala di "prossimità" mafiosa, che va dall’imprenditore vittima dell’estorsione, che subendo la protezione mafiosa senza ribellarsi, incrementa, suo malgrado, il capitale sociale della mafia, ai "succubi", agli imprenditori "subordinati", ai "collusi" e agli "integrati". Assieme a costoro, danno vita a "relazioni esterne" politici di ogni livello istituzionale e infedeli funzionari dei pubblici uffici. Basti ricordare alcuni recenti - e tuttora insoluti - casi di assassinio di funzionari della Regione Sicilia.

Il libro di Sciarrone è stato presentato a Palermo, nel corso di un dibattito a cui hanno partecipato il penalista Giovanni Fiandaca, il magistrato della Procura di Palermo, Antonio Ingroia e lo storico Salvatore Lupo; dibattito pubblicato sulla prestigiosa rivista palermitana "Segno", diretta da Nino Fasullo. L’analisi di Sciarrone è apparsa a tutti convincente e scientificamente corretta. E tutti hanno lamentato l’attuale disattenzione e la colpevole sottovalutazione, riservate dall’opinione pubblica, ma soprattutto dalle istituzioni, siciliane e non, al problema mafia; un fenomeno tuttora vivo e vegeto e in fase di riorganizzazione "sommersa". Una riorganizzazione che ha l’obiettivo primario di riacquistare un pieno controllo del territorio, attraverso la ricostituzione capillare dei due basilari meccanismi: quello dell’estorsione-protezione e quello delle indispensabili relazioni esterne. Un fenomeno che, in una qualche maniera, non può non essere in itinere anche in un tradizionale centro di mafia come San Giuseppe Jato; Nania, però, non ce ne parla.

Allora, occorre che le istituzioni e l’opinione pubblica restino sveglie e vigili: non esiste, di sicuro, un grande burattinaio; ma esiste un vasto ceto di disponibili insospettabili, che conferisce consistenza e valore al "capitale sociale" della mafia.

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