MAFIA

Alla ricerca dell’etimo

Gaetano Falzone alla ricerca dell’etimo di mafioso scrive a pag. 22 della sua Storia della Mafia(1):

L’Avolio (1875), rivolgendosi al latino vafer, vaferosus (astuto), si distacca notevolmente dalla accezione comune. Ma il vocabolo potrebbe anche derivare dal francese meffler che a sua volta deriverebbe da maufer (il dio del male), di cui parla Loiseleur a proposito dei Cavalieri del Tempio, e Pitrè ricorda.

Con maggiore misura di attendibilità l’etimo si può ritenere di origine araba. E qui c’è da scegliere tra Màhfal che significa "adunanza, assemblea, riunione di molte persone" e mahyàs che significa "spacconeria" decondo il Dozy, e ‘afa che significa "preservare, proteggere, tutelare, garentire qualcuno da qualche cosa" da cui il nome d’azione mu’afàh o "esenzione, immunità, liberazione da ogni gioco, protezione, tutela" o altresì secondo lo Schiaparelli "difendere"".

Sempre, a proposito dell’etimo, Falzone riporta la tesi di Loschiavo (1962) secondo il quale mafia deriverebbe da maha (cava di pietra), e dal fatto che nelle cave di pietra del Val di Mazara (come già un tempo gli arabi respinti dalla conquista normanna verso l’interno) solessero riunirsi i patrioti siciliani in attesa della liberazione e quella del De Gregorio il quale forniva anche giustificazioni fonetiche.

Si finisce sempre col cadere in quel luogo comune laddove si tende a interpretare un termine, un nome proprio, un toponimo, utilizzando il lessico dei vari sistemi linguistici che si sono succeduti in un territorio. Se si considerano le decine di migliaia di termini che costituiscono ciascuna lingua ci si rende conto delle innumerevoli possibilità di spiegazione del significato o dell’etimo di un termine.

Esaminiamo adesso alcune definizioni del termine mafia o maffia nel corso del tempo:

Il Mortillaro nel Vocabolario Siciliano-Italiano del 1876 scrive: "Mafia: voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra".

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(1) - Gaetano Falzone – Storia della Mafia – S.F.Flaccovio, Palermo 1987

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L’Abate Michele Pasqualino da Palermo nel Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino dell’anno 1789 non riporta il termine.

Giuseppe Biundi Vocabolario completo Siciliano-Italiano: anno 1851 non riporta il termine.

Nel Vocabolario italiano della lingua parlata – Firenze 1893 di Rigutini e Fanfani viene riportato: Mafia: nome di un’Associazione segreta che ha per fine il vantaggio dei propri aderenti conseguito con mezzi illeciti. Forse dall’arabo Maehfil = adunanza e luogo di riunione.

In Pietro Fanfani Vocabolario della Lingua Italiana – Firenze 1882 troviamo: Maffia: s.f. Miseria. E’ voce bassa del nostro popolo, la quale peraltro fu scritta anche dallo Zannori nelle Commedie.

P.Petrocchi nel Novo Dizionario Universale della lingua italiana – Milano 1906 riporta: Maffia: Miseria. Unione di persone d’ogni grado e d’ogni specie che si danno aiuto, nei reciproci interessi senza rispetto né a legge né a morale.

Carmelo Scavuzzo nel Vocabolario Siciliano-Italiano 1982 precisa: Mafia: "…appare a Palermo per la prima volta in un documento del 1658 quale soprannome di una strega certa Catarina la Licatisa nomata ancor Maffia". Pitrè e Capuana 250 anni dopo la ritrovano nel dialetto palermitano per indicare bellezza, baldanza, graziosità, perfezione, eccellenza. Di una bella ragazza si dice che è mafiusa o mafiusedda, perfino le stoviglie e la frutta, se di buona qualità, sono "mafiusi veru!". Attribuito ad un uomo l’essere mafiusu indica superiorità, virilità, coraggio. (coraggioso, valente e d’onore)."

In relazione a quanto riportato dallo Scavuzzo appare opportuno precisare che Maffia come nome di persona lo troviamo anche in documenti anteriori: "Disiata Maffia, Cosimano Maffia in Archivio Storico Diocesano di Monreale - Fondo Carte Processuali Sciolte busta 493 Fasc.6" e

Cives Panormi: Disiata Maffia, Cosimano Maffia – anno 1593 – Archivio Storico Diocesano di Monreale – Fondo Carte Processuali Sciolte – Busta 493 Fasc.6 ed anche: "Antonio Maffo civis Panhormi, curatulo. Atto del Notaio Giacomo de Pictacolis – anno 1407 – ASP, Fondo Notai Stanza V n.31". Ma probabilmente tali nomi non hanno nulla a che fare con la Mafia. Sembra che l'antico nome Maffia, probabilmente da leggere Maffìa, abbia una corrispondenza con l'attuale Marfìa, cognome molto diffuso nel comprensorio di Palermo e Monreale.

Castagnola Michele nel Dizionario fraseologico Siciliano-Italiano non riporta il termine.

Nel Vocabolario della Nuovissima Crusca (1767): il termine non è riportato.

Antonino Traina - Vocabolario Siciliano-Italiano – Palermo 1868 riporta: Mafia: Neologismo per indicare azione, parole od altro di chi vuol fare il bravo: sbracerìa, braveria. Sicurtà d’animo, apparente ardire: baldanza. Atto o detto di persona che vuol mostrare più di quel che è: pottata. Insolenza, arroganza: tracotanza. Alterigia, fasto: spocchia.

Mafiusu: Chi opera e si mostra con mafia: sbracione, bravaccio, sbarazzino. Di cosa buona, eccellente nel suo genere: smàfero; tracotante; ardito, valente: sgherro; in buon senso: baldo, baldanzoso; detto di abito bello, ricco ecc.

Vincenzo Nicotra nel suo Dizionario Siciliano-Italiano – Catania 1883 scrive: Mafiusu: di cosa buona, eccellente nel suo genere; per ardito, valente: sgherro; detto in buon senso: baldo, baldanzoso; di abito bello, ricco etc: sgherro; per bravo, esperto: bàrbero (cavallo da corsa, originario della Barberia).

Scrive Giuseppe Pitrè nel 1889: Che cosa sia la mafia io non so dire; perché nel significato che questa parola è venuta ormai a prendere nel linguaggio officiale d’Italia è quasi impossibile definirla.

Ma in un’opera giovanile dello stesso Pitrè - Vocabolario marinaresco siciliano – è riportato: Io son pago di affermare la esistenza della nostra voce (mafia) nel primo sessantennio di questo secolo in un rione di Palermo, il Borgo, che fino a vent’anni addietro faceva parte per se stesso, e si reputava qual era topograficamente, diviso dalla città. E al Borgo la voce mafia coi suoi derivati valse, e vale sempre, bellezza, grandiosità, perfezione, eccellenza nel suo genere…Alla idea di bellezza la voce mafia unisce quella di superiorità e di valentia nel miglior specificato della parola, e discorrendo di uomo, sicurtà d’animo, e in eccesso di questa, baldezza, ma non mai braveria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza. L’uomo di mafia o mafioso, inteso in questo senso naturale e proprio, non dovrebbe metter paura a nessuno perché pochi quanto lui sono creanzati e rispettosi.

Possiamo iniziare col fare un’affermazione: il termine Mafia o Maffia, negli antichi vocabolari consultati, non esiste anteriormente al 1868.

Possiamo anche fare un’altra considerazione: anteriormente al 1848 il termine non è mai riportato da scrittori né alcun ricercatore ha mai trovato il termine in documenti d’archivio. Personalmente, dopo lunghe e attente consultazioni di documenti, a partire dall’XI secolo, nell’Archivio di Stato di Palermo e di Trapani, nonché nell’Archivio Diocesano di Monreale (1), non mi è mai capitato di reperire il termine Mafia.

Facciamo un tentativo. Proviamo a ricercare l’origine della Mafia subito dopo il 1812, anno dell’abolizione dei privilegi feudali.

Non dico nulla di nuovo affermando che quasi certamente gli albori della Mafia sono da ricercare proprio in tale periodo. Sono infatti numerosi gli scrittori di cose di Mafia i quali affermano che l’origine dei mafiosi non è anteriore al 1800. Valga per tutti quanto affermato dal profondo studioso Eric J.Hobsbawn (2) che scrive:

La Mafia non è una istituzione medievale ma del XIX e XX secolo. Il periodo di sua maggiore prosperità si ha dopo il 1890.

Per comprendere il contesto subito dopo il 1812 leggiamo quanto scrive, alla fine del 1800, Gustavo Chiesi nella sua La Sicilia illustrata a pag. 539:

Come il Colajanni afferma, rimontando alle origini di questo grave stato di cose si arriva a rinvenirle nella azione deleteria esercitata dal mal governo dei Borboni che spense in tutti la confidenza nella giustizia collettiva: circostanza gravissima che condusse alla creazione della Mafia, dei Campieri e dei Com-

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(1) Sembra opportuno precisare che sino al 1812, data di abolizione dei privilegi feudali, l’Arcivescovo di Monreale è Vescovo e Signore feudale: a lui, è affidata la gestione della giustizia nella vastissima Area del Monrealese. I documenti, riguardanti processi penali a partire dal 1400 sino al 1812, sono così numerosi da costituire uno specifico fondo archivistico: il Fondo Carte Processuali Sciolte.

(2) Eric J.Hobsbawn: I ribelli – Einaudi – 1966 in "Delle cose di Sicilia" – Collana a cura di Leonardo Sciascia - Sellerio – Vol. IV pag.277 ___________________________________

pagni d’armi. Le quali due ultime istituzioni, privata l’una, pubblica l’altra, ma in senso ristrettissimo, non di origine moderna, rappresentavano organi sopravvissuti, più o meno modificati, della società feudale. La giustizia sotto i Borboni era cosa talmente confusa con gli arbitri polizieschi, che il popolo in ogni accusato finì per vedere una vittima della prepotenza baronale o governativa. La polizia e le autorità giudiziarie stavano infatti agli ordini dei feudatari, che per pecunia o per influenza si trovavano bene con gli alti poteri dello stato. Nacque da ciò, che, venuta meno ogni fede nella equità ed imparzialità di chi stava preposto alla cosa pubblica, grandi e piccoli pensarono tutti a provvedere individualmente alla sicurezza della persona e della proprietà. La giustizia individuale diventa tutto, sostituendosi alla collettiva, diventata nulla. Un balzo indietro, un regresso spaventevole in ogni ordinamento sociale. I ricchi, i nobili, i baroni assoldano bande di campieri, che non differenziano gran che dai sicari, dai bravi, di cui circondavansi i signorotti ed i nobili del Cinquecento e del Seicento, e come questi, i campieri sono scelti fra i più celebri ed arditi malfattori della regione, cui terrorizzano colle loro e le vendette del signore. Indicibili i disordini e le nequizie perpetrate da costoro, nell’ambito delle loro attribuzioni. Esautorato di ogni prestigio, il governo dei Borboni, incapace di frenare gli abusi, che questo stato di cose erigeva a sistema, se ne lavò le mani appaltando la sicurezza pubblica alle Compagnie d’Armi, reclutate fra ladri, banditi e liberati dal carcere, i quali arruolandosi acquistavano la impunità dei precedenti misfatti e si preparavano allegramente a commetterne nuovi, sotto l’egida della legge. Campieri e Compagni d’Arme se la intesero presto, e la loro non fu se non una gara a chi più nuoceva, opprimeva i deboli, gli indifesi, le plebi diseredate. Quindi la reazione di queste coll’ organizzazione della Mafia: e "il popolo - dice Colajanni – contò per le sue vendette sulla Mafia e nel suo codice dell’Omertà, e spesso sul brigante, che riuscì in taluni momenti ad essere considerato come un simpatico e nobile ultore del debole oppresso dal forte!" La vendetta privata più che un diritto ritornò un dovere. Così si spiega "come la Mafia non sia mai stata una delle comuni associazioni di malfattori, aventi per iscopo esclusivo la depredazione della proprietà altrui. Alla Mafia si riattaccavano principalmente i reati di sangue, cosicché arrivarono a far parte della criminale associazione molti individui reputati generalmente onestissimi, ai quali in realtà si potevano affidare con perfetta sicurezza i più vitali interessi, con la certezza di vederli garantiti: e quella sincerità che i singoli individui non si credevano in debito di palesare di fronte alle autorità, si riteneva doverosa verso la Mafia, e tra i Mafiosi osservavasi –scrupolosamente la parola data". Era insomma tutto l’inverso del senso morale: stato di cose, che riattaccandosi al secolo precedente, è durato nella sua massima intensità tutta la metà del nostro secolo, fino al 1860, lasciando radici e polloni che non sì presto, né sì facilmente si potranno strappare e disperdere.

L’identica situazione era riassunta dalla Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla Sicilia istituita con la Legge 3 luglio 1875:

Salvatore Maniscalco costituì le Compagnie d’armi col solito nucleo di facinorosi che a loro volta si circondarono di affiliati o malandrini minori, e così a poco a poco tutti gli elementi torbidi del paese venivano a formare parte dell’organizzazione ufficiale di pubblica sicurezza. Le Compagnie d’armi pel loro ordinamento erano responsabili dei furti e dovevano indennizzare il danno. In fatto, si accordavano coi ladri pei ricatti e coi derubati per le restituzioni. Guadagnavano con gli uni e con gli altri garentendo quei soli che acconsentivano a regolari tributi; abbandonavano gli altri in balia dei loro affiliati; talvolta sui ladri minori o non ascritti al loro sodalizio davano esempi di severità, spingendosi sino a lasciarli trafitti in luoghi remoti; la giustizia, intimorita da quei potenti amici di Maniscalco, non fiatava e non agiva; l’influenza del malandrinaggio ufficiale diventava alta, temuta, quasi riverita dalle popolazioni educate a simile scuola.

Non occorrono ulteriori precisazioni per comprendere che cos’è il mafiuso in questo periodo; cerchiamo invece di capire, alla luce dei pochi elementi disponibili che cosa lo caratterizza.

Scrive Eric H.Hobswaun

I membri delle cosche si riconoscevano fra di loro non tanto da segni convenzionali segreti o da parole d’ordine quanto dall’aspetto, dal vestito, dal modo di parlare e di comportarsi.

Un elemento molto importante, che conferma l’affermazione di Hobswaun, è riportato da S. Nicastro il quale dopo avere narrato l’arrivo alla Vicaria di Trapani dei liberali mazaresi arrestati dopo la fine della rivoluzione del 1848 scrive:

La mattina di buon ora – racconta molti anni dopo il Di Giorgi che era fra gli arrestati – un domestico che ci aveva accompagnato da Mazara ci fece arrivare un gran vassoio di fichidindia che non assaggiammo neppure: s’aveva altro per la testa! Poco dopo ci si presentò un bell’uomo, alto e robusto, vestito accuratamente, con un berretto rosso fiammante alla sgherra e un gran fiocco scarlatto che gli scendeva sulla spalla. L’abito e il portamento lo rivelavano per un mafiuso. Si levò il berretto: Bacio le mani. Sono venuto a prendere i loro ordini, che cosa comandano? Tutta la camerata è a loro disposizione. Mentre lo ringraziavamo per la sua gentilezza, venne il carceriere per rinchiuderci in celle separate. Il mafiuso non ci lasciò prendere i nostri mantelli: Vadano pure giù; ora i picciotti porteranno a posto i cappotti e il piatto di fichidindia. Lo pregammo di distribuire quel po’ di frutta ai suoi. No, signori – ci rispose – i picciotti li ringraziano cordialmente del gentile pensiero, ma essi non toccano la roba dei galantuomini. Curò che ci venissero portate le nostre cose e, quando fu tutto a posto, si licenziò dicendo: Io mi chiamo Catalanotta, se hanno bisogno di me mi facciano avvertire, e tutto quello che desiderano sarà fatto"

Interessante risulta, in questo passo, il termine picciotti: essi sono i compagni dei mafiusi. Il termine lo troveremo, oltre che nella rivoluzione del 1848, soprattutto nel 1860 e nel 1866: sono i picciotti che ingrosseranno le fila dei Mille di Garibaldi; sono i picciotti del mafioso-brigante Turi Miceli di Monreale che, nella rivolta del Sette e Mezzo, si faranno massacrare davanti al carcere dell’Ucciardone di Palermo nel tentativo di liberare i prigionieri politici del Partito d’Azione di Mazzini e Garibaldi e soprattutto il loro capo Giuseppe Badia.

Se dovessimo descrivere il mafiuso in questo periodo, utilizzando quanto riportato dal Chiesi e dal Nicastro, potremmo abbozzare la seguente definizione:

mafiuso = bell’uomo, alto e robusto, vestito accuratamente, con un berretto rosso fiammante alla sgherra e un gran fiocco scarlatto che gli scende sulla spalla, gentile. Certamente non appartenente ad una setta o associazione segreta, altrimenti non si spiegherebbe l’ostentazione del modo di vestire e del portamento. Ed ancora: difensore dei deboli, uomo che mantiene la parola data, omertoso; ma anche vendicatore di fatti privati con ricorso, se necessario, all’assassinio e, volendo utilizzare un’espressione usata sino ai nostri giorni, uomo d’onore: quando l’onore, nell’accezione sicula del termine, aveva il senso di medievale cavalleria.

Se proviamo a questo punto a confrontare una tale definizione con quelle riportate dal Pitrè e da altri scrittori subito dopo il 1860, ci accorgiamo della quasi perfetta corrispondenza delle definizioni.

Proviamo adesso a cercare l’origine del termine mafiuso.

Illuminante risulta un termine riportato nel Vocabolario Siciliano-Italiano del Traina nel 1868. E’ scritto a pag. 550:

Maffi: s.m.pl. Strisce di pelle che dalla groppiera del fornimento dei cavalli, scendono pei fianchi e tengono alte le tirelle: reggitirelle.

Bisogna innanzitutto precisare che le reggitirelle (o maffi), nella bardatura del cavallo non sono elementi essenziali; costituiscono, invece, un elemento decorativo e ornamentale che evitano alle tirelle di incurvarsi verso il basso. In genere, come sostiene qualche persona più anziana, sotto il nome di maffi andavano buona parte degli elementi che servivano d’ornamento e abbellimento nella bardatura del cavallo ivi compresi gli specchietti circolari attaccati alle cinghie di cuoio. Una tale posizione è rafforzata dal fatto che il termine risulta essere, come riporta il Traina, difettivo del singolare.

Ma allora, nel dialetto siciliano, un cavallo bardato e ornato con maffi, che cos’è se non un cavaddu maffiusu?

Ci accorgiamo allora che alcune delle qualità e delle peculiarità attribuite al cavallo bardato quali bellezza, baldanza, accuratezza nei finimenti ecc. sono le stesse che i vari Pitrè, Traina, Nicastro riportano per definire quelli che, per accostamento o, se si preferisce, in maniera metaforica, erano stati chiamati maffiusi o mafiusi.

Diventa spiegabile l’uso del termine Maffia scritto con doppia f (1).

Se allora, per l’epoca di cui trattiamo, poniamo l’equivalenza mafiusu = bello, baldanzoso in maniera appariscente diventano spiegabili molte delle espressioni riportate da vari autori: frutta mafiusa, stoviglie mafiusi, fimmina mafiusa, vestito mafiusu e così via.

Diventa anche spiegabile la definizione data dal Mortillaro nel Vocabolario Siciliano-Italiano del 1876 allorchè scrive: Mafia: voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra.

Evidentemente, anteriormente al 1860, esistevano i mafiusi ma non la mafia, intesa come organizzazione. E’ molto probabile che il termine maffia o mafia sia stato coniato proprio dal governo piemontese per indicare i mafiusi o maffiusi che già sin dai primi anni dell’Unità d’Italia, se non addirittura qualche anno prima, cominciavano a costituire quell’organizzazione endemica e deleteria che siamo abituati a conoscere sino ai nostri giorni.

(Gioacchino NANIA)

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(1) Il termine risulta indifferentemente riportato Maffia o Mafia un po’ in tutte le epoche. In numerosi documenti degli anni 1920-1930 è ancora riportato Maffia. Sembra che non vi sia alcuna differenza tra l’uno e l’altro.