Introduzione di
Marcelle Padovani
Sono stata colpita anch'io dal valore
metaforico, dal punto di vista della mafia, di San Giuseppe Jato.
Era il Natale del '98. Ero lì a intervistare il sindaco, Maria Maniscalco, per il mio
giornale.
Mi saltò agli occhi la concentrazione di tematiche mafiose (ed antimafiose) che questa
piccola città della provincia di Palermo accumulava.
C'era in giro la "carovana antimafia". C'erano Falcone e Borsellino sulla
facciata del municipio. C'era il sindaco, impegnato a fare chiarezza nell'amministrazione
comunale. C'erano le iscrizioni sui muri. E c'erano anche i "mostri di Cosa
Nostra", ben presenti, quasi palpabili, i Brusca, i Di Maggio, i Siino, tramite le
loro donne, imperterrite e a volte arroganti. In mezzo a una popolazione che "si
sentiva presa in ostaggio sotto il tiro incrociato dei pentiti nemici" (così
scrissi).
Ma mai avrei immaginato quanto questo primato "mostruoso" avesse radici così
lontane e così profonde.
L'ho capito leggendo il libro di Gioacchino Nania.
L'ho letto d'un fiato, non lo dico per retorica. Oltre alle sue qualità espositive e alla
sua costruzione convincente, "San Giuseppe e la mafia" mi è apparso subito come
un esempio di ricerca sociologica, lo studio di una realtà locale col senso della sua
rappresentatività generale.
Seguendo le ricerche di don Giuseppe, principe di Camporeale, personaggio altamente
emblematico, a metà strada fra Candide e Giufà, sempre in cerca di ragionamenti logici,
si capisce perché, quando e come si sviluppa la mafia.
"San Giuseppe e la mafia", ricostruzione metodica dei meccanismi
dell'insediamento e del radicamento mafioso sul territorio, fa capire col massimo della
concretezza la funzione decisiva svolta dall'abolizione del feudalesimo, il ruolo
contraddittorio della Chiesa, e quello, ancora più paradossale dello Stato,
nell'affermazione di Cosa Nostra in Sicilia.
A questa lettura documentata dei processi di formazione mafiosa, che delinea un
"ideal-type" alla Max Weber, si accede con stile ironico, e con la passione
civile tipica di molti Siciliani illuministi: è proprio vero che il racconto
"voltairiano" corrisponde bene a questa mentalità insulare alla ricerca perenne
della ragione.
Sociologo e cittadino, Gioacchino Nania si dimostra così maestro nel raccontare la mafia
vera, tangibile, quella che fa soffrire al quotidiano, e attraverso i secoli.
Ecco: uscendo, appunto, dalla concretezza vissuta, c'è un punto, un solo punto di analisi
col quale mi permetterò di dissentire con Nania. Riguarda il "terzo livello".
Lo so che la mafia ha avuto, ed ha, degli alleati anche molto potenti. Ma non credo, per
dirla brevemente e prosaicamente, che ci sia qualcosa "al di sopra della mafia",
degli uomini, dei livelli decisionali, degli interessi potenti e occulti che
spiegherebbero la vitalità di Cosa Nostra e la difficoltà a sradicarla. Penso invece che
la mafia, "essendo un fenomeno umano, ha avuto un inizio, e un culmine ed avrà una
fine". E che bisogna convincersi, per lottare efficacemente contro la mafia che non
c'è la mano oscura di un eventuale puparo dietro le cose di Cosa Nostra.
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