Città di MONREALE

Provincia di Palermo

 

 

 

Relazione storica sulla viticultura nei territori dei Comuni di: Monreale, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Piana degli Albanesi, Santa Cristina Gela, Camporeale, Corleone.

 

a cura del prof. Giuseppe Schirò

e dell’ing. Gioacchino Nania

 

allegata alla richiesta del marchio

VINI D.O.C. "MONREALE" 

Monreale, ottobre 1998

  

Sommario

Bibliografia

pag. 3

Introduzione

" 4

La vite ed il vino

nell’antichità

" 9

nell’epoca araba

" 12

nell’epoca cristiana e moderna

" 17

Il consumo del vino

rivelo, trasporto, commercio

" 28

Conclusione

" 39

Appendice 1

Relazione del cav.Lioy del 1784

" 40

Appendice 2

Cantina alla Chiusa dei Ferrara-Ferrante

" 51

 

Bibliografia

Fonti edite

Amari, Michele

Biblioteca arabo – sicula

Torino, 1880

Amari, Michele

La Guerra del Vespro siciliano

Palermo, 1969

Amari, Michele

Storia dei Musulmani in Sicilia

Catania, 1935

Arcadipane-Balletta-Miceli

Le pergamene del monastero di santa Maria del Bosco di Calatamauro

Palermo, 1991

Barone, Giuseppe

Egemonie urbane e potere locale (1882 – 1913

Torino, 1987

Casarrubea, Giuseppe

Uomini e terra a Partinico

Palermo, 1981

Cicerone

In Adolf Holm – Storia della Sicilia nell’antichità

Palermo, 1871

Del Giudice, Michele

Descrizione del Real Tempio e del Monasterio di S. Maria Nuova in Monreale

Palermo, 1702

Diodoro Siculo

In Adolf Holm – Storia della Sicilia nell’antichità

Palermo, 1871

Fazello, Tommaso

Storia di Sicilia

Palermo, 1817

Gabrieli, F. – Scerrato, U.

Gli Arabi in Italia

Milano, 1979

Garufi, Carlo Alberto

Catalogo illustrato del Tabulario di S. Maria Nuova di Monreale

Palermo, 1902

Gregorio (S.) Magno

Epistole in Gaspare Lancia di Brolo – Storia della Chiesa in Sicilia

Palermo, 1884

Holm, Adolf

Storia della Sicilia nell’antichità

Palermo, 1871

Nanìa, Gioacchino

Toponomastica e topografia storica nelle valli del Belice e dello Jato

Palermo, 1995

Pace, Biagio

Arte e civiltà della Sicilia Antica

Milano, 1958

Pirri, Rocco

Sicilia sacra

Palermo, 1702

Plinio

In Adolf Holm – Storia della Sicilia nell’antichità

Palermo, 1871

Plutarco

In Adolf Holm – Storia della Sicilia nell’antichità

Palermo, 1871

Ranzano, Pietro

De auctore, primordiis et progressu felicis urbis Panormi in L.Sciascia - Cose di Sicilia

Palermo, 1987

Silio Italico

In Adolf Holm – Storia della Sicilia nell’antichità

Palermo, 1871

Stefano Bizantino

In Adolf Holm – Storia della Sicilia nell’antichità

Palermo, 1871

Strabone

In Biagio Pace – Arte e civiltà della Sicilia Antica

Milano, 1958

 

Fonti inedite

Archivio storico diocesano, Monreale - Fondo Registri Corte - Acta Curiae Civitatis e Fondo Mensa

Biblioteca Regionale Centrale, Palermo – Tabulario S. Maria Nuova, Monreale

Archivio di Stato di Palermo – Fondo San Martino delle Scale

Sigle adoperate

Arch.Reg.

Archivio storico diocesano Monreale – Fondo Registri della Corte – Sez. VII Acta Curiae Civitatis

Arch.Mensa

Archivio Storico Diocesano – Monreale – Fondo Mensa

Introduzione

Per lo studio delle colture nel territorio monrealese, il periodo normanno rappresenta quel momento storico che costituisce il punto di arrivo di un lungo passato e che ha un diretto rapporto col presente.

Attorno alla metà degli anni ’70 del XII secolo, il re normanno Guglielmo II d’Altavilla, poi detto il Buono, fonda l’Abbazia di Santa Maria la Nuova di Monreale dotandola di una lunga serie di privilegi e di possessioni e ben presto elevata in Arcivescovado.

La parte principale dei possedimenti è costituita dai territori di Jato, Corleone, Calatrasi e Batallaro: una superficie vastissima, oltre 1000 kmq. Le conseguenze della vastità di queste donazioni si risentono ancora ai nostri giorni: basti pensare all’enorme estensione del territorio del Comune di Monreale, ottenuto dalla maggior parte di quello dell’Arcivescovado, in seguito all’abolizione dei privilegi feudali, avvenuta nel 1812, che mise fine all’esercizio dei poteri temporali da parte dell’Arcivescovo.

Nel maggio del 1182, con un solenne atto redatto nelle tre lingue ufficiali dell’epoca normanna - greca, latina ed araba - atto controfirmato dall’Arcivescovo di Palermo Walter of the Mill (Gualtiero Offamilio), dal Vicecancelliere Matteo d’Aiello e dall’Eletto di Siracusa, il potente inglese Riccardo Palmer, vengono specificati i confini dell’area concessa. Tali confini, utilizzando la toponomastica attuale e seguendo un verso di percorrenza orario, partivano da Pioppo per continuare con Piana degli Albanesi, Santa Cristina Gela, Marineo, Godrano, Corleone, Prizzi, Palazzo Adriano, Chiusa Sclafani, Sambuca di Sicilia, Santa Margherita Belice, Poggioreale, Alcamo, Partinico, Borgetto, Montelepre.

Per diversi secoli l’intero territorio sarà caratterizzato da una propria identità politica, culturale ed economica di cui Monreale, meglio il suo potente Arcivescovado, costituirà il principale polo di riferimento e di aggregazione. Corleone, Piana degli Albanesi, San Giuseppe li Mortilli (oggi Jato), Camporeale, San Cipirello, Roccamena nascono o si trasformano sotto la vigile e attenta direzione dell’Arcivescovado. Non c’è attività economica nel territorio che sfugga al controllo e alle direttive del Primate di Monreale, Vescovo e Signore temporale: agricoltura, boschi, allevamenti, attività estrattive, produzione del ghiaccio (neviere), caccia (carnaggio), mulini, trappeti, fondachi e taverne costituiranno per lunghi periodi una immensa fonte di introiti, utilizzata sia per l’esercizio religioso ed il mantenimento di un vasto apparato burocratico, sia per la manutenzione e la salvaguardia del maestoso Duomo di Monreale.

Anteriormente alla donazione di Guglielmo, almeno a partire dal VI secolo a.C., lo stesso territorio è caratterizzato dalla presenza di un altro polo di riferimento: l’antica Jato, città di cui le fonti storiche sono un po’ avare. Infatti viene solo citata da Filisto (Iaitìa polis Sikelìas), Cicerone (Ietini), Plinio (Jetenses), Plutarco (Ietai), Diodoro Siculo (polis Jaitinon), Silio Italico (celsus Jetas) ma che l’indagine, condotta da una missione archeologica dell’Università di Zurigo, sotto la direzione del prof. Hans Peter Isler, ha dimostrato trattarsi di una importantissima città; ne sono testimonianza un teatro di 4400 posti, il terzo della Sicilia dopo quelli di Siracusa e Tindari, due bouleuterion, cioè sale consiliari (caso unico tra le città dell’antichità), l’agorà ed altri interessanti templi ed edifici pubblici.

Oltre a Jato, in questo territorio, nacquero, vissero e scomparvero città come Entella, Adranon, Ippana, e molte altre, soprattutto città sicane, non ancora individuate sul territorio, ma delle quali gli storici riportano le denominazioni: certamente si trovavano all’interno del territorio in esame Hiccara, Makella e Schera; probabilmente anche Indara, Crastos, Uessa, Miskera, Adrix. Tale territorio risentì inoltre l’influenza di importanti città finitime: Agrigento, Triocala-Caltabellotta, Selinunte, Segesta, Lilibeo-Marsala, Erice, Panormo.

Oggi i confini del territorio di Monreale ricalcano in buona parte quelli della donazione di Guglielmo del 1182 – come si è detto - ed all’interno di tale vasta area i territori di alcuni degli attuali comuni – San Giuseppe Jato, San Cipirello, Roccamena – costituiscono delle vere e proprie isole.

Denomineremo questo territorio Area del Monrealese includendovi anche l’attuale Conca d’Oro, perché per lungo tempo e fin oggi, buona parte di essa è stata soggetta alla giurisdizione di Monreale. Per comodità di esposizione i toponimi all’interno di tale area saranno riportati in neretto.

Non v’è dubbio che in ogni epoca, come anche ai nostri giorni, l’agricoltura ha costituito l’attività prevalente in tale area. A seconda delle epoche è testimoniata la coltivazione di lino, canapa (cannavo), cotone, riso, orzo (orio), avena, cimino (giugiulena), fichi, nespoli, zafferano, fave, ceci (chichiri), lenticchie, fagioli (fasola), mirtillo (mortille), zucchero (cannamele), seta, mele, pere, albicocche (barkòk, varcocu), pianta del sapone (saf-saf, sapindus mukorossi). Ma, come in tutta la Sicilia, le coltivazioni principali sono sempre state rappresentate da grano, vite e ulivo. Mentre della coltivazione del grano e della vite troviamo testimonianze nel tempo senza soluzione di continuità, la coltivazione dell’ulivo sembra invece aver subìto una lunga interruzione, se non addirittura la scomparsa, nel periodo tardo bizantino ed arabo.

Per la compilazione di questa relazione ci siamo avvalsi di due categorie di testimonianze: quelle edite e quelle inedite. Quelle edite sono costituite da testi di autori classici dell’antichità e da opere storiche; quelle inedite dalla documentazione formata dal Tabulario di S. Maria Nuova di Monreale conservato presso la Biblioteca Regionale Centrale di Palermo. I tabulari sono le raccolte degli atti originali della concessione dei privilegi e delle donazioni dall’epoca dei Normanni sino alla fine del medio evo. Si tratta di pregevolissimi documenti in pergamena. Ma per questi ultimi cinque secoli abbiamo utilizzato la documentazione conservata presso l’Archivio storico diocesano di Monreale, compresa nel Fondo Registri della Corte, Sez. II, Serie VII Acta Curiae Civitatis, che riguarda le attività della città di Monreale e del suo territorio, sotto l’aspetto amministrativo ed economico, e la documentazione compresa nel Fondo Mensa arcivescovile, che riguarda appunto la gestione del territorio della Diocesi e, pertanto, di quello di Monreale.

La vite e il vino

Nell’antichità

Se il popolo ebraico, nella Bibbia, fa risalire a Noè la coltivazione della vite e la prima ubriacatura del genere umano, non meno suggestiva e lontana nel tempo è la testimonianza della presenza del vino in Sicilia. Anche qui la storia del vino inizia con una famosa ubriacatura: Ulisse, come riporta Omero nel libro IX dell’Odissea, mescendo vino rosso a Polifemo, riesce a liberare sé e i suoi compagni dal ciclope.

Una storica ubriacatura, stavolta di gruppo, determina secondo Diodoro Siculo, durante la prima guerra punica, le sorti di una battaglia nel nostro territorio. Nel 251 a.C. il generale cartaginese Asdrubale, della nobile famiglia dei Barca, dopo aver fatto preparativi per circa tre anni a Lilibeo (Marsala), con un esercito di 60.000 soldati e 140 elefanti, attraverso la duscorìa Selinountìa, ossia attraversando quasi interamente l’Area del Monrealese, tenta di riconquistare Palermo difesa dall’esercito romano. Viene però sconfitto sotto le mura della città dal console Cecilio Metello al quale, successivamente, verrà concesso il trionfo. Diodoro Siculo addebita la sconfitta del generale cartaginese alla sua notevole imprudenza: non si era munito di un accampamento alle spalle e, soprattutto, non aveva tenuto nella dovuta considerazione il fatto che buona parte del suo esercito mercenario, i Celti, poco prima della battaglia si era ubriacata. Nell’antichità, prima della battaglia, non era insolito il ricorso ai fumi dell’alcool per superare la paura dello scontro; si può supporre che, in quell’occasione, la bontà e l’alta gradazione del vino siciliano abbia giocato un suo ruolo sul comportamento dei mercenari celti.

Sull’origine della vite in Sicilia, ai tempi del Fazello, attorno alla metà del 1500, si riteneva che si fosse in presenza di una pianta spontanea: Ogn’un sa medesimamente che le viti nascono in Sicilia da loro stesse. E benché ei si dica che Aristeo fu il primo che la ritrovasse sul monte Etna, come scrive Polidoro Vergilio, falsamente attribuendo a Ateneo ch’egli abbia detto questo, la quale non fu ritrovata nel monte Etna, ma nell’Etolia come scrive Ateneo nel primo libro.

Attraverso Plinio sappiamo che la eugenia vitis di Taormina venne trapiantata sui colli Albani nel Lazio.

Numerosi sono inoltre i riferimenti degli storici che, nel periodo ellenistico e romano, assicurano la coltivazione della vite in Sicilia. Strabone riporta che il vino Mamertino presso Messana (Messina) poteva gareggiare con i migliori vini d’Italia e, molto degnamente, trovava posto nella tavola di Giulio Cesare; analogamente il vino dell’Etna. Plinio vanta le qualità del vino rosso del Faro, di un vinum potulanum e Tauromenitanum; inoltre accenna ad una vitis Murgentina e al mosto d’Alunzio. Diodoro Siculo riferisce del vino di Triocala (Caltabellotta-Sant’Anna) territorio confinante con l’Area del Monrealese.

Troviamo anche un vino dell’antichità all’interno del nostro territorio, il vino di Entella: largoque virens Entella Liaeo (la verdeggiante Entella col generoso Lièo) scrive Silio Italico. Il vino di Entella doveva essere particolarmente apprezzato se induceva il Fazello a fare la considerazione che segue: …i vini Entellani e Inittini sono molto celebrati da Strabone nel sesto e da Pausania nel VII. Ma ei non son tanto celebrati da loro quanto oggi desiderati da noi. Ed il Fazello, nato nella vicina Sciacca, doveva proprio intendersene!

Trattando inoltre di vini nell’antichità in Sicilia così continua Tommaso Fazello: Il medesimo Plinio, nel 14° libro al Cap.9, dice che in Sicilia si fa il vino Balinzio, ch’ha il sapore di quello che da’ Latini è domandato (denominato) Mulso, il quale è una specie di vino ch’ha del melato, ond’io mi stimo ch’il vino Balinzio sia quello che da’ Siciliani è detto moscatello dolce, perché l’uve, di cui sono molto ingorde l’api, onde furono dette apiane, sono ancora molto amate dalle mosche, per le quali le dette uve hanno preso il nome di moscatelle, secondo che scrive Columella, dalle quali si spreme un vino soavissimo, che si chiama moscatello, benché siano molti che dicono ch’egli ha questo nome dal moscado, di cui par ch’abbia l’odore.

Virgilio nell’Eneide in occasione dei ludi in onore di Anchise in Sicilia, dove primeggiano i prodi Aceste, Elimo ed Entello, fa riferimento al vino utilizzato nelle libagioni: E sì dicendo, del materno mirto - le tempie adombra: fan lo stesso Aceste, - d’anni già carco, ed Elimo e il fanciullo - Ascanio, e dopo lor la rimanente - accolta gioventù. Son mille e mille - seguaci e, sciolta l’adunanza, in mezzo - a gran folla di gente Enea s’avanza al sepolcro del padre: ivi libando - secondo il rito versa al suol due tazze - di puro vino, due di fresco latte…

E subito dopo: Ei poscia ritto in su la prora - e avvinto il crin di foglie di cimato olivo - stringe in mano una coppa e le fumanti - viscere gitta ai flutti in mezzo, e sopra - versa liquido vino.

Anche nei primi secoli dell’era cristiana è testimoniata la coltivazione della vite nell’Area del Monrealese.

Nell’anno 603 in una lettera di San Gregorio Magno viene fatto riferimento alla vendita di vino prodotto dalle vigne della Chiesa palermitana. E da un’altra lettera dello stesso Gregorio Magno, del febbraio 599, indirizzata al defensor (avvocato) Fantino per un processo del magister militum (comandante militare) Maurenzio contro la Chiesa palermitana, si rileva che la Massa (l’insieme dei possedimenti terrieri) Getina (Jatina) - corrispondente alle attuali contrade Dammusi, Signora, Chiusa e Fegotto (territori di Monreale e San Giuseppe Jato) - apparteneva alla Chiesa palermitana.

Per il periodo bizantino si trova un riferimento al vino nel trapianto dell’uva Malvasia. Scrive Adolf Holm: Le comunicazioni della Sicilia coll’Impero bizantino erano mantenute specialmente per mezzo del porto peloponnesiaco di Monembasia (nell’antichità detto Epidauros Limera). Una prova delle strette relazioni tra questo porto e l’occidente si ha ancora nella diffusione dell’uva Malvasia, la quale proviene da Monembasia (Malvasia)

Nell’epoca araba

Si ritiene in genere che nel periodo arabo e arabo-normanno il consumo del vino sia scemato se non addirittura scomparso in conseguenza dei dettami del Corano che proibivano l’uso di alcolici. Dalla lettura di numerosi documenti, come vedremo, si dimostra esattamente il contrario: la vite era coltivata, il vino consumato e, soprattutto, le sue qualità erano esaltate ed osannate dai numerosi pii poeti arabi di Sicilia.

Attorno all’anno 1000, una sorta di manuale – il Kitab al Falahah (libro dell’agricoltura), redatto dall’illustre Sceìk Abu Zakarìa Yahya ibn Muhammad ibn Ahmad ibn al Awwam, al Isbili (da Siviglia) – descrive come viene preparato un tipico vino siciliano: Altra specie di vino aromatico secondo il libro intitolato Al Qasd wa al bayan di Ibn Basal, cioè manipolazione del musannab col succo di uva dolce, sì che somiglia al miele mescolato con l’acqua.

Si prenda un ratl (libbra) di senape buona e venti rub di succo d’uva dolce, si faccia in polvere la senape, la si crivelli e la si mescoli con quantità sufficiente di miele. S’abbia poi un vaso di terracotta nuovo, che da circa due giorni sia stato ripieno d’acqua dolce e, votata poi quella, sia stato lasciato all’aria aperta per un giorno. Si unga il vaso al di dentro con quell’impasto di senape e miele, stendendolo molto pari e si lasci così per un giorno. Poi si prenda del succo d’uva dolce assai, si chiarifichi e si versi lieve lieve nella giara fino all’altezza di quello strato di mistura. Il mosto rimarrà dolce, senza cattivo sapore, senza vestigia né gusto di senape, anzi durerà lungo tempo e diverrà sempre più delicato e più dolce. Si prepara così in Sicilia. Questa ricetta è eccellente e Ibrahim ibn Muhammad ibn al Bassal avverte non averne mai sperimentata, in tal genere di liquori, altra che faccia buona prova al par di questa.

Il siracusano Ibn Hamdìs (1055-1133) è ritenuto il più grande poeta siciliano del periodo arabo. Scrive di lui Francesco Gabrieli: lasciò la Sicilia, invasa dai normanni, sui vent’anni e non la rivide mai più; ma il ricordo della patria gli rimase in cuore per il resto della sua lunga vita. Il rimpianto e la rievocazione della sua giovinezza trascorsa in Sicilia trovano riferimento nelle allegre bevute con brigate di amici.

Dal diwan del valente, erudito, perfetto ed arguto poeta, lo sceìk Abd al Gabbar ibn abi Bakr ibn Muhammad ibn Hamdìs, il Siciliano di Siracusa, che Iddio lo ricopra col manto della sua misericordia. Amen.

Una monaca aveva chiuso il suo convento,- e noi con la notte andammo a visitarla. - Ci guidò a lei il profumo d’un vino, che rivela al naso i suoi segreti.- Gettai la mia moneta d’argento sulla bilancia di lei,- ed ella dalla botte spillò il liquido oro. …Vino di colore ed odor di rosa,- mescolato all’acqua ti mostra stelle tra raggi di sole.- Con esso cacciai le cure dell’animo,- con una bevuta il cui ardore serpeggia sottile, quasi inavvertibile.- L’argentea mia mano, stringendo il bicchiere,- ne ritrae le cinque dita dorate. - Vino fresco le cui bolle della coppa sembrano cave perle.- Ha il color dell’anemone del prato,- e di esso nella coppa sembra stendersi un manto.-… La coppa raccoglie questo vino spillato dall’anfora, - coppa sì vasta che ti sembra la sua cavallerizza. - Ecco una ragazza che il mesce,- tenendo in mano il collo dell’otre di gazzella e stringendolo tra le dita.- Reca in giro rubino e perle:- nell’acqua di questa immerge il fuoco di quello. - Ecco de’ valorosi giovani, la generosità delle cui schiatte - e la nobiltà è chiara come i raggi delle stelle. - Recasi in giro nella brigata un vino, - che empie le coppe co’ suoi splendori e vince le tenebre della notte. - Vino le cui schiume s’intrecciano e fan come una rete, - da chiappar quanti aleggiano intorno. - Conosco una suora che sbarrava il chiostro; - ma noi soleasi andar a farle visita la notte. - Guidati dalla fragranza d’un liquore, - che subito svela al naso il suo segreto. - …Amici d’adolescenza, - che si passava insieme il tempo tra vino e lascivie: - felici loro poiché le mani del tempo non li hanno svaligiati. - Se ne bevea del vecchio. - Oh concedi ch’io ricordi da quanti anni era in serbo; - ché a contarli non bastan più le dita. - Liquore di tal forza che quand’ei ti penetra in corpo, - ti senti or andar a galla or cascare in fondo.

Oltre ad Ibn Hamdis sono numerosi i poeti siciliani che inneggiano al vino e alle sue qualità:

- Abù Abdallàh Muhammad b.Abdallàh b.al Husayn b. al-Qattà:

Il vino ci aiuta con la gioia: - cessa dunque dal montare i giovani e forti cammelli. - Cessa dal piangere per una dimora distrutta, i cui resti sono già consumati. - E vieni di buon’ora a visitare il vino, - il cui suono di fermentazione si allontanò dopo altri suoni di fermentazione.

- Abù Ali al Husayn b.Ahmad b.Muhammad b.Ziyàdat Allàh as Sadi:

…Sarei venuto, per l’ardente amore, - a visitarti camminando anche sulla mia faccia o sul mio capo, - per essere entrambi insieme simili, - per la nostra unione, al vino e all’acqua, - che sono frammisti in un sol calice.

- Abù al Hasan Ahmad b.Nasr al-katib:

Un certo vino, puro di colore, fresco, fatto venire da lontano, - che scaccia le tristezze - se vien mescolato coll’acqua, tu immagini che nel suo calice - sia penetrata una solida pietra preziosa di giacinto - e un tal giovane che ha larghi il bianco e il nero degli occhi, - se la moglie del principe lo avesse veduto, - si sarebbe prostrata dinanzi a lui adorandolo. - Sembra che la luna nuova sia madre di lui - e che il sole del giorno ne sia il padre. - E se nega ciò il sole che si eleva maestoso sull’orizzonte, - noi portiamo a testimonio in favore di lui le sue bellezze. - Egli porge con frequenza da bere - e canta melodiosamente al suono del suo liuto. - Per Dio! È necessaria una ubriacatura, - che faccia gioire noi, e rechi tristezza agli invidiosi…

- Abu Ali al-Husayn b.Ahmad al katib:

O bevanda simile per trasparenza al miraggio; - la mia tranquillità e il mio tormento son nel berla. - La giovine donzella - mi porse quel che aveva lasciato in un calice pari alla mia canizie, - e una ebbrezza simile al brio della gioventù. - Il bicchiere conservò un vino rosso simile alle guance dell’amata - ravvolte da un velo trasparente. - Sembrava che il bicchiere fosse…e che fosse il vino dell’amoreggiare.

Ed ancora:

- Abu al Fadl Ga’far ibn al Barun il Siciliano del quale dice l’antologista di al Mahdiah che questi fu dei più singolari autori di ottimi versi e ne reca alquanti che trattano del vino e ricreano gli spiriti.

- Abu al Qasim Abd ar-Rahman b. al Hasan al katib

- Abu al Hasan Alì b.Muhammad b. al-Khayyàt ar-Rabi

Dalla lettura dei versi sopra citati si potrebbe pensare a dei poeti trasgressivi e irrispettosi dei dettami di Maometto; ma il poeta Abd ar Rahmàn ibn Muhammad ibn Umar al Butiri as Siqilli, il siciliano di Butera, era addirittura lettore del Corano.

E allora?

Si potrebbe azzardare una spiegazione, in verità molto approssimativa, secondo la quale Maometto, quando scriveva il Corano, non poteva minimamente supporre che i suoi discepoli avrebbero diffuso l’Islam anche in una regione come la Sicilia da sempre caratterizzata dalla bontà dei propri vini. Molto più opportunamente, invece, si può fare riferimento, oltre alla nota tolleranza araba, alla loro grande capacità di assimilare culture, o parti di culture, diverse dalla propria. E nella cultura dei popoli cristiani conquistati il vino, come diremo in seguito, era tenuto nella massima considerazione.

Scrive l’Amari a proposito di Abd ar-Raman di Butera che era recitator del Corano e letterato da sostener il paragone co’ più celebri suoi contemporanei. Scrisse una qasidah in lode di Ruggero il Franco, principe di Sicilia; nel qual componimento il poeta descrisse gli edifizi ed eccelsi del Re (al Manani). Al Manani era il parco reale arabo-normanno ubicato tra Piana degli Albanesi e Marineo in una contrada ancora oggi denominata Parco Vecchio.

Canta Abd ar-Raman di Butera nella traduzione di Francesco Gabrieli: Fa circolare il vecchio vin dorato, e bevi da mattina a sera. - Bevi al suon del liuto, e dei canti degni di Ma’bad. - Non v’è vita serena se non all’ombra della dolce Sicilia, - sotto una dinastia che supera le cesaree dinastie dei Re.

Neppure il Paradiso musulmano risulta esente dal miracoloso influsso del vino. Esso viene osannato nel Mi’rag o Ascensione di Maometto in Cielo. Nella Descrizione del Settimo Cielo si legge tra l’altro: …sorgono, codeste tende, sopra fonti da cui sgorgano acque e vini dei più impensati sapori e colori. S’odono intorno dolci e incomparabili canti di donzelle…

Nell’epoca cristiana e moderna

Abbiamo riportato queste citazioni a riprova della cultura dominante in Sicilia nel periodo arabo e, come si sa, la cultura di una società ne determina le scelte di vita. Ma che dire della cultura cristiana nei confronti del vino ove si pensi che nella Bibbia la parola vigna ricorre 152 volte e la parola vino ben 227 volte e se si tiene presente il bellissimo salmo 104, che esalta le opere di Dio, ne sottolinea le finalità e considera il vino divina creatura, destinata a rallegrare il cuore dell’uomo? E, pur non mancando i richiami ad evitare gli eccessi, quale più nobile e sublime esaltazione di quella che il vino riceve da Cristo, che dà inizio alla sua vita pubblica rallegrando un convito nuziale col miracolo della trasformazione dell’acqua in vino e poi, alla fine, nell’ultima cena, nel momento di maggior tenerezza verso i suoi Apostoli, dopo aver paragonato sé stesso alla vite, affida al vino la nobilissima funzione di rappresentare in eterno il suo stesso sangue?

Numerosi sono, nel periodo normanno, i riferimenti alla coltivazione della vite nell’Area del Monrealese.

Il 15 agosto del 1176, Indizione IX, Guglielmo II concede alla Chiesa di Monreale i vigneti appartenenti alla Chiesa di San Silvestro in Palermo nonché quelli appartenenti al notaio Simone ed a Silvestro conte di Marsico.

Contemporaneamente Guglielmo, dopo aver concesso immense proprietà al costituendo Arcivescovado di Monreale, stabilisce che nessuno possa esigere qualcosa da mangiare dal Monastero, o dagli Ospizi o dalle possessioni dello stesso, neppure il Re in persona, o meglio: qualora al Re fosse capitato di trovarsi in Monreale o passare attraverso i possedimenti del Monastero gli sarebbe stato solamente concesso di mangiare non più di due pani accompagnati dallo stesso companatico apparecchiato per gli altri monaci; tutto ciò non per dovere nei confronti del Re ma per opera di carità. Il buon Guglielmo però non dimentica di fare aggiungere nel privilegio, oltre al pane e al companatico, anche il vino.

Nel privilegio del Maggio 1182 conosciuto come il Rollo, sono numerose le contrade che figurano coltivate a vigneto. Nella divisa Bufurere attuale Bifarera, tra Piana degli Albanesi e Corleone, troviamo la vigna di Ibn Hammud (usque ad vineam benhamut nel documento in latino – janan ibn hammud in quello in arabo). L’esistenza di una vigna (ad aream que est in capite vinee – andar rakbat al janan) è testimoniata nella divisa Hajar Znati, tra Corleone e Tagliavia. Nella divisa Lacbat, tra San Cipirello e Corleone nei pressi di Malvello, è testimoniata una vigna dell’arabo (ad vineam arab – janan al arabi).

Altri terreni risultano coltivati a vigneto nella divisa Ialcii (Jal’so), corrispondente all’attuale Pizzo Cangialoso, dove c’è la vigna del notaio Leone (exit supra vineam notarii leonis).

Due coltivazioni a vigneto troviamo nelle divise Kalatatrasi, l’attuale Calatrasi: una nei pressi di Kalatahalì, attuale Cantalì o Cautalì (usque subtus vineam kalatahali) e l’altra appartenente allo scrivano Raymon che era circondata da un fossato (usque ad caput fossati vinee que fuit raymonis kerram).

Un’intera divisa porta una denominazione legata al vino: al-Kumayt, il cui significato nella lingua araba è vino scuro; di tale divisa, corrispondente al feudo Montaperto tra Piana degli Albanesi e San Cipirello, è sopravvissuto il toponimo nell’attuale Monte Cumeta.

Nel 1258 una comunità di Armeni, sotto la guida di Homodeo Latineri e Tommaso d’Armenia, si insedia nel territorio del casale di Jatina, le attuali contrade Signora, Dammusi, Chiusa e Fegotto. Nell’atto di concessione dell’arcivescovo Benvenuto oltre al frumento (labores) viene compresa la coltivazione della vite.

Da alcuni atti del Monastero di Santa Maria del Bosco di Calatamauro si rileva la coltivazione della vite nel 1276 nei pressi del fiume Batticani , appartenente al tenimento di Corleone, (concessione a Guglielmo Curto o come si diceva allora ‘u Curtu) e nel 1295 lungo il fiume di Corleone (vigna del Bavoso e di Giordano d’Alba).

Un vigneto a Malvello apparteneva, anteriormente al 1280, ad un certo Vinciguerra milite di Palermo.

Nel 1308 si trova documentata presso l’università di Bisacquino una taberna la quale paga all’Arcivescovado di Monreale la decima sul vino. Così pure la decima sui prodotti delle vigne pagata all’Arcivescovo di Monreale è documentata nel 1348 per il feudo del Caputo presso Monreale.

Nel secolo XIV dal Liber thesauri pauperum attribuito a Rinaldo da Villanova si rileva che il vino e la vite sono anche utilizzati per diversi usi:

Experimentu a duluri di denti e di gengivi:

Cui si lava la bucca una fiata lu mesi cum lu vinu dundi sianu cocti radicati di titimallu non avj mai duluri di denti et sana lu duluri.

Rimedio al mal di denti e di gengive

Chi si lava la bocca una volta al mese con il vino dove siano state cotte radici di titimaglio (euphorbia helioscopia) non ha mai mal di denti ed è un rimedio al dolore.

A lu duluri di rini

Piglia salvia domestica garrofali cum bonu vinu et bivandi quilla chi pati lu duluri et guarirà.

Rimedio al mal di reni.

Prendi salvia domestica, garofani con buon vino e bevi: quella parte che fa male guarirà.

La proprietati di la rosa marina

Item fa bugliri li fogli cum vinu blancu ki sia nectu di acqua e lavatindi la facchi et aviraila bella.

Proprietà del rosmarino.

Parimenti fai bollire le foglie (di rosmarino) con vino bianco che non abbia acqua, lavati la faccia e l’avrai più bella.

Item si mecti di lu fluri intra unu rungangnu di vinu non torna achitu.

Parimenti se metti del fiore di rosmarino nel vino esso non diventa aceto.

Item si bivi di lu vinu chi ci sia statu rosa marina esti bono a mali di petra.

Parimenti il vino con il rosmarino guarisce dai calcoli renali.

A fari li capiddi brundi pigla radicata di listincu e radicata di viti e fandi chinniri et di la dicta chinniri fandi lixia e a la ditta lixia mecti fezza di vinu blancu e bugli la lixia cum la fecza et poi tindi lava la testa ki farrai li capjlli multi brundi belli e riczi.

Per fare i capelli biondi prendi radici di lentisco (pistacca lentiscus) e radici di viti, riducili in cenere: di detta cenere fanne liscivia, unisci alla liscivia feccia di vino bianco e acanto (achanthus sativus); fai bollire la liscivia con la feccia dopo di che lavati la testa con questa mistura. I capelli ti diventeranno molto biondi, belli e ricci.

Attorno alla metà del 1400 Pietro Ranzano assicura la produzione di uva nella Conca d’Oro.

Lo territorio, oy veru, como lo vulgo chiama, la valli di Palermo, ej grandissimamenti dellectabili et di boni et dulchi fructi fertilissima, et di vigni jardini et auliviti bellissima"

Il territorio, ovvero come è chiamata dal popolo, la valle di Palermo, è bellissima e fertilissima di buoni e dolci frutti, di vigneti, orti e uliveti.

Nel 1470 nel feudo Balletto, tra San Cipirello e Camporeale, il vino veniva venduto a 0,95 once la botte.

Da un memoriale de li fegi concessi ad censo in perpetuo nell’Arcivescovado di Monreale si rileva che nel 1576 vi erano coltivazioni di vigneto nei feudi della Cannavata, Maganoce e Guadalami, Giacalone, Fellamonica e, a giudicare dagli introiti in onze, le superfici coltivate dovevano essere notevoli.

Nel 1582 il pisano don Pietro De Opezzinghi, inteso Pezzinga, sperimentava nella piana di Fellamonica, lungo il fiume Jato tra San Cipirello e Partinico, la coltivazione del riso su una superficie di circa 50 ettari, raggiungendo ottimi risultati. Nella sua azienda trovava posto anche la coltivazione della vite. Dai dati di archivio si rileva che su una superficie lavorativa di 6 salme e 4 tumoli aveva impiantato un vigneto di 52.000 viti e che riusciva a produrre anche 90 botti di vino l’anno. Il prezzo del vino oscillava attorno a 3 once la botte.

Nello stesso periodo il Fazello, oltre ad assicurare la coltivazione della vite nel palermitano, precisa che a Palermo e ne’ luoghi vicini è una sorte (di uva), detta corniola, ch’è nera e un’altra bianca, (e chiamata greca) la quale sta verde e fresca in su la vite per fino al mese di Gennaio, alla quale s’accosta l’uva ciminese e la narense.

Nel 1702 l’abate Michele Del Giudice pubblica il volume Dei feudi dell’Arcivescovado di Monreale dal quale si traggono numerose informazioni sulle coltivazioni e sulla gestione del territorio in quell’epoca.

Sappiamo che i feudi dell’Arcivescovado erano 72 per una superficie complessiva di 27.590 salme ossia circa 61.500 ettari.

Tali feudi erano distinti nelle seguenti classi:

-Feudi Nobili: in numero di 10 per una superficie complessiva pari a 2442 salme: erano "quelli che non essendo stati concessi a nessuno, restano nel pieno dominio della Chiesa e nella libera amministrazione dell’Arcivescovo"

-Feudi Censionali: in numero di 18 per una superficie di 4843 salme: erano quelli "li quali riconoscono la Chiesa in una determinata somma e canone pecuniario"

-Feudi a comune e decime: in numero di 5 e superficie 1577 salme: quelli che pagavano alla Chiesa la decima parte dei prodotti.

-Feudi a Masserie: in numero di 39 e superficie pari a 16685 salme: quelli "concessi dalla Chiesa a particolari a modo di enfiteusi perpetua, con patti però ed oneri molto differenti dagli ordinari contratti enfiteutici".

Come si vede la maggior parte del territorio era concessa a masseria. Nelle masserie era possibile coltivare solamente frumento e orzo oltre all’erba per gli animali a servizio del fondo; non si potevano allevare animali come porci, pecore e mucche perché espressamente proibito dall’Arcivescovado; non si potevano piantare alberi di alcun genere né vigne.

Nei feudi nobili, a decima e ad enfiteusi invece era anche possibile la coltivazione della vite. Rileviamo così che:

- nel feudo Moharda, feudo nobile tra Monreale e Piana degli Albanesi, c’erano vigneti per 30 salme,

- nel feudo Casal del Conte, feudo nobile tra Grisì ed Alcamo, c’era un vigneto di 2 salme posseduto da Paolo Di Lazio,

- a Renda, feudo censionale nei pressi di Pioppo, un vigneto di 4 salme

- a Billieme, feudo censionale tra San Cipirello e Partinico, è riportata una gran quantità di vigneto,

- a Mortille, feudo censionale su cui sorge l’attuale San Giuseppe Jato, un vigneto di 4 salme produceva 80 botti di vino l’anno,

- a Chiusa e Ginestra, feudi censionali nei pressi di San Giuseppe Jato e Piana degli Albanesi, esistevano numerose vigne,

- ad Ambleri, feudo concesso a decima nei pressi di Altofonte, c’erano vigneti per 18 salme,

- al Caputo, feudo a decima presso Monreale, c’era gran quantità di vigneti,

- analogamente a Merco e Aindingli (Dingoli), nei pressi di Piana degli Albanesi, ambedue feudi concessi a decima,

- a Pietralunga, tra San Cipirello e Corleone, pur trattandosi di feudo a masseria esistevano delle terre nobili di 19 salme a vigneto,

- analogamente a Balletto, tra San Cipirello e Camporeale, dove c’erano coltivazioni a vigneto per 50 salme,

- il feudo con maggiore estensione di vigneto era Valle Corta, tra Monreale e Pioppo lungo il fiume Oreto: 200 salme.

Dicevamo che nei feudi concessi a masseria non era possibile coltivare vigne; ma, per fortuna in questo caso, il rispetto delle regole non è mai stato il nostro pezzo forte per cui, anche allora, erano numerosi coloro che trasgredivano i patti contrattuali: da un documento della fine del 1600 è stato possibile estrapolare nel territorio coloro che, senza licentia, coltivavano vigneti. Si può anche rilevare che molti degli attuali toponimi del territorio hanno avuto origine dal nome dei massarioti riportati in nota.

Numerose sono le informazioni archivistiche relative alla vite ed al vino per tutti questi secoli. L’uva è innanzitutto distinta in due grandi categorie: uva latina e uva da lignaggio, termine, quest’ultimo, ancora utilizzato in alcune zone del monrealese. L’uva latina è quella prodotta da vitigni naturali; l’uva da lignaggio è quella prodotta da viti innestate. Si rilevano quattro tipi di uve da lignaggio: moscatello, guarnaccia, malvasia e trupiano (trebbiano).

Il vino è diversificato in vino di capo e vino di pedi e successivamente in vino capo e vino piede. Il vino capo è quello ottenuto dalla prima spremitura e il suo valore era doppio rispetto al vino piede ottenuto versando acqua sulle vinacce ancora fresche. Tale operazione è anche documentata sia in tempi recenti sia nel periodo greco e romano. Il vino piede, un vinello, aveva durata molto limitata nel tempo: già nel mese di dicembre cominciava a trasformarsi in aceto. Trattandosi di quantitativi non indifferenti veniva consumato lo stesso; naturalmente dalle classi meno abbienti. Nel periodo romano tale tipo di vino faceva parte della dotazione giornaliera dei soldati.

Il consumo del vino

Il vino costituiva un elemento basilare nell’ alimentazione. Per questo non solo vi era una prassi consolidata sulla coltivazione della vite, che comportava la scelta del terreno e della sua esposizione, i metodi di vinificazione, l’industria della botte. Tutti questi fattori sono tuttora operanti nel territorio. Ma a ciò bisogna aggiungere che la produzione ed il consumo del vino costituiva anche un cespite assai importante per le entrate del Comune, insieme con quelle derivanti dal macino e dal consumo di altri prodotti di base.

Gli amministratori comunali, entrando in carica all’inizio di ogni anno, che fino al 1818 era il 1° settembre (inizio dell’anno indizionale), emanavano una serie di bandi, cioè di norme pratiche, che regolavano la vita della cittadinanza in ogni suo aspetto. I bandi erano ripetitivi ed erano disposti, quasi ogni anno, nello stesso ordine. I bandi erano emessi anche in altre occasioni. L’archivio ci presenta il testo di questi bandi almeno a partire dai primi del ‘500 e sino ai primi decenni dell’800. Si tratta di una normativa documentata ed applicata ininterrottamente per questi quattro - cinque secoli e che ovviamente si riferisce ad una prassi consolidata nei secoli precedenti. Non raramente essi erano emanati addirittura dall’Arcivescovo o dal Governatore Generale dell’Arcidiocesi. Il loro numero era di quaranta cinquanta o più all’anno.

Quelli relativi al vino occupavano il terzo, il quinto, l’ottavo posto. Essi riguardavano il rivelo, il trasporto, il commercio ed il consumo. Sarebbe eccessivamente lungo e fastidioso farne un elenco, ma non possiamo dispensarci dal trascrivere almeno qualche esempio.

Il primo adempimento era quello di rivelare il vino prodotto o quello comunque posseduto. Un bando del 1° luglio 1569, emesso dal Pretore e dai Giurati, in conformità a precedenti norme emanate dall’arcivescovo cardinale Alessandro Farnese, imponeva di revelare entro tre giorni al Maestro Notaro (Segretario generale del Comune) tutti quilli vini in loro possesso, sotto pena di carcere, ammenda e confisca del vino. I Maestri di piazza (vigili annonari) avevano il compito del controllo.

Il controllo era esteso anche al movimento. In un bando del 1597 leggiamo la proibizione che non sia persona alcuna, tanto privilegiata come non privilegiata, così cittadina come forestiera che diggia né presuma di notte né di giorno entrare né fare entrare in ditta città di Monreale, sive in casi, né poteghi, taverni, fondachi, magazzini, né altri qualsivoglia lochi e parti di detta città e di qualsivoglia loco et parti et territorio … vino, tanto di capo come di pedi …

Il vino era soggetto ad una tassa, detta gabella e poi chiamata dazio, la cui riscossione era appaltata ad appositi esattori, detti gabelloti, che assumevano il compito della riscossione concorrendo ad un’asta pubblica, chiamata appunto ingabellazione, indetta ogni anno generalmente nel mese di agosto dall’assemblea dei cittadini formanti il Consiglio comunale, sulla base di un apposito capitolato.

La tassa era applicata alla fonte nel senso che all’atto della vinificazione ne veniva rilevata la consistenza da un cimatore il quale in circa 15 giorni misurava tutto il vino esistente in Monreale e nel territorio circostante (spandenti di Monreale). Erano esentati dalla gabella alcune particolari categorie di persone e coloro che avevano dodici o più figli.

I bordonari (possessori di muli da trasporto), un’ora prima di scaricare il vino, dovevano mettersi in regola col pagamento della gabella.

Da una relazione sulla gabellazione del XVII secolo si rileva che nella città di Monreale il consumo medio di vino per gli adulti (età superiore ad anni 12) era considerato pari ad 1 quartuccio e mezzo (litri 1,29) al giorno mentre per i minori di 12 anni era pari a mezzo quartuccio (litri 0,430).

Relazione delle famiglie e arbitrii che tengono li ministri del Santo Offizio di questa città di Monreale col calculo della quantità de’ botti de’ quali devono pagare solamente tarì otto per ogni botte della gabella del vino regulato detto calculo giusta la tassa fatta per la famiglia di Mons.Ill.mo Arcivescovo, cioè le persone così uomini come donne maggiori di anni dodici alla raggione di quartuccio uno e mezo lo giorno per ogni bocca, e li minori di anni dodeci alla raggione di mezzo quartuccio lo giorno. E di essere tale la tassa fatta per la famiglia di Mons.Ill.mo Arcivescovo men’hanno assicurato alcuni nostri ministri che sono stati Officiali della Città:

- dottore in medicina Pietro Antonio Maymone, familiare n.ro sette persone cioè esso, sua moglie, due creati femine e tre figli minori di anni dodeci che alla raggione di quartucci setti e mezo lo giorno importa botti cinque, barrili setti e quartucci venti l’anno.

- ecc.

Era vietato aggiungere acqua al vino e per evitare che poteghari, tavernari, fondacari e molinari esercitassero questa antichissima pratica esisteva una figura professionale, il sigillatore, che aveva il compito di sigillare l’apertura delle botti. Le botti sigillate dovevano essere allocate in appositi locali, a ciò destinati, ed inoltre in ogni bottega si poteva utilizzare una sola cannella. Non era consentito nei luoghi dove veniva venduto il vino sostare per mangiare cibi cotti, eccetto nei luoghi ove la gabella era stata pagata. Era anche vietato mettere chiara d’ova nel vino. Nella chiarificazione del vino era usuale infondere nella botte qualche soluzione di gelatina o colla di pesce o chiara d’uovo e gomma arabica per ottenere un sollecito riposo della fondata.

Tra il 1667 e il 1675, nella città di Monreale, la produzione di vino risulta inferiore al consumo e allora l’Arcivescovo Los Cameros, per incentivare la vendita, consente ai produttori di vendere a prezzo maggiorato rispetto alle mete (prezzo calmierato)

A particolare disciplina era poi sottoposta la vendita.

I luoghi di vendita erano numerosi. Alcuni di essi avevano particolare importanza, come il fondaco di Fiumelato, la taverna del feudo di Ragali e Giancaldara, quella della strada di Rocca, il fondaco di Bonadia presso la Procura del Balletto, quello della Valle della Fico tra Altofone e Villa Ciambra, il fondaco Mortilli a San Giuseppe Jato, il fondaco Disisa nei pressi di Grisì, i fondachi Mercu, Sant’Agata e Scala della Femina nei pressi di Piana degli Albanesi, l’osteria della Torrazza nei pressi di Corleone, il fondaco dello Stretto delli Surci nei pressi di Camporeale.

Il prezzo di vendita del vino (meta) veniva stabilito in funzione della produzione annua nella piana di Palermo e Partinico. Siamo in possesso della "Tariffa delli reveli di racine della Piana di Palermo, e Partenico e mete di vino" dal 1690 al 1733 che, considerata l’importanza dei dati, abbiamo ritenuto opportuno riportare nella tabella che segue. La produzione massima si rileva nell’anno 1730: 48.482 carrozzate ossia 271.499 quintali.

  

 

Prodotto di vino a

migliaro

Prezzo a

migliaro

Prezzo della botte al minuto

Prezzo del

Quartuccio

Anno

Carrozzate

Botti

Barili

Quartucci

Onze

Tarì

Grani

Piccioli

Onze.Tarì.

Grani

Grani.

piccioli

1690

19000

15

11

32

59

18

13

0

5.12.15

6.3

1691

30242

18

3

12

61

3

12

0

4.21.00

6

1692

29072

17

2

1

63

29

2

0

5.2.15

6.3

1693

15240

15

9

33

71

0

0

0

5.26.5

7.3

1694

30689

19

0

25

56

23

2

2

4.9.5

5.3

1695

22821

17

2

30

64

6

3

2

5.2.15

6.3

1696

20261

16

4

5

73

14

19

3

5.26.5

7.3

1697

32593

17

10

23

59

23

8

5

4.21

6

1698

28080

17

2

36

64

7

13

1

5.2.15

6.3

1699

31153

18

1

1

60

15

3

0

4.21

6

1700

31342

18

3

35

60

10

15

3

4.21

6

1701

22174

17

8

13

66

1

4

3

5.2.15

6.3

1702

27486

16

11

6

63

2

7

3

5.2.15

6.3

1703

28061

17

7

14

58

24

12

3

4.21

6

1704

29667

17

0

35

56

26

19

3

4.21

6

1705

31362

17

5

15

58

7

0

3

4.21

6

1706

38840

18

1

38

53

20

3

5

4.9

5.3

1707

25285

17

0

29

63

16

2

4

5.2.15

6.3

1708

29015

16

10

29

56

7

16

2

4.21

6

1709

27568

16

3

10

54

1

0

5

4.21

6

1710

26524

16

6

0

61

9

7

3

5.2.15

6.3

1711

29455

17

2

21

57

11

13

0

4.21

6

1712

30929

16

10

5

56

2

4

2

4.21

6

1713

36555

17

4

15

57

28

1

4

4.21

6

1714

36637

17

4

1

57

24

13

3

4.21

6

1715

42539

17

8

14

59

3

10

5

4.21

6

1716

43309

17

8

9

59

2

7

5

4.21

6

1717

38620

17

9

29

59

15

17

5

4.21

6

1718

37554

17

4

15

57

28

1

4

4.21

6

1719

30999

16

5

35

67

21

14

3

5.14.20

7

1720

35942

17

9

7

66

9

11

5

5.2.15

6.3

1721

40538

18

0

23

53

9

6

5

4.9.5

5.3

1722

26132

16

8

22

62

20

13

0

5.2.15

6.3

1723

32866

17

9

16

66

11

14

2

5.2.15

6.3

1724

31282

17

3

31

64

14

12

3

5.2.15

6.3

1725

35154

17

9

2

59

9

12

0

4.21

6

1726

40486

17

10

5

59

19

9

3

4.21

6

1727

29130

15

4

10

58

13

3

3

5.2.15

6.3

1728

25765

15

5

0

63

1

11

4

5.14.10

7

1729

39947

16

11

10

64

26

4

1

5.2.15

6.3

1730

48482

18

4

23

47

4

17

0

3.27.10

5

1731

38819

17

5

25

58

9

2

0

4.21

6

1732

42708

17

9

20

59

16

2

0

4.12

6

1733

36100

17

5

30

65

5

6

0

5.2.15

6.3

Verso la fine del 1700 il cav. Lioy viene incaricato dal Re di Napoli di sperimentare nuovi sistemi di vinificazione nel nostro territorio. Le analisi e le tecniche di trasformazione vengono effettuate a Marineo e Giancaldara, tra San Cipirello e Partinico. I risultati sono eccellenti e il sovrano fa pubblicare la relativa relazione che noi riportiamo integralmente nell’appendice 1. Quasi certamente in funzione di questa relazione nasce, nel 1803, la cantina borbonica di Partinico e successivamente la cantina dei Ferrara-Ferrante alla Chiusa: cantina di cui nell’appendice 2 riportiamo la planimetria.

Nel 1808 la produzione del vino nella città di Monreale e nel territorio circostante risulta ancora notevole: 3.152 botti corrispondenti a 13.112 ettolitri.

Nella seconda metà del secolo scorso sono quattro i grandi vinificatori siciliani che producono e commercializzano il vino in Sicilia. Scrive in proposito Giuseppe Barone: Ancora l’inchiesta Lorenzoni ci dimostra come i vigneti razionali e gli stabilimenti enologici siano opera dei maggiori agrari siciliani; Di Rudinì a Pachino, Florio a Marsala, Di Camporeale a San Giuseppe Jato, Tasca-Lanza a Palermo sono i protagonisti della ristrutturazione viticola attraverso l’uso razionale degli innesti e il perfezionamento dei sistemi di vinificazione. Il Di Camporeale è Don Paolo Beccadelli Acton Principe di Camporeale e Marchese della Sambuca il quale, operando in piena Area del Monrealese nei feudi Dammusi, Signora, Mortilli, Macellaro e territori confinanti, riesce non solo a produrre ottimi vini ma ottiene anche premi lusinghieri in diversi concorsi internazionali relativi a vini imbottigliati: da segnalare il primo premio a Bruxelles con il vino etichettato Signora.

Attorno ai primi anni del 1890 la fillossera inizia la sua lenta e inesorabile opera di distruzione dei vigneti in tutta la Sicilia che si concluderà nei primi anni del 1900. Gli ultimi vigneti, alla Chiusa, subiranno tale sorte nel 1904.

Subito dopo inizia un nuovo ciclo di piantagioni di vigneti su ceppo americano, resistente alla fillossera, che consentirà una notevole espansione delle coltivazioni nel volgere di qualche decennio.

Per il periodo successivo al 1900 viene riportata l’esauriente descrizione del dott. Belli di San Giuseppe Jato.

Gli ubertosi e rigogliosi vigneti su ceppo naturale, distrutti dalla fillossera, sono quasi tutti ricostituiti su ceppo americano; e di giorno in giorno, oltre l’antico territorio, altra vasta estensione di terreno, negli ex feudi limitrofi, coprendo di rigogliosi vigneti.

Quivi si conosce bene la cultura delle viti. L’impianto viene praticato dietro scassature profonde, e quindi praticando delle buche vi si collocano le barbatelle. Per la natura del terreno prevalentemente calcareo si è trovato più atto alla quale porta innesto il Rupestris de Lot. Le viti s’impiantano a filari quadrati. Si conoscono bene i metodi razionali d’innesto; preferito quello a zufolo, che dà splendidi risultati. Abbiamo provetti e valenti innestatori, la cui opera è anche richiesta in altri paesi. Ordinariamente le viti s’impalano con fasci di canne (mazzuna) e qualche proprietario per economia o per necessità, per scarsezza della canna pel divieto della cultura lungo il ciglio stradale e delle trazzere, comincia ad usare la potatura ad alberello, detta alla Marsalese. Si usa anche largamente la forbiciatura per favorire l’alligamento. La zappatura si fa a mano con zappe e zapponi; qualche proprietario usa oggi anche l’aratro. Qualcuno usa dare i vigneti a cultura a strasatto (ai consi); un tempo si patteggiava per Lire 25 a migliaio oltre 1 barile di vino; oggi a Lire 100, oltre un barile di vino. Qualche proprietario preferisce la mezzadria; raramente l’affitto. In generale i piccoli proprietari (borgesi) coltivano da sé i propri vigneti.

Al vigneto occorrono molte e continue culture: la scalza, potatura, impalatura, legatura, zappatura a marzo, spollonatura, prima e seconda zappatura in agosto.

E’ indispensabile la solforazione contro l’oidio e l’irrigazione preventiva calcio-cuprica contro la peronospera e infine la forbiciatura.

Il prodotto è ottimo e spesso ad onta della siccità o abbondanti piogge. La produzione che raggiunge la graduazione alcoolica da 14 a 16 gradi e spesso 18 ettogradi è apprezzatissima. La produzione tolto il consumo locale, minimo, viene quasi tutta esportata a Palermo, ove molti paesani, anche proprietari, hanno depositi di vino all’ingrosso e a dettaglio. Ordinariamente il contadino dopo il lavoro giornaliero ritorna in paese e pernotta in famiglia, giacché vi sono pochissime case coloniche. I proprietari e i contadini durante il periodo della semina, della mietitura e trebbiatura, pernottano in campagna nei casali o all’aria aperta d’està.

Vendemmia – E’ il periodo dei lavori agricoli il più atteso dopo la raccolta del grano. Gli usi di una volta avevano altri caratteri. Circa 40 anni fa i vigneti erano meno estesi e la proprietà in pochi benestanti possidenti, il sistema di manipolazione dei vini era tutt’altro; era in uso la fermentazione delle vinacce nei tini e l’uso dei torchi preadamitici in legno con corbelli di cocco (coffe) e l’imbottamento dei mosti si faceva a mano con biglioli ed otri. Tutto ciò, oltre a richiedere una maggiore perdita di tempo, richiedeva un maggiore impiego di mano d’opera.

Pertanto le braccia paesane, essendo insufficienti, durante il periodo della vendemmia, dai paesi vicini, ove si sconosceva la cultura delle viti, accorrevano persone d’ogni età e sesso per trovare lavoro. Al mattino nella pubblica piazza si contrattava sulla mercede e subito venivano ingaggiati chi per la raccolta dell’uva, chi per i lavori nelle cantine, chi (quelli provvisti di animali) pel trasporto dell’uva. La sera tutti ritornavano dal lavoro e la maggior parte andavano a desinare nelle bettole ove si apparecchiava la pasta, le melenzane e il pesce salato (baccalà). Il banditore dinanzi la porta con una cantilena gridava: A pasta è lesta veni mancia! I mulinciani a stufatu veni mancia! Al mattino poi con la medesima cantilena: Consa consa, muffuletti cavuri va consa! Saimi e cascavaddu va consa!

Finito la sera il parco desinare si ritiravano nei numerosi fondaci, o nelle cantine, o tempo permettendo al diaccio sui marciapiedi, o nel vano delle porte in promiscuità maschi e femmine.

Oggi le faccende della vendemmia sono più spicce; essendo la proprietà più divisa, ogni famiglia attende alla propria azienda: quasi tutti sono provvisti di animali da soma pel trasporto delle uve, che oggi viene eseguito anche a mezzo di autocarri; la manipolazione si fa a pesta imbotta, e quasi tutti sono forniti di torchi a tamburo e parecchi di pompe per l’imbottamento. Oggi incomincia anche a divulgarsi per la manipolazione delle uve l’uso di apparecchi meccanici con motori a gas e ad elettricità.

Pertanto oggi la mano d’opera paesana, pur essendovi una maggiore estensione di vigneti, è sufficiente, e per la mancata immigrazione temporanea di operai, non si ha più l’animazione d’un tempo e la vendemmia sembra più monotona.

Conclusione

Questa relazione non pretende di avere esaurito ogni aspetto dello studio sulla vite e sul vino nel territorio monrealese, ma intende dimostrare due cose: primo che la cultura del vino in questo territorio non è un fatto posticcio e marginale, ma è legato intimamente alla vita della popolazione fin da tempi remoti. Questa cultura ha le sue ragioni nella natura del suolo, destinato alla produzione del vino in buona percentuale e nell’industria che ne è scaturita e che ha raggiunto elevati livelli di qualità. In secondo luogo si intende additare la ricca documentazione conservata nell’Archivio storico diocesano di Monreale, nella sezione Acta Curiae Civitatis del Fondo Registri della Corte e quella del fondo Mensa, e che riguarda, in prevalenza, le attività economiche della collettività vivente nel territorio.

Questo secondo scopo costituisce un punto d’avvio per uno studio assai più approfondito e completo, sulla rigorosa base delle testimonianze documentarie che non facilmente né in modo così abbondante si ritrovano in altri luoghi.

Vogliamo augurare il più felice successo ai promotori della DOC del vino dell’Area del Monrealese e che conseguano quei traguardi per il cui raggiungimento abbiamo dato il nostro modesto contributo.

Appendice 1

(tratta dal volume di Giuseppe Casarrubea - Uomini e terra a Partinico, Vittorietti Editore Palermo – pag.119)

MEMORIA PER LA MANIPOLAZIONE DEI VINI

Vuole il Re, che si dia alla stampa in questa Reale Stamperia una Memoria composta dal cav. D. Felice Lioy con delle osservazioni intorno a' difetti, che in generale si sono introdotti nella preparazione de' Vini nelle due Sicilie, cogli sperimenti de' Vini da lui preparati in Marineo, e Partinico; ed io nel Real Nome prevengo V S. di questa Sovrana risoluzione, perchè ne disponga la esecuzione.

Palazzo. 1800. Il Principe de' Luzzi Sig. Cav. Speciale Direttore della Reale Stamperia.

***

Trovai al mio arrivo in Sicilia nel 1789 il Vino di Prizzi, e quello di Palazzo Adriano impotabile, da Maggio in poi aceto guasto, o per meglio dire una composizione meravigliosa di cattivi odori, e sapori; m'impegnai da principio dare a quella buona gente qualche istruzione intorno al metodo da farsi buono, e sano, ma non fui ascoltato : mia Moglie il fece anni sono a Prizzi, gli riuscì ottimo: per tale lo presero tutti coloro, che lo assaggiarono; eppure non vi fu alcuno tra essi, che avesse provato a farne una botte con regola per proprio uso .

Non mi sono mai stancato d'insistere, e di mostrare, che tutto ciò, che si pratica colà nella manipolazione del Vino è contro il buon senso, e contro la ragione: ne cennerò talune delle di loro insensate pratiche. Si vuol fare del buon Vino con uve raccolte immature, e alla rinfusa; mischiando la nera colla bianca, quella di specie precoce a maturarsi, e l'ultima a venire a maturazione . Si pretende avere buon Vino senza pigiare bene l'uva, mettendo a fermentare insieme talvolta la vendemmiata di parecchi giorni, senza comprendere, che così non può riuscire se non cattivo; conciosiacchè scorgesi chiaramente, che in tal modo, mentre una parte del liquore ribolle, l'altra non ha cominciato a darsi alcun moto pella decomposizione dell'acino dell'uva, onde incamminarsi alla formazione, e composizione del vino. Conseguentemente non essendo simultanea, dee accadere necessariamente, che dieci grappoli di uva posti in differenti tempi, e succedaneamente a fermentare insieme, mentre il liquore del primo comincia a fermentare, quello dei secondi, terzo, e così via discorrendo degli altri, va dappresso tanto disordinatamente, quanto alla fine una parte del liquore serve di veicolo all'altra per corrompersi, e guastarsi. Eglino non vogliono capire che nel palmento di pietra è impossibile, che la fermentazione riesca perfetta, perciocché nel mezzo ribolle ordinariamente la vinaccia, e negli estremi vi è appena tepore.

La forma dei palmenti è quadrilunga, di piccola profondità a cielo scoperto con evaporazione, e perdita strabocchevole dello spirito di vino, senza avvedersi, che così la fermentazione vinosa dee esaurirsi di spirito, dee riuscire imperfetta, ed ineguale. In verità pare, ch'essi presumano, che la natura debba rallentare il suo corso nel processo della fermentazione vinosa a quella dell'aceto, e della putrefazione, per riguardo della di loro ignoranza, e negligenza.

Che dirò del loro torchio del Vino?. Forse appena è poco meglio disposto del primo inventato dall'uomo a tal uso; e il trappeto da Vino? si paragoni pure ad un porcile, che non si sbaglierà.

Raccomandai mille volte a quelle popolazioni l'uso del vaglio, che costa pochi tarì, ed è quasi simile a quello, che adoprasi per la paglia, onde si separano i grappoli dagli acini dell'uva; dimostrai loro, che mediante tal macchinetta, appena che si fruga sopra il craticcio l'uva vendemmiata, facilmente si esacina da' grappoli. Egli è dimostrato, che il Vino non solo riesce delicato, ma ancora vi si risparmia a calcolo fatto il dieci per cento nella quantità del mosto, che viene altrimenti assorbito dalla vinaccia; all'incontro col fatto vedesi chiaramente, che non solo non vi è fatica e spesa maggiore nell'adoperarsi il vaglio, ma piuttosto risparmio. Come se avessi predicato al deserto.

Ma che dirò delle tine da essi adoperate per la formazione della vinaccia, e delle botti, ove conservano il Vino? Alle corte queste formano una quintessenza stomachevole, e nauseosa; sicché, se mi fosse permesso dar parere, ei converrebbe farne un sacrificio quasi di tutte in una baldoria, e abbruciarle ad onore dei Santi protettori del paese. Si procede innanzi colla stessa balordaggine nella costruzion delle cantine quasi tutte a pian terreno in un clima così caldo come questo, dove un'ora di scirocco in tutta la sua gala è più che bastevole a guastarlo, e a corromperlo.

Si lasciano per lo più dimezzate le botti, e lungi di aver cura di riempirle, almeno nel tempo del ribollimento ne' giorni seguenti al travaso nelle botti del mosto fermentato, costoro sono nella falsa credenza, che anzi questo giova a render loro il vino perfetto. infatti ho trovato mille volte le di loro botti senza conchiume, ed allo scoverto: in somma tutto si fa a caso, e quasi a dispetto per ridurre a meno del nulla, a danno della salute pubblica, cotanto prezioso liquore; il quale quando è ben preparato, e sobriamente bevuto, conforta, e prolunga la nostra vita, e la rallegra in mezzo ai guai, che ci circondano; all'opposto è cagione di molte malattie sino a rendersi micidiale.

Non basta: trattosi il Vino dalle botti, queste lasciansi vuote, trascurandosi di farle percolare sossopra, acciocchè si purgassero de' residui, e della feccia, ed allora in poi sino alla nuova vendemmia si abbandonano aperte alla ventura; onde avviene, che sanno per lo più di muffa, e di seccume con gravissimo discapito della qualità del Vino, che vi si ripone nell'anno seguente. Finalmente con sommo danno pure per la conservazione delle botti, senza interloquire degli altri utensili, de' quali si servono per l'intera preparazione dei Vini, i quali fanno vergogna, ed insieme compassione. Piacesse al Cielo almeno, che i Deputati della salute pubblica vegliassero a proibire i vasi di rame, che in diversi luoghi si adoperano, da me più di una volta trovati vestiti di verde rame, che compone uno de' più tremendi veleni.

E chi non vede, che in si fatta guisa senza la presunzione di far miracoli non si potrà giammai ottener buon vino in eterno? che così nel riporsi il nuovo nelle botti, oltreché si espone a guastarsi immediatamente, lo sfrido, e la perdita nella quantità dee essere almeno il quindici a venti per cento; ne vi vuol meno per saturare i pori delle doghe disseccate dall'aria, che vi penetra da per tutto, principalmente in tempo d'estate: che così restando le botti a discrezione di tutte le lordure, e del ricamo delle fuligini, che adorna le loro cantine, che di tratto in tratto si precipitano, e vi cascan dentro, senza contare gl'insetti, sorci, ed altro, che vi vanno a fare i loro nidi, il nuovo mosto patisce, e guastasi, gittandosi in un perpetuo lievito di putrefazione. Finalmente, che la durata delle botti debba esser cortissima, e la spesa annuale del di loro risarcimento il decuplo almeno dippiù di quello, che altrimente avverrebbe, se vi si spendesse una dramma di giudizio.

Si prendono essi forse cura della durata, che si conviene alla prima interessantissima fermentazione del mosto nelle tine? niente affatto. Si pesta, e s'imbotta, o pure lasciasi fermentare appena un giorno il mosto per imbottarsi; onde il Vino riesce torbido, difficile a scaricarsi delle parti terree, grossolane, e fecciose, riesce fumoso, indigesto. Quindi si ricorre in molti luoghi della Sicilia a purgarlo mediante vari nocivi medicamenti. È qualche anno che, visitai una magnifica cantina di un ricco Gentiluomo, ove in verità consumasi a tal uopo tanto gesso all'anno, quanto potrebbe forse bastare a fabbricarne una casa.

A proposito mi trovava nel mese di Ottobre quì in Marineo, donde scrivo questa Memoria, quando preparava il Vino col Valente Soprastante di questi Regali Boschi D. Giovan Battista Sevanse. Questa buona gente si rideva, e si burlava di me allorché venne a sapere di aver lasciato fermentare il mosto nel tino oltre a otto giorni prima d'imbottarlo: mi fecero già il cattivo augurio, che a quest'ora l'avrei dovuto abbandonare al valente distillatore d'acquavite D. Giovanni d'Antoni, il quale per altro qui si diverte tutto l'anno alla distillazione del loro Vino guasto.

Egli è però avvenuto tutto il contrario, giacché la maggior parte del Vino del paese, siccome essi stessi mi han confessato, si è già a questa ora tutto perduto, ovvero corre di galoppo alla corruzione: all'incontro quello da me preparato beesi con qualche gradimento alla mensa del Re.

Spinto dal desiderio, e da certo entusiasmo, che la provvidenza mi ha regalato pel bene della mia patria, che così anche riguardo la Sicilia, anni sono feci un viaggio in compagnia del difonto mio Suocero, e del professore di Agricoltura Abbate Balsamo. Ci fermammo in un bello e vasto vigneto ben coltivato, appartenente ad un benemerito, ed onestissimo Gentiluomo nostro amico, ricco negoziante di Vini. Ivi tutti tre c'impegnammo di preparare a nostro modo diverse specie di vini colle buone regole; ma siccome i nostri affari ci obbligarono a partire senza compire l'opera, così in buona fede ne raccomandammo la cura a quel curatolo, o sia Gastaldo. Quale ne fu il risultato? Colui fece tutto il contrario delle istruzioni, che noi gli lasciammo: il nostro Vino riuscì pessimo; noi fummo posti in berlina e quasi trattati da Ciarlatani.

D'allora in poi mi contentai di farne ogn'anno alla Magione per uso della mia famiglia, e de' miei amici, sino ch'ebbi il premio preziosissimo, ch'essendosi dato il pranzo alla Magione dal Commendatore Sua Altezza Reale il Principe Leopoldo mio Signore agli Augusti Genitori, e a tutta la Real Famiglia, co' principali Cavalieri della Corte, e Ministri Esteri, non isdegnarono di beverlo, e di gradirlo.

Questo mi ha incoraggiato, e mi ha animato a preparare del Vino in Marineo, ed in Partenico nel passato Ottobre per servizio di Sua Maestà, e della Sua Real Famiglia. Or come potrei esprimere il mio contento in Marineo, ed in Partenico nel vedere, che il nostro amabilissimo Sovrano ne ha bevuto, e lo ha anche gustato. Egli, donatoci da Dio per essere la nostra felicità, giunge colla sua magnanimità, e clemenza ad approvare, e lodare anche questa mia tenuissima opera, sino a farmi la grazia di ordinarmi di pubblicare nella sua Reale Stamperia lo sperimento.

Quindi mi fo un dovere, e gloria insieme di spiegarlo ora colla maggiore precisione, e chiarezza possibile, ne' due sperimenti fatti in quest'anno quì in Marineo, ed in Partenico.

Sperimento del Vino preparato in Marineo ed in Partenico, sua riuscita, e costo.

I. Premesso l'apparecchio di tutte le cose necessarie per la preparazione del Vino, e principalmente de' tini, e delle botti abbonate, si è procurata dell'uva nera nella contrada detta di Casachella, e Carrioli nel territorio di Marineo, ed Ogliastro, le quali per altro non sono le migliori, e di là alla distanza di tre a quattro miglia in circa di questo Reale Ospizio, si è trasportata a schiene di mule ne' barili: l'uva vendemmiata la giornata si è separata da' grappoli per mezzo di un vaglio sovrapposto al tino la stessa sera . Lo stesso si è praticato per fare il Vino in Partenico nella contrada di Giancaldaja, la quale non è neppure delle migliori.

II. Indi si è pigiata la uva diligentemente, sino che si è veduto, che la massa della vinaccia non avesse acini interi, o non interamente spremuti.

III. La vinaccia col mosto si è lasciata fermentare, per mancanza di un tinaccio regolare, in una botte coperta per sollecitare la fermentazione, e perchè la polvere non 1'imbrattasse, questa si è riempita un palmo sotto al coverchio, perchè colmandosi la vinaccia per mezzo della fermentazione, non traboccasse.

IV. Allora quando si è osservato, che avvicinandosi, anzi mettendosi nel mezzo sopra la vinaccia in fermento una lucerna, questa non si è spenta, subito si è passato nella botte il vino, avvertendo di mettere da parte lo strato superiore della vinaccia all'altezza di quattro dita, la quale galleggiando col contatto dell'aria, comincia a sentire di acido soverchio, e se vi si lasciasse, potrebbe servire di lievito a inacidire col tempo il Vino. Indi spremuta al torchio alla meglio leggermente la vinaccia, il Vino della prima torchiatura si è unito all'altro nella botte, per accrescergli colore, e sostanza, comechè si sà, che la parte colorata del Vino si contiene nella mucilaggine vicino alla scorza.

V. Si è tenuta da parte una sufficiente quantità dello stesso mosto per riempire la botte lasciata senza cocchiume ne' primi giorni del forte bollimento, sino a tre, quattro volte, e in seguito la sera, e la mattina, sino a che a capo di 15 o 20 giorni nel cessare la sensibile fermentazione la botte si è chiusa col cocchiume esattamente, e questo si è fabbricato di gesso.

Alla fortunata occasione poi, che Sua Maestà si è conferito qui in Marineo di passaggio nella fìne di Novembre, la M. S. si è degnata farne il primo saggio di quello sopravvanzato in una mezza botte, anche prima di farsene la tramuta, e Io ha gradito co' Cavalieri del suo seguito Marchese Tanucci, e Principe di ]aci. In Partenico poi nel felice incontro, che la Maestà Sua è venuta nella fìne di dicembre a consolare, e felicitare quella popolazione colla Regina, col Principe Ereditario, e col Commendatore della Magione Principe Leopoldo, di quel vino si è servito alla Augusta mensa non senza applauso.

Ora che si avvicina la tramuta dell'uno, e dell'altro, e che sono più maturi, io spero, che si troveranno di molto migliorati, e già ora si trova buono assai. Non v'ha dubbio, che quello di Marineo fatto di uva di monte non può avere quel pregio, che avrà quello di Partinico fatto di uve di piccoli colli alla vicinanza del mare; e per verità, dopo che quello giungerà a perfetta maturità, avrà meglio composti i due sapori dell'acido, e del dolce, i quali abbracciati dallo spirito a dose proporzionata compongono il Vino perfetto.

Non mi resta ora, che a rapportarne la spesa, e '1 costo, per compire questa Memoria, eccolo:

Per prezzo di uva carrozzate 19 once 58. 1. 17.

Spese di manifattura, ed affitto di botti 8. 15. 18.

Sommano once 66. 17. 13.

Quale somma divisa a botti 15, vino risultato, viene a costare ad once 4.13.3 la botte, o sia a tarì 11.5 barile posto quì in Marineo.

Il Vino poi fattosi a Partinico dell'uva della contrada di Giancaldaja è risultato in tutto a tarì diciotto il barile.

Mi sia infìne lecito far da Profeta : subito che si spargerà la voce,che a Sua Maestà è piaciuto il Vino fatto in regola, siccome è già noto a tutti la protezione, e le grazie, che accorda la Maestà Sua a chiunque si occupa, e travaglia per il ben pubblico, e il desiderio di tutt'i suoi sudditi di dargli piacere (e qual altro piacere più delizioso pel nostro Re, e Padre, che quello di vederci felici per ogni riguardo), così in un momento nascerà la virtuosa gara per la necessaria riforma nella manipolazione de' Vini ed in questo stesso anno 1800 mille e mille de' miei concittadini faranno miglior Vino del mio, ed io ne goderò.

Quasi certamente la cantina borbonica di Partinico nasce in funzione della relazione del Lioy. Scrive Giuseppe Casarrubea:

I lavori ultimati nel 1803 avevano comportato una spesa di 18.000 scudi, eccettuate le spese vive destinate ai terreni. Vale la pena dare una sommaria descrizione della cantina, anche perché questa rappresentava la maggiore realizzazione regia per i partinicesi. Sentiamo il Marino:

" La vasta piazza della medesima dividesi con simmetria in tre corpi. Una scala pianamente uguale fa scendere i muli carichi d'uva, e l'introduce nel corpo della loggia, ove in prospettiva un atrio più largo li fa salendo uscire in prospetto della montagnola di Cesarò. Soprastano gli altri due corpi con muraglie di grosse pietre riquadrate. Sono esse maestose, senza ornamento, e ben sostenute in più parti da chiavi di ferro, dominando un magazzino sì vasto da conservare i prodotti di quella industria agraria. Tutto ispira lì dentro il compiuto disegno sovrano e la cantina, il Castellaccio, il lago, le stradelle carreggiabili, gli acquedotti di pietra viva e calce, le macchine più adatte per la estrazione dell'olio e del vino mustale con organi ed altri strumenti agrari venuti dall'estero, costituiscono nel real podere un grandissimo monumento di agricoltura ".

L'importanza della cantina consisteva nel fatto che poteva assorbire manodopera ed impiegati in un rapporto di lavoro imprenditoriale di stampo non padronale.

Si trattava di un'azienda commendale nella quale trovavano posto " un commissionato, poi detto maestro segreto, col soldo di once 28 e tarì 24 annui, un contabile con once 36, un guardabosco con once 36, un cassiere con once 24, un facchino con once 12, un notaro con once 24 ", e successivamente un curatolo con once 36, uno scrivano con once 48, un giardiniere con once 84, un cantiniere dei magazzini con once 36, un soprastante con once 48, un custode del real casino con once 60, un cappellano con once 48, un carrettiere con once 36, una portinaia con once 6, due custodi con once 72.