Attorno alla metà degli anni ’70 del XII secolo, il Re Normanno Guglielmo d’Altavilla, poi detto il Buono, fonda l’Abbazia di Santa Maria la Nuova di Monreale e la dota di tutta una serie di privilegi e donazioni che sarebbe lungo elencare.

La parte principale delle donazioni è costituita dai territori di Jato, Corleone, Calatrasi e Batallaro: una superficie vastissima, oltre 1000 kmq, le cui conseguenze si risentono ancora ai nostri giorni: basti pensare all’enorme estensione del territorio del Comune di Monreale. I confini di tale territorio, utilizzando la toponomastica attuale e seguendo un verso di percorrenza orario, partivano da Pioppo per continuare con Piana degli Albanesi, Santa Cristina Gela, Marineo, Godrano, Corleone, Prizzi, Palazzo Adriano, Chiusa Sclafani, Sambuca di Sicilia, Santa Margherita Belice, Poggioreale, Alcamo, Partinico, Borgetto, Montelepre.

Nel Maggio del 1182 - con un vero e proprio atto scritto nelle tre lingue ufficiali dell’epoca normanna greco, latino ed arabo - atto controfirmato dall’Arcivescovo di Palermo Walter of the Mill (Gualtiero Offamilio), dal Vicecancelliere Matteo d’Aiello e dall’Eletto di Siracusa il potente inglese Riccardo Palmer, vengono specificati i confini di questo esteso territorio.

Ai giorni nostri delimitare un’area è oltremodo semplice: basta essere in possesso di una carta topografica, meglio di una mappa catastale, e tracciare con una spezzata i contorni dell’area considerata. All’epoca non esisteva nulla di tutto ciò e ci si affidava ad una descrizione dei confini utilizzando come punti di riferimento: monti, vallate, colline, fiumi, sorgenti, fontane, pozzi, centri abitati, casali, edifici, chiese, moschee, mulini, ponti, punti di attraversamento, tipi di coltivazioni, tipi di allevamento, boschi ciascuno con la propria denominazione.

Ci si rende conto dell’importanza di un tale documento perché consente di conoscere non solamente la toponomastica nel periodo medievale, con possibilità di raffronto con le reminiscenze toponomastiche attuali, ma consente di posizionare sul territorio edifici e centri abitati; consente di posizionare le strade o meglio i percorsi di collegamento tra le varie entità abitate; consente di conoscere il territorio da un punto di vista economico con riferimento soprattutto ai tipi di coltivazione, ai tipi di allevamento, ai boschi; consente infine, ma non meno importante, di conoscere il territorio da un punto di vista antropo-geografico.

La mia ricerca dal titolo Toponomastica e topografia storica nelle Valli del Belice e dello Jato è un tentativo - pur con gli immancabili dubbi - di fotografare in nostro territorio nel periodo medievale.

Ma non è dei contenuti specifici e neppure dei criteri seguiti in questa ricerca che voglio parlare.

Voglio invece parlare di alcuni aspetti della storia di questo nostro territorio non sempre tenuti nella dovuta considerazione anzi, purtroppo molto spesso, disattesi. 

Un territorio, il nostro, dove si sono insediate ed integrate un po’ tutte le popolazioni caratteristiche della Sicilia nell’antichità: Sicani, Punici, Greci, Romani, Bizantini, Arabi e così via. E dove nella sua specificità troviamo nel corso del tempo:

- nel 1237 i Lombardi di Oddone di Camerana che vengono a popolare il sito dell’attuale Corleone.

- nel 1488 i Greco-Albanesi di Piana oltre a quelli di Mezzoiuso, Palazzo Adriano, Contessa Entellina.

- e alla luce di un documento facente parte del Tabulario della Chiesa di Santa Maria la Nuova di Monreale depositato presso la Biblioteca Regionale di Palermo - documento di difficoltosa trascrizione, del quale sono riuscito a reperire una trascrizione risalente al 1700 presso l’Archivio dell’Arcivescovado di Monreale - scopriamo che nel 1258, regnando lo svevo Manfredi, una comunità di Armeni viene ad insediarsi nel nostro territorio a Jatina, corrispondente con buona approssimazione agli attuali feudi Dammusi e Signora nei pressi di San Giuseppe Jato e San Cipirello.

E con riferimento alla Donazione di Guglielmo del 1182, in funzione di alcuni toponimi indicanti nomi, o meglio soprannomi, di persona, possiamo provare ad estrapolare i rispettivi paesi di provenienza. Così troviamo:

- tra Corleone e il feudo Magione, Znati: ossia gente appartenente alla tribù berbera Znata.

- nei pressi di Piana degli Albanesi, El-Farisi: gente proveniente dal Faris, regione della Persia Meridionale, il cui toponimo superstite sembrerebbe essere l’attuale Filorisit.

- nei pressi di Santa Margherita Belice, Manzil Sindi : il casale del Sindo. Il Sindo: regione del basso Indo. Del relativo toponimo, Misilindino, si trovano tracce sino a tempi recenti.

- tra Corleone e Campofelice di Fitalia, Kuteme: gente appartenente all’orgogliosa tribù berbera Kuteme, il cui toponimo è rimasto pressoché immutato nel corso del tempo: Kuteme, l’attuale Guddemi.

- sempre nei pressi di Corleone troviamo gente appartenente alla popolazione Kinene, il cui toponimo riportato nella Donazione di Guglielmo nella forma Bi-Kinene, ossia padre di quello venuto da Kinene, quasi certamente si è trasformato nell’attuale Bichinello.

- tra Tagliavia e Pizzo Nicolosi troviamo gente appartenente alla tribù del Nord-Africa Magagia le cui reminiscenze toponomastiche sembrano potersi reperire nell’attuale fontana Magara nei pressi di Pizzo Nicolosi.

Incontriamo moltissimi Giudei:

- tra Alcamo e Camporeale, Rahal Amrun: il casale di Amrun, nome caratteristico giudaico.

- Yakub; Ben-Shalom, figlio della pace.

- tra Corleone e Malvello, l’antica Malbit, troviamo addirittura un vallo judeorum, una vallata dei Giudei.

troviamo anche el-andalusin, gente proveniente dall’Andalusia in Spagna; el-Magiar, Magiari, Ungheresi. Troviamo Januenses, Genovesi nonché a Malvello un as-Sikilli, un Siciliano proprietario di una mandra.

Ma come ? un Siciliano abitante in Sicilia che per essere distinto dagli altri Siciliani viene soprannominato il Siciliano ?! Strano, no! E’ come se oggi un Corleonese - originario di Corleone, abitante a Corleone - per essere distinto dagli altri Corleonesi venisse soprannominato il Corleonese. Assurdo. E allora!?

Quasi certamente all’epoca, i Siciliani D.O.C. - come si dice oggi a denominazione di origine controllata, gli indigeni - dovevano essere così pochi, in raffronto alle popolazioni sopravvenute, che per essere distinti dagli altri venivano soprannominati: i Siciliani. 

Ebbene, malgrado il notevole alternarsi ed integrarsi di tante popolazioni provenienti dalle più svariate regioni del mondo, questo nostro territorio presenta una sua peculiarità, una sua caratteristica costante nel tempo, c’è in questo nostro territorio un denominatore comune alle diverse popolazioni che lo rendono quasi un unicum

E alla ricerca di questa unicità, di questo denominatore comune, dobbiamo partire da molto lontano, ed esattamente dal 104 a.C.

E’ in quell’anno che esplode, rabbiosa e violenta, la rivolta degli schiavi di Sicilia. E’ l’inizio della Seconda Guerra Servile.

E’ in questo nostro territorio, a Triocala, quasi certamente l’attuale Caltabellotta, che i capi degli schiavi Atenione e Salvio pongono il loro baluardo, la loro roccaforte.

E’ in questo nostro territorio, a Makella, che viene combattuta l’ultima battaglia tra gli schiavi di Sicilia e gli eserciti romani.

E che Makella potesse corrispondere all’attuale Camporeale - per la permanenza del toponimo Macellaro - o che potesse corrispondere alle Rocche di Calatrasi o, come sosteneva nel 1600 il Cluverius, che potesse corrispondere alla Rocca Busambra, quasi certamente ce lo potrà testimoniare una futura indagine archeologica.

Una cosa però è certa: è in questo nostro territorio, è in queste nostre contrade che vengono massacrati migliaia e migliaia di schiavi rei solamente di avere cercato condizioni di vita più accettabili.

Eppure a scuola non abbiamo avuto la sensazione che gli schiavi fossero degli esseri umani che lottavano alla ricerca di una libertà perduta o addirittura mai avuta. Abbiamo invece avuto la sensazione che gli schiavi - così come i Cartaginesi, i Greci, i Germani, i Galli, gli Elvetici, i Lusitani, i Giudei - lottavano per ostacolare quello che era il compimento della missione storica di Roma, consistente nel regere populos imperio, nel governare i popoli, attraverso, oltre al divide et impera, attraverso il parcere subiectis et debellare superbos. Attraverso in non infierire contro chi si sottomette ed annientare, distruggere chiunque osasse mettere in dubbio il proprio predominio e la propria supremazia.

Certo non si può essere tanto riduttivi da volere valutare il popolo dell’antica Roma solo in base a questi pochi elementi. Ma una considerazione nasce spontanea: gli animali si comportano così! Gli animali non infieriscono mai contro i loro simili che si sottomettono e azzannano e scannano chiunque osa ribellarsi. Solo che mentre negli animali siamo in presenza del cosiddetto istinto naturale qui, invece, siamo in presenza della lucida e fredda razionalità di quello che, con buone motivazioni, va sotto il nome di Imperialismo Romano.

E la lezione dovette essere di tale portata che appena una trentina d’anni dopo, tra il 73 e il 71 a.C., quando anche questa volta esplode violenta la rivolta degli schiavi della Campania e del Sud Italia, sotto il comando di Spartaco, ebbene qui da noi in Sicilia non succede assolutamente nulla: troppo incisiva era stata l’opera di repressione da parte degli eserciti romani.

Ed a proposito di territorio vale la pena sottolineare la notevole differenza tra le rivolte degli schiavi di Sicilia e quelle degli schiavi del Sud Italia. Mentre le rivolte degli schiavi di Spartaco sono caratterizzate da un continuo peregrinare per tutto il Mezzogiorno d’Italia alla ricerca di opportune vie di fuga verso i propri paesi di origine, qui in Sicilia, invece, non accade nulla di tutto ciò: qui si lotta, si combatte per rimanere in questi territori (gli schiavi avevano addirittura fondato due regni): come se il territorio avesse un suo fascino, una sua attrattiva su quelle popolazioni.

Si potrebbe obiettare che Spartaco era un Trace e cercava di ritornare al suo paese d’origine; ma anche qui in Sicilia - nella Prima Guerra Servile - il capo Euno era un Siro e nella Seconda Atenione proveniva dalla Cilicia. 

E sempre alla ricerca di questo denominatore comune - almeno alla luce della documentazione storica pervenuta - dobbiamo fare un salto molto lungo nel tempo per arrivare al 1189.

In quell’anno una rivolta musulmana a Palermo e nell’intero Val di Mazara viene a stento domata, ed è da quel momento che si hanno pochissime notizie di Musulmani a Palermo in quanto, in buona parte, si riversano in queste nostre vallate.

Ma è necessario fare alcuni brevi riferimenti.

Nel 1194, il 26 Dicembre, nasce a Jesi nelle Marche Federico II da Costanza d’Altavilla ed Enrico VI. Nasce a Jesi dove signore della Marca di Ancona è il Gran Siniscalco di Enrico VI, Markuald de Anweiler.

Nel 1197 muore Enrico VI e lascia la tutela della minorità di Federico II, quindi la reggenza dell’Impero, al suo Gran Siniscalco Markuald.

Nel 1198 muore Costanza d’Altavilla la quale, invece, lascia la tutela della minorità di Federico al Papa Innocenzo III.

Appare chiaro che i contrasti, i nodi quanto prima verranno al pettine.

Ed infatti nel 1199 Markuald con un esercito alemanno scende in Sicilia, sbarca a Trapani ed invade il Val di Mazara.

Ormai la condizione dei Musulmani di Sicilia non è più quella florida del periodo cosiddetto arabo e neppure quella accettabile dovuta, in buona parte, all’accorta tolleranza normanna. Ormai i Musulmani di Sicilia sono i paria, i servi della gleba per non dire gli schiavi della società feudale della fine del XII secolo.

Markuald alla ricerca di aiuti trova nei Musulmani di queste nostre contrade dei formidabili alleati. Jato diventa il caposaldo, la roccaforte da cui continui attacchi vengono sferrati contro la capitale Palermo difesa dalle truppe pontificie sotto il comando dell’Arcivescovo Gualtieri di Palearia.

Nel 1200, il 21 Luglio del 1200, in una battaglia campale alle porte di Palermo - tra Monreale ed Altofonte - le truppe pontificie sconfiggono l’esercito congiunto musulmano-alemanno di Markuald ed in quella occasione cade anche il capo musulmano Magded. Ma non cessano le ribellioni.

Per quasi cinquant’anni queste nostre vallate saranno il teatro degli scontri tra le armate musulmane e gli eserciti imperiali svevi.

Nel 1208 Corleone diventa il centro propulsore di ribellioni contro gli svevi.

Nel gennaio del 1211 Federico II con un privilegio a favore della Chiesa di Monreale obbliga Militi e Baroni a mettere le loro armi a disposizione dell’Arcivescovado contro i Musulmani di Jato, Corleone, Calatrasi e delle rocche vicine: pena la confisca di tutti i beni. Tale privilegio viene reiterato nel giugno dello stesso anno a Messina.

Ma è attorno al 1220 che la situazione precipita, la situazione diventa insostenibile un po’ per tutti: per i Musulmani, da un lato, che non riescono più a reggere le continue angherie del mondo latino e, dall’altro, per Federico II, per l’Imperatore, per la sua mentalità di monarca assoluto: si era venuto a trovare quasi uno Stato all’interno dello Stato.

Federico II invia un esercito sotto il comando del Grande Ammiraglio Enrico di Malta. Ma Enrico di Malta riesce a risolvere ben poco, tant’è che l’Imperatore si vede costretto ad intervenire personalmente.

E’ scritto nel Tariq al-Mansuri, una sorta di compendio di Storia Universale di parte araba, relativamente all’anno 1222: quell’anno - è scritto - il Re e Imperatore Federico si partì dalla Germania ed entrò nell’Isola di Sicilia con duemila cavalli e sessantamila pedoni, ed assediò il Kaid Ibn Abbad per 8 mesi. Kaid, a volte traslitterato nel latino medievale Gaytus, in arabo sta per comandante.

Noi siamo certi della presenza di Federico II - in quel 1222 - all’assedio di Jato. Egli, infatti, dal 17 Luglio al 18 Agosto, invia tre lettere: una data in castris in obsidione Jati, negli accampamenti durante l’assedio di Jato, una data apud Jatum, nei pressi di Jato ed una terza data ante Jatum, davanti a Jato: come riportato nella grandiosa opera di Huillard-Breholles, Historia diplomatica Friderici Secundi.

Siamo inoltre certi della presenza di Federico a Calatrasi. Anche da Calatrasi nel Settembre di quell’anno invia una lettera.

Allora - è scritto nel Tariq al-Mansuri - alcuni compagni di Ibn Abbad, alienandosi da lui, cercano di convincerlo ad arrendersi all’Imperatore. Ma Ibn Abbad non cede. Successivamente, stanco e spossato per le continue veglie nella difesa della città, decide di arrendersi. Si presenta nella tenda di Federico II e riceve dall’Imperatore un calcio, con il piede armato di sprone, sicché gli lacera un fianco. Poi - è scritto - l’Imperatore lo fece rinchiudere in un’altra tenda. Al settimo giorno l’uccise, lo squartò, legò i figli alle code dei cavalli, s’impossessò di tutti i loro beni e s’insignorì di tutta la Sicilia.

Ma non per per questo cessano le ribellioni.

E’ sempre scritto nel Tariq al-Mansuri che un congiunto di Ibn Abbad, Marzuq, gioca un tiro mancino a Federico II. Gli fa sapere:" Bada che io e alcuni miei compagni non riusciamo più a reggere al tuo assedio. Ormai Ibn Abbad riposa in pace, non ci rimane altro signore che te. Mandaci tu un certo numero di tuoi cavalieri fidati ed intimi sicché noi, nottetempo, gli consegniamo la città." Federico II invia ben 115 suoi cavalieri fidati ed intimi. L’indomani l’Imperatore si presenta presso le mura della città pensando di vedere sventolare le sue bandiere e i suoi stendardi. Trova invece penzolanti le teste dei suoi 115 cavalieri.

"Vadan questi per Ibn Abbad, o nemico di Dio !", esclamò Marzuq.

L’episodio costituì argomento di storia popolare e di leggenda tant’è che oltre un secolo dopo i fatti, attorno al 1350, in una tarda compilazione geografica trovata recentemente in Spagna viene riportato lo stesso episodio. E come ogni storia popolare e leggenda anche questo episodio subì delle varianti che resero ancora più affascinante l’ostinata resistenza dei Musulmani agli Svevi. Stavolta il congiunto di Ibn Abbad non è Marzuq ma la figlia di Ibn Abbad, come la definisce Francesco Gabrieli, indomita eroina esperta nelle astuzie e nell’arte della guerra e la città assediata non è Jato ma Entella. Non è improbabile uno scambio tra le due città considerato che furono proprio Jato ed Entella le ultime due roccaforti musulmane di Sicilia o - cosa molto più attendibile - che a Jato si sia svolta la prima parte del dramma, con Ibn Abbad, e che l’ultimo atto, con Marzuq, abbia avuto per teatro Entella.

Solo un grande intelletto qual era Federico II, nel bene e nel male, poteva capire che per risolvere il suo problema, per togliersi quella palla al piede dei Musulmani, doveva ricorrere all’extrema ratio: alla separazione, all’asportazione degli uomini dal proprio territorio. Ed è così che in quei primi anni venti del 1200 iniziano le grandi deportazioni federiciane verso Lucera di Puglia che, da quel momento, assumerà la denominazione di Luceria Saracinorum.

Sul numero dei deportati possiamo fare riferimento ad uno studio dell’Egidi, fatto nei primi anni di questo secolo, dal titolo La colonia saracena di Lucera e la sua completa distruzione: distruzione, meglio massacro, poi avvenuta nell’Agosto del 1300 ad opera degli Angioini i quali, in tal modo, ritennero di fare un gran regalo al Papa in occasione del Giubileo del 1300: contemporaneamente gli Angioini mutarono il nome alla città denominandola Città di Santa Maria.

Mi sembra opportuno, in questa sede, rammentare che - in ricordo di tali deportazioni - San Cipirello e San Giuseppe Jato, accomunati nel nome di Jato, nel 1988 si sono gemellati con la città di Lucera.

Dicevamo del numero dei deportati. L’Egidi parla di circa 20.000 deportati. L’Amari sostiene che dovevano essere almeno 50-60.000.

Ma in una cronaca araba relativa all’anno 1230 troviamo scritto che in quell’anno un pellegrino degli Sceik - degli anziani, dei sapienti - di Gallo, dove viene chiarito che Gallo non è il promontorio ad occidente di Palermo - Capo Gallo per intenderci - ma che quasi certamente si tratta di Pizzo di Gallo, nell’attuale feudo di Calatalì presso Rocca d’Entella; questo pellegrino si reca in Egitto presso il Sultano al Malik al Kamil. (Al Malik al Kamil era il Sultano d’Egitto che nella Crociata del 1228 era venuto a patti con Federico II cedendogli, senza combattere, Gerusalemme. Fatto che, per altro, aveva molto scandalizzato sia l’occidente cristiano sia il mondo musulmano). Ebbene questo pellegrino pregava il Sultano al Malik al Kamil di intervenire presso Federico II affinchè facesse ritornare in queste nostre contrade i Musulmani deportati a Lucera. Perché - diceva sempre questo pellegrino - l’Imbirur al Fardarik, l’Imperatore Federico ingannò tutte queste popolazioni e ne deportò nella Gran Terra (in Puglia) ben 170.000 e altrettanti ne aveva fatti massacrare.

Nel 1237 Federico II fa trasferire la Colonia Lombarda di Oddone di Camerana da Scopello a Corleone.

In un tale periodo di sconvolgimenti, dove i Musulmani occupano i punti più elevati e fortificati, non è difficile immaginare che i Corleonesi Musulmani occupassero il sito di Montagna Vecchia e che i Lombardi siano andati ad abitare l’attuale sito di Corleone: messi a guardia - erano ghibellini - dei turbolenti Musulmani.

Nel 1243 troviamo gli ultimi Musulmani di Sicilia - o come li definisce il Fazello le reliquie dei Saracini di Sicilia - aggrappati, arroccati su Monte Jato.

Federico II invia il suo esercito imperiale sotto il comando del Conte Riccardo di Caserta. La città riesce a resistere ancora per 3 anni e nel 1246 si arrende per fame.

Gli ultimi suoi abitanti vengono deportati a Lucera di Puglia e la città, onde evitare futuri pericoli, viene totalmente rasa al suolo.

L’indagine archeologica, condotta dall’Istituto di Archeologia dell’Università di Zurigo sotto la direzione del Prof.H.P.Isler, ha dato notevoli conferme a quest’ultimo periodo della città.

Scompare così dalla Sicilia un popolo, quello arabo, che in circa tre secoli aveva reso l’isola, culturalmente ed economicamente, il centro dell’universo allora conosciuto: e la Jaitia polis kai frurion Sikelias, la Jato città e fortezza della Sicilia di Filisto, la polis Jaitinon, la città degli Jetini di Diodoro Siculo, la celsus Jetas, l’eccelsa Jato di Silio Italico scompare per sempre.

In maniera molto espressiva, alla fine del secolo scorso, Giuseppe Bennici di Piana degli Albanesi, nella sua opera l’Ultimo dei Trovatori Arabi in Sicilia fa cantare al lucerino Ibn Zaffir: "Tutto sparì. Gli uragani vi campeggiano sopra. Di Jato non rimarrà che qualche nero rigo, qualche spezzata reminiscenza in volumi delegati alla polvere. La memoria della città, fortezza dell’Islam, fuggirà come acqua che trascende via di forra in forra." 

Ma il nostro territorio non perde quella sua peculiarità, quella sua caratteristica che possiamo ora ben definire ribelle. 

Non passano neppure una trentina d’anni come riportato in un famoso trattato: anno dominice incarnationis millesimo ducentesimo octuagesimo secundo, die veneris tertia, mensis aprilis, decime indictionis.

E’ il venerdì 3 Aprile 1282. Siamo a 3 giorni dallo scoppio dei Vespri Siciliani.

Corleone, l’Animosa Corleone come successivamente titolata, è la prima città della Sicilia ad allearsi a Palermo nella cacciata degli oppressori Angioini e mette in campo ben 3.000 combattenti. E tale numero non deve assolutamente meravigliare perché da un documento riportato dall’Amari, nella sua Guerra del Vespro, siamo certi che nel 1279 Corleone è la terza città della Sicilia Occidentale. Dopo Palermo che paga 790 once d’oro al governo angioino, troviamo Trapani con 257 e subito dopo Corleone con 239. Pensate che Agrigento ne pagava 72 e Monreale 13. 

E anche adesso dobbiamo fare un altro salto nel tempo per arrivare al 1820.

E’ nel Luglio di quell’anno che un po’ tutte le attuali realtà comunali di queste nostre vallate divengono sede di scontri con gli oppressori borbonici.

Pensate un po’. A San Giuseppe li Mortilli, oggi Jato, ad appena una quarantina d’anni dalla propria fondazione, viene trovato l’orgoglio, o se preferite la forza della disperazione, di mettere a ferro e a fuoco i pochi edifici pubblici, meglio regi, e vengono bruciati tutti i registri. Registri in cui la gente chiaramente identificava gli strumenti del potere e dell’oppressione. 

E, seguendo questo filo conduttore, come non tenere conto di quella che poi passò alla storia come epopea garibaldina.

Ma chi erano i picciotti!? Che la storia, quella che ci hanno insegnato, tutta tesa ad esaltare le gesta del Grande Eroe, ma soprattutto ad esaltare i Savoia, ci presentò i picciotti come se fossero degli alieni, dei perfetti sconosciuti. Chi erano i picciotti!? Erano giovani di Monreale, Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Corleone, Partinico, Alcamo, Calatafimi, Salemi ecc. tanti giovani che, alla ricerca di migliori condizioni di vita, si trovarono dietro le bandiere del cosiddetto eroe dei due mondi.

Anche se poi il tutto si rivelò una mistificazione se non addirittura un’impostura. Tant'è che nel 1866, in quella che poi fu definita rivolta del sette e mezzo, troviamo in prima fila i picciotti di San Giuseppe li Mortilli nel tentativo di liberazione del Badia rinchiuso nel carcere dell'Ucciardone di Palermo.

E come non citare, alla ricerca di questo denominatore comune, i Fasci Siciliani dei primi anni del 1890.

Quando le diseredate popolazioni di queste nostre vallate cominciarono a prendere coscienza che ci doveva pur essere una maniera diversa, una maniera migliore di poter condurre la propria esistenza. Fasci Siciliani repressi, come al solito nel sangue, dall’esercito dei fratelli piemontesi, inviato in Sicilia da colui che ci volevano far capire, ci volevano inculcare che si trattasse di un padre della Patria: il nostro Crispi. Pensate un po’ che tipo di padre della Patria. Il Crispi ebbe a dichiarare in Parlamento che lui lo aveva sempre detto, lui lo aveva sempre sostenuto che le lotte, le ribellioni, che i Fasci Siciliani erano la logica conseguenza - immaginate un po’ - dell’avere esteso a tutti l’istruzione pubblica.

Una considerazione chiaramente cinica ma, bisogna riconoscere, altrettanto chiaramente logica. 

E come non tenere conto dell’occupazione delle terre.

Un tentativo da parte delle popolazioni di queste nostre vallate di appropriarsi del territorio su cui lavora e che gli dà da vivere. Dove, accanto ai soliti padroni e signori di turno, troviamo quell’elemento caratterizzante il nostro territorio, sino ai nostri giorni, in termini di violenza e di sopraffazione: la Mafia

E come trascurare, nei primi anni ’40, una dichiarazione di Repubblica Indipendente da parte del Comune di Piana degli Albanesi.E siamo all’altro ieri!

Ma chi ci ha mai detto queste cose! Ma in quale libro di scuola le abbiamo mai trovate scritte!

Per arrivare al 1° Maggio 1947, a Portella della Ginestra: epilogo di lotte passate e riferimento per tante battaglie combattute sino ai nostri giorni. 

Ecco, allora, il denominatore comune, la peculiarità di questo nostro territorio, la caratteristica costante nell’incessante scorrere del tempo: le lotte e le ribellioni a certe forme di potere oppressivo, puntualmente represse in maniera cruenta.

 Se affronteremo la storia del nostro territorio anche con questa chiave di lettura allora, molto probabilmente, riusciremo a comprendere nel suo pieno significato quanto scriveva alla fine del secolo scorso Giorgio La Corte: uno studioso di topografia storica del nostro territorio purtroppo poco conosciuto. Scriveva Giorgio La Corte: "L’operoso colono continuerà a salire su questi monti; continuerà a coltivare le zolle, mirando le sottostanti fertili pianure. Ma il Monte Jato, la Rocca Busambra, Montagna Vecchia, Calatrasi, Bonifato, Entella non gli diranno mai che qui furono delle forti e popolose città, e che queste pianure e queste contrade sono state bagnate dal sudore e dal pianto di lunghe file di schiavi incatenati e dal sangue di migliaia di combattenti." 

Ecco che a quel punto scopriremo quali sono le nostre origini, scopriremo chi sono i nostri antenati.

Essi sono tutti quei popoli, tutti coloro che in queste nostre vallate si sono - nel corso del tempo - insediati, alternati, sostituiti e integrati. Perché unico è il territorio, unica è la gran madre terra che ci ha visti tutti nascere, crescere e che ci accoglierà nel proprio grembo.

E se proprio qualcuno vuole differenziare le proprie origini allora, a secondo del suo modo di pensare e di agire, potrà cercare i propri antenati in una delle due grandi categorie, in una delle due grandi razze in cui l’umanità - a prescindere dal colore della pelle, dal credo politico, dalla fede religiosa - è stata sempre divisa: da un lato gli oppressori, dall’altro gli oppressi. Sì, è vero! Ci sono anche gli idioti. Ma quelli, pur appartenendo alla categoria degli oppressi, a tutti gli effetti sono degli utilissimi strumenti nelle mani degli oppressori.

Ma ci accorgeremo anche di quanto breve e limitata sia la stagione della nostra esistenza: una minuscola, piccola finestra prospettante sul vastissimo orizzonte del tempo e della storia.

Ci accorgeremo infine di quanto dobbiamo essere grati a coloro che ci hanno preceduto per averci lasciato in eredità un territorio vivibile e di quali doveri abbiamo nei confronti di coloro che verranno dopo di noi a lasciare, anche a loro, un territorio altrettanto vivibile così come ci è stato consegnato.

Scopriremo a quel punto che la migliore campagna ambientalista, la migliore campagna tesa, finalizzata alla tutela e alla salvaguardia del territorio è quella che fa quasi esclusivamente riferimento all’istruzione e alla conoscenza, ossia alla Scuola e alla ricerca.

(Tratto dall’intervento di Gioacchino NANIA in occasione della presentazione del volume "Toponomastica e topografia storica nelle Valli del Belice e dello Jato" presso l’Istituto Professionale di Stato per l’Agricoltura "P.Balsamo" nel ventennale della costituzione della PRO-JATO. Aprile 1996.)