La ricostruzione che segue è stata fatta sulla base di una "Informazione calcolatoria sopra il calcolo delli benfatti e frutti del territorio di FALLAMONICA e sua revisione fra l’Arcivescovo di Monreale e Don Pietro Pezzinga" (Archivio dell’Arcivescovado di Monreale - Schedine - Fascicolo n. 498).  

Siamo nella seconda metà del 1500. Arcivescovo di Monreale è il Cardinale Torres noto per avere scritto una valida opera dal titolo Historia della Chiesa di Monreale sotto nome del proprio segretario G.B.Lello. Non sappiamo se, o per quanto, avesse acquistato l’Arcivescovado di Monreale. Sappiamo, egli stesso lo assicura a pag.13 della sua opera, che nel 1215 sotto l’Arcivescovo Caro valeva l’Arcivescovato mille tarini d’oro, come hoggi farebbono mille scudi.

L’immenso territorio su cui l’Arcivescovado di Monreale esercita la propria giurisdizione è suddiviso in feudi. Non sappiamo con esattezza quanti fossero alla fine del 1500; sappiamo però che nel 1702 erano in numero di 72 ed interessavano una superficie di 27590 Salme corrispondenti oggi a 61536 ettari. Tali feudi erano distinti nelle seguenti classi:

-Feudi Nobili: in numero di 10 per una superficie complessiva pari a 2442 salme: erano "quelli che non essendo stati concessi a nessuno, restano nel pieno dominio della Chiesa e nella libera amministrazione dell’Arcivescovo"

-Feudi Censionali: in numero di 18 per una superficie di 4843 salme: erano quelli "li quali riconoscono la Chiesa in una determinata somma e canone pecuniario"

-Feudi a comune e decime: in numero di 5 e superficie 1577 salme: quelli che pagavano alla Chiesa la decima parte dei prodotti presunti.

-Feudi a Massarie: in numero di 39 e superficie pari a 16685 salme: quelli "concessi dalla Chiesa a particolari a modo di enfiteusi perpetua, con patti però ed oneri molto differenti dagli ordinari contratti enfiteutici".

Tale classificazione rispecchia la situazione alla fine del 1600 così come riporta l’abate Del Giudice. La nostra storia comincia invece all’inizio del secolo precedente ed esattamente... 

Il 24 Gennaio del 1520 IX Indizione era stato concesso ad enfiteusi per 29 anni il territorio di Fallamonica per censo di once 37 l’anno ad un certo Don Calcerano. Tale territorio comprendeva un molino chiamato Jato e tre masserie in precedenza appartenute una a Francesco Raffo, una a Giacinto Lo Monaco e la terza ad un certo Ferrante.

Il 12 Marzo 1523 XII Indizione tale concessione veniva trasferita a Tomasino Vernazza con gli stessi patti e condizioni.

Il 6 Settembre 1550 IX Indizione, dal Cardinale Alessandro Farnese Arcivescovo di Monreale veniva fatta nuova concessione a Paolo La Voglia e Hieronimo Pezzinga. Il corrispettivo veniva fissato in once 57 l’anno ed il periodo di validità della concessione in anni 29, col patto di pagare al Vernazza le migliorie apportate.

Il 29 Dicembre 1552 un collegio di esperti quantificava le migliorie stabilendo la relativa valutazione nei termini seguenti: 

Trentatre migliara e 600 vigne a 9 once al migliaro

once

302.12

Canneto et arbori domestici et alcuni attorno alla detta vigna

 

8.21.10

Stanze, magazeni, torre,baglio mandra, panettaria, casa delli homini, palmenti, pullari, pagliarole et altre

 

 

230. 6 . 5

Travi, serratizzi,porte, finestre furno, fontana, inciacato etc.

 

 

144.15

Totale

once

685.24.15

Tale importo veniva tempestivamente liquidato dai nuovi concessionari al Vernazza.

Il 30 Ottobre 1554 XII Indizione Hieronimo Pezzinga acquistava da Paolo La Voglia l’altra metà del territorio di Fallamonica per l’importo di once 600.

Il 2 Gennaio 1596 IX Indizione veniva dichiarata nulla et invalidata la concessione del territorio di Fallamonica fatta nel 1550 a Hieronimo Pezzinga.

Cosa era avvenuto ? 

Don Pietro Pezzinga era poco più che un ragazzo quando il padre Don Hieronimo aveva preso in concessione enfiteutica il territorio di Fallamonica. Pezzinga era il cognome storpiato con il quale era conosciuto dalla gente del luogo, in realtà si chiamava Don Hieronimo De Opezzinghi forse appartenente ad un qualche casato nobiliare, cosa non insolita nelle terre dell’Arcivescovado di Monreale. In ogni caso siamo quasi certi delle origini pisane della sua famiglia.

Ma più che come appartenente alla nobiltà del XVI secolo la storia ce l’ha consegnato come facente parte di quella borghesia imprenditrice caratterizzata, in ogni epoca, da razionale intraprendenza e da concreta operosità.

Siamo in possesso di poche notizie su Don Hieronimo per poter esprimere un giudizio su di lui, ma dall’esame di quanto avvenuto subito dopo l’acquisto della concessione, siamo almeno nelle condizioni di poter supporre una certa sua capacità negli affari e la sua lungimiranza.

Il 16 Settembre 1550 IX Indizione Don Hieronimo in società con Paolo La Voglia prendeva in enfiteusi il territorio di Fallamonica per il censo di 57 once l’anno con l’obbligo di pagare al precedente enfiteuta Tomasino Vernazza, in unica soluzione, la somma di once 685 tarì 24 e grani 15.

Ad appena 4 anni di distanza il 30 Ottobre 1554 Don Hieronimo si liberava di Paolo La Voglia acquistando l’altra metà del territorio di Fallamonica per l’importo di once 600 concedendo una rendita di 60 once annuali a favore dello stesso. Evidentemente gli affari in tale lasso di tempo erano andati così bene da far più che raddoppiare il valore del territorio in appena 4 anni. C’è da supporre l’incapacità del La Voglia di andare dietro all’intraprendenza di Don Hieronimo e nello stesso tempo Don Hieronimo, memore del vecchio proverbio siciliano megghiu sulu ca mal’accumpagnatu, aveva trovato il sistema per togliersi una palla al piede costituita dal socio in affari e per dare libero sfogo alla propria intraprendenza.

Dai documenti in possesso non sappiamo quel che avvenne sino al 1579. Siamo solo certi di due cose: in tale anno venne rinnovata la concessione enfiteutica alle stesse condizioni precedenti e stavolta l’enfiteuta non era più Don Hieronimo Pezzinga ma il figlio Don Pietro. 

Don Pietro Pezzinga era perfettamente consapevole di quali erano i patti e le condizioni prescritti dalla concessione. Egli sapeva che annualmente doveva 57 once all’Arcivescovo di Monreale da pagare in tre rate: una il primo Settembre, una il giorno di Natale e l’ultima il giorno di Pasqua. Tutto ciò per lui non costituiva un problema ne lo costituì mai in quanto fu sempre puntualissimo nel pagare.

La cosa che lo allettava di più era il sapere che non aveva vincoli sui tipi di coltivazione che poteva praticare né sugli animali che poteva allevare: in poche parole del territorio di Fallamonica poteva farne l’uso che riteneva più opportuno. E da quest’ultimo punto di vista era consapevole di ritenersi un privilegiato in quanto, solo con questa forma di contratto, poteva essere libero nella conduzione del fondo. Buona parte dei feudi circostanti invece, da Desisa alla Cammuca, da Jambaxo a Pichano da Dammusi a Pietralunga erano concessi a massarie e operare nelle massarie erano cavoli amari: in esse era possibile coltivare solamente frumento e orzo oltre all’erba per gli animali a servizio del fondo; non si potevano allevare animali come porci, pecore e mucche perché espressamente proibito dall’Arcivescovado; non si potevano piantare alberi di alcun genere né vigne e, dulcis in fundo, si era obbligati a macinare il frumento nei mulini dell’Arcivescovado al prezzo stabilito da quest’ultimo!

Don Pietro, con l’aiuto del suo curatolo Gioseppe Mangialardo di Monreale, onde studiare il da farsi, aveva preparato uno schema che riportava la situazione del territorio, grosso modo nei termini seguenti: 

Superficie dell’intero territorio di Fallamonica salme 418

Superficie lavorativa concessa a Don Pietro salme 135

Una parte di tale superficie lavorativa pari a salme 6 e tumoli 4 era destinata alla coltivazione di 50.000 viti. La rimanente parte era destinata a frumento e ad erbaggio.

Fatti i dovuti conti Don Pietro si era accorto che ogni anno in media le rese erano le seguenti:

Vigneto:

Produzione annua media 70 botti

Valore di mercato 3 once/botte

Ricavo totale 210 once

da tale importo bisognava decurtare le spese sostenute per la produzione che non erano indifferenti. Ma non si preoccupò neppure di quantificarle.

Frumento:

La parte seminata ogni anno era in media pari a 25 salme. In tale estensione poteva riuscire ad ottenere una produzione di circa 170 salme di frumento. Da calcoli già in precedenza effettuati sapeva che la resa del frumento stava mediamente nel rapporto di 1 a 7, ossia per ogni salma di frumento seminata se ne potevano ricavare 7. Quindi: 

Produzione annua media 170 salme

Valore di mercato 3 once/salma

Ricavo totale 510 once

Anche da tale importo bisognava decurtare le spese sostenute ed in primo luogo il costo del frumento da semina pari a 24 salme.  

Vero è che avrebbe potuto utilizzare l’intera superficie coltivandola a frumento, ma Don Pietro sapeva che non si poteva sempre seminare lo stesso terreno a frumento in quanto la terra si sarebbe impoverita e avrebbe prodotto sempre di meno, occorreva utilizzare la tecnica delle rotazioni culturali. E poi c’era un grosso problema di cui bisognava tenere conto: la risina.

Scrive l’Abate Del Giudice nella sua opera "Delli feudi dell’Arcivescovado di Monreale a pag.33: "Il feudo di Fallamonica è ottimo per pascolo, non così per seminare, mentre le terre sono soggette alla resina." Probabilmente il termine "resina" è un refuso del tipografo in quanto pensare ad un terreno resinoso viene un po’ difficile. La spiegazione su che cosa fosse la risina era stata tentata da Paolo Gioffrè della terra di Sant’Angelo ma abitante nella città di Palermo, mastro muratore al servizio di Don Pietro: egli sosteneva che la ‘risina’ non è causata né dal fiume né dalle acque ma viene portata dalla nebbia proveniente dal Golfo di Castellammare . Nel dialetto siciliano "risina" è sinonimo di "sirènu" e "ilata" (gelata) ossia la rugiada o brina dovuta alle notti di cielo sereno e alla mancanza di vento: la configurazione pianeggiante di una buona parte del territorio di Fellamonica presenta tutte le caratteristiche per essere soggetta alla rugiada. E come si sa la rugiada in agricoltura non è assolutamente desiderata. La risina non era altro che la ruggine del grano determinata probabilmente dalle gelate. 

Quel termine risina però per associazione di idee aveva solleticato la fantasia di Don Pietro. Guardando quei terreni pianeggianti e le acque abbondanti del fiume Jato, gli era fugacemente balenata un’idea. Ma come realizzarla?

Egli sapeva, per averlo studiato a scuola, che attorno all’anno 1000 gli Arabi avevano importato le coltivazioni di riso in Sicilia e in Spagna dal Sud-Est asiatico. Sapeva pure che attorno al 1400 gli Aragonesi avevano iniziato una serie di piantagioni in Campania e che poi si erano diffuse sino alla pianura Padana. Sapeva che le rese erano superiori a quelle di altri cereali. Ma era anche certo delle difficoltà a cui sarebbe andato incontro per mancanza di esperienza in tale settore. In ogni caso non gli venne meno l’ardire di tentare un esperimento del genere anzi da un certo punto di vista ne fu affascinato.

Attorno al 1580 fece il grande passo. 

Non siamo in possesso di sufficienti informazioni per ricostruire con esattezza quanto avvenuto nei primi anni; sappiamo solo da una dichiarazione di Santo Giannino del Regno di Napoli ma cittadino di Palermo fatta l’8 Febbraio 1597 che per i primi dodici anni Don Pietro aveva speso una buona quantità di denari sia per costruire un impianto adeguato sia per sperimentare una buona tecnica di coltivazione e di lavorazione del riso per renderlo commerciabile e che solo da quattro anni l’impianto era andato in attivo compensando le passività dei primi dodici anni. Sempre stando alle dichiarazioni di Santo Giannino uno dei problemi più grossi era costituito dalla fase di pulitura e spogliatura. Sappiamo pure, a quanto ci dice Salvatore Covello, che Don Pietro per i primi due anni aveva iniziato l’esperimento con un terreno dell’estensione di 3 salme di terra.

Dalla documentazione disponibile relativa agli ultimi 4 anni ossia sino al 1596 siamo nelle condizioni di conoscere le trasformazioni che Don Pietro aveva effettuato nel corso del tempo e l’organizzazione della sua azienda.

Aveva reso pianeggiante un’area di circa 25 salme per la coltivazione del riso suddividendola in aree delimitate da argini laterali. Aveva costruito una prisa (acquedotto) per portare l’acqua del fiume Jato al terreno da coltivare preoccupandosi contemporaneamente di creare una serie di canalizzazioni atte a consentire il carico e lo scarico dell’acqua.

Aveva impiantato un vigneto di 52 migliaia di viti su una estensione di 6.4 salme di terreno.

Inoltre aveva riorganizzato tutta l’azienda procedendo alla costruzione o al rifacimento delle seguenti opere murarie: magazzino per il frumento, pollaio, casa per gli operai, riposto, cappella, panetteria, casa per i palmenti, magazzino per il vino, stalla, pagliarola, 2 magazzini per il riso, baglio, torre, porcaria, mandra, mulino per il riso. Ma aveva anche costruito uno stazzone per la produzione dei laterizi occorrenti oltre ed una calcara per la produzione di calce. 

Occorre fare a questo punto una breve considerazione sul valore del denaro dell’epoca, non tanto per raffrontarlo col valore attuale quanto per capire meglio i rapporti tra costi e ricavi. L’analisi che segue non ha la pretesa di scientificità, può solo essere indicativa sul valore che assumevano le merci nei confronti del lavoro.

Prendiamo come riferimento il frumento il cui valore, considerando che costituiva l’alimento principale, era certamente notevolmente più alto di quello attuale. Tuttavia, per lo scopo che ci proponiamo, assumiamo che esso valesse 600 Lire al Kg in media col prezzo dei nostri giorni.

All’epoca valeva mediamente 3 once a salma. Una salma di frumento sappiamo essere 224 kg per cui il costo di una salma di frumento sarebbe stato pari a 224*600 = Lire 134400 ed il valore dell’oncia Lire 134400/3= 44800 che arrotondiamo a Lire 45000. Di conseguenza il valore del tarì risulterebbe 45000/30 = 1500 Lire ed il valore espresso in grani = 1500/20 = 75 lire. 

Tenendo presente che la canna quadrata corrispondeva a mq 4.263 e che gli importi sono riportati in once, tarì e grani, la valutazione delle migliorie apportate da Don Pietro risulta dal prospetto che segue: 

Opera Superficie Importo

Cappella 33.2 43.25.10

Casa delli homini 21.3 33.1

Magaseno delli formenti 38.4 61.16.15

Riposto 13 18.22

Pollaro 12.5 15.19.15

Panettaria 29.3 32.13.5

Casa delli palmenti e strincitura 33.4 78.6

Magaseno (magazzino) del vino 76.2 123.5.10

Altro magaseno 31 47.17.15

Stalla 75 107.8.10

Pagliarola 34 48.15

Magaseno del riso 54 103.7

Porta del baglio 8 21.14

Torre con dammuso 191 237.13

Porcaria 65 77.21.15

Mandra 20.4 42.4.10

Molino del riso 50.3 123.20

Pennata per il riso 28 95.29.15

Rocca tagliata per lo riso 70

Stazzone 14

Calcara 8

Totale once 1385.14.5

Ossia Lire 62.346.375

Altre opere di miglioramento effettuate da Don Pietro erano state: 

Le vigne consistenti in 52 migliara 814.20

Canneto et arbori attorno le vigne 70

Fossi e condutti per l’acque dello molino e

mangiature di terra per l’arbitrio dello riso 350

Totale once 1134.20

Ossia Lire 51.060.000 

Se consideriamo che la concessione era stata acquistata per 685 once ci si rende subito conto che Don Pietro era quantomeno riuscito a quadruplicarne il valore nel volgere di pochi anni.

Ma la cosa più importante era la produzione conseguente alle svariate colture e agli allevamenti praticati.

Don Pietro si era reso conto che la risaia aveva un’ottima resa. Giuseppe Calcagno asserisce che nella VII Indizione a fronte di una semina di Salme 8 di riso se ne erano raccolte 200 salme con un rapporto tra seminato e raccolto di 1 a 25. Di gran lunga superiore al rapporto 1 a 7 ottenibile col frumento.

Ed a proposito del frumento aveva scoperto che, coltivandolo dove in precedenza era stato coltivato il riso, la resa aumentava notevolmente. E ciò valeva anche per l’orzo e per i legumi. Santo Giannino di Palermo ci assicura che seminando il frumento nei terreni in cui negli anni precedenti era stato coltivato il riso si erano raggiunti rapporti tra frumento seminato e raccolto di 1 a 18 contro l’1 a 7 dei terreni vicini.

Ma Don Pietro aveva scoperto un’altra cosa molto importante: i prodotti di risulta della lavorazione del riso erano ricchi di sostanze nutritive; ragion per cui aveva impiantato un allevamento di 250 maiali. Inoltre aveva impiantato una vivara di pesce ossia un allevamento di pesci col quale otteneva un duplice scopo: produzione di alimenti e disinfestazione dell’arbitrio del riso.

Don Pietro si era preoccupato anche della commercializzazione dei prodotti utilizzando la tecnica di vendita diretta dal produttore al consumatore per cui tra i vari salariati fissi della sua azienda troviamo un bordonaro, ossia un trasportatore armato messo a capo di una fila di muli che facevano la spola tra il luogo di produzione e i mercati allora accessibili: Palermo, Alcamo, Piana dei Greci etc. Negli ultimi 6 anni aveva svolto questo compito Vito Giuffo di Monreale.

Ma a proposito di salariati fissi che allora venivano chiamati homini ordinari, sembra opportuno specificare le mansioni e i rispettivi salari. La squadra lavorativa che Don Pietro aveva costituito nel territorio di Fallamonica risultava costituita da:

Mansione num once annuali totale

Soprastante 1 20 20

Lavoratori 6 8 48

Curatolo 1 12 12

Boaro e un picciotto 2 13 13

Homo per tutti i servizi 1 7 7

Bordonaro 1 20 20

Molinaro più garzonotto 2 16 16

Porta robba 1 4 4

Homini pi li condutti 2 12 24

Panetteri 1 8 8 

In totale 18 persone il cui salario variava da un minimo di 4 once (180.000 Lire) a 20 once (900.000 Lire) e con un costo complessivo per Don Pietro pari a 162 once. Diciamo pure che nei periodi del raccolto venivano assunti altri lavoratori ai quali veniva pagato il salario nella misura di 3 tumoli di frumento al mese. Se consideriamo che un tumulo di frumento pesa Kg 14 e che in un mese se ne guadagnavano tre, dividendo per i giorni di un mese che anche allora erano 30, se ne ricava che si lavorava per 1 Kilo e 730 grammi di frumento al giorno, della serie: "quando si lavorava per un pane al giorno!". Non risulta di quante ore fosse la giornata lavorativa né per quanti giorni la settimana si lavorasse. Due cose si possono affermare con assoluta certezza: non c’era la settimana corta e le ferie venivano accumulate per trascorrerle in Paradiso.

Bisogna pur dire che il vitto per i lavoratori era a carico di Don Pietro. In un anno egli aveva speso: 

Per vitto delli homini in oglio e formaggio 48 once

In formenti 55 salme

In vino 38 botti

In ligumi 7 once  

Ma considerato che siamo in tema di spese vediamo di specificarle tutte:

Orgio per 4 mule più una per il soprastante 48 once

Conci nelle vigne e vendemmie 36

Per inchiudere le racine 18

Per cannavazzi per i sacchi di riso 16

Per guardare l’aire al tempo delli terraggi 3

Per portare li terraggi dall’aire alle stanze 1.2 tarì/salma

Per far metere il seminato 35 once

Per far metere il riso 18.25

Passiamo adesso ai ricavi annuali prendendo come riferimento la IX Indizione ossia l’anno 1596.

Vigneto: 90 botti a 3 once la botte 270 once

Riso: 200 Salme a 4 once la salma 800 once

Frumento: 170 salme a 3 once la salma (prod.propria) 540 once

Frumento 54 salme a 3 once (da terraggio) 162 once 

A quanto sopra bisogna aggiungere la produzione di carne derivante dall’allevamento di 250 maiali, la produzione di latte, carne e lana dovuta all’allevamento di 2000 pecore e 260 vacche, pesce allevato nel vivaio.

Se proviamo a fare la somma dei costi decurtandola dalla somma dei ricavi limitandoci solamente al vigneto, riso e frumento possiamo valutare con notevole difetto l’utile.

Spese sostenute per gli "homini" 505 once

Spese varie per la produzione 182 once

Totale 687 once 

Ricavi totali (vigneto+riso+frumento) 1772 once

Utile (per difetto) 1085 once

Ossia 48.825.000 Lire 

Ci si rende conto a questo punto di che cosa era riuscito a fare Don Pietro Pezzinga: pagando all’Arcivescovado 57 once di censo all’anno era riuscito ad avere un utile almeno di 1085 once!

Poteva un fatto di tale portata passare inosservato?

Don Pietro Pezzinga sapeva come organizzarsi nell’ambito della propria azienda e nei rapporti derivanti dalla commercializzazione dei propri prodotti ma non aveva messo in conto i rapporti con l’Arcivescovo. D’altro canto egli sapeva che, per contratto, l’unico obbligo da onorare era costituito dal pagamento delle 57 once annuali di censo.

L’Arcivescovo di Monreale, a sua volta, non poteva vedersi passare davanti agli occhi quel fiume di danaro standosene con le mani in mano o meglio cu l’occhi chini e i manu vacanti. C’era un obbligo ben preciso da parte della Chiesa ed era quello di salvaguardare gli interessi della stessa onde poter meglio assolvere alla sua missione spirituale e all’occasione anche a quella temporale senza, naturalmente, contare il cattivo esempio che un elemento come don Pietro Pezzinga poteva costituire per tutti gli enfiteuti dell’Arcivescovado.

Ma cosa fare?

L’Arcivescovo sapeva che l’unico appiglio, per contratto, poteva essere costituito dal mancato pagamento di tre rate annuali consecutive. Ma Don Pietro, forse più per precauzione che per deontologia professionale, era sempre stato puntualissimo.

Dopo giorni e giorni di riflessioni l’Arcivescovo, consapevole dei notevoli appoggi che poteva vantare presso l’Amministrazione del Regno nonché presso la Magistratura dell’epoca, trovò la soluzione.

Per prima cosa si munì di un certo numero di testimoni che potessero fare al caso suo. E dagli atti in possesso bisogna riconoscere che furono numerosi coloro che testimoniarono a favore e sotto le insegne della Santa Chiesa. Tutti costoro testimoniarono in maniera spontanea e senza coercizione. Non risulta in nessun atto, infatti, che l’Arcivescovo avesse loro pagato somme di denaro o avesse minacciato i fulmini della scomunica e dell’Inferno per influire sulle loro coscienze. Risulta anzi che alcuni di loro avevano lavorato nell’arbitrio di Don Pietro e, proprio per questo, ancora più attendibili.

Giuseppe Mangialardo di Monreale ad esempio era stato per tre anni il suo curatolo. Per non parlare di Matteo San Martino di Ciminna che aveva lavorato con Don Pietro per 6 anni, Salvatore Covello calabrese addirittura per 20 anni. Così pure Castro Donzello, Antonio Ragusa, Antonio Damiata, Antonio e Pietro Rignone, Cosmano e Giovanni di Venuto.

L’Arcivescovo aveva chiesto la rescissione del contratto di enfiteusi per dei motivi che, pur non previsti nell’atto di concessione, tuttavia, a parere dello stesso, costituivano elementi tali da turbare il normale svolgimento del lavoro e del convivere civile nelle terre dell’Arcivescovado.

Egli sosteneva che le coltivazioni di riso per il fatto che venivano effettuate in ambiente che richiedeva grossi quantitativi d’acqua (in media 25-30 cm per tutta l’estensione della parte coltivata) erano causa della ‘risina’ ossia di quella rugiada, o meglio ruggine, che tanto danno arrecava a tutte le coltivazioni dei territori vicini di proprietà dell’Arcivescovado.

Per altro verso, su dichiarazione di un gran numero di testimoni, si sosteneva che negli ultimi anni Don Pietro aveva negato lo stipendio a buona parte dei lavoratori dell’azienda di Fallamonica.

In relazione a quest’ultimo punto la Chiesa, consapevole dell’assenza di sindacati, dovendo preoccuparsi della cura non solo spirituale ma anche materiale dei diletti figli si sentiva obbligata a difenderne le ragioni.

L’Arcivescovo chiedeva pertanto agli organi preposti non solamente la rescissione del contratto ma anche il pagamento di un terzo della produzione degli ultimi otto anni la cui valutazione avrebbe dovuto essere effettuata da speciali periti nominati dal Tribunale. Nello stesso tempo si impegnava a pagare, se da pagare ci sarebbe stato, i "benfatti" apportati dall’enfiteuta. 

Don Pietro Pezzinga sapeva che raramente l’Arcivescovo di Monreale era stato dichiarato soccombente nelle cause avute con gli enfiteuti. Qualcuno gli aveva suggerito di tentare un accordo o quantomeno di farsi raccomandare, ma invano. Non era nel suo carattere.

L’esito della causa, com’era facilmente prevedibile, fu per intero a favore dell’Arcivescovo e in data 11 Gennaio 1596 IX Indizione la concessione venne dal Tribunale dichiarata "nulla et invalida"; nello stesso tempo venne assegnato ai periti il compito di valutare sia gli impianti che la produzione.

Veniva nominato perito d’Ufficio un certo Morello del quale gli atti non riportano il nome e, purtroppo, non conosciamo neppure il nome di Calabrò, nominato perito d’Ufficio in una seconda fase.

Tutti i ‘benfatti’ venivano valutati 1808 once 17 tarì e 30 grani da cui bisognava decurtare un terzo dei prodotti degli ultimi 8 anni.

Nella valutazione della produzione furono ascoltate numerosissime persone e sulle loro testimonianze i periti basarono i loro calcoli. Sulla pretesa dell’Arcivescovo tendente ad ottenere un terzo della produzione furono riportate parecchie giustificazioni ma una fu ritenuta particolarmente razionale dai periti: quella in cui, a proposito delle vigne, l’Arcivescovo sosteneva che "...il frutto delle vigne non solo è prodotto dalle viti e dalli conci, ma insieme dal terreno dove sono piantate, e perciò esso terreno può concorrere per la terza parte di quanto ha soluto produrre la vigna, e per un’altra terza parte li conci, e per un’altra terza parte l’industria e travaglio di chi ha fatto la vigna...", e siccome i terreni erano del Padreterno i cui interessi sulla terra venivano gestiti e salvaguardati dalla Chiesa, risultava chiaro che il terzo dei prodotti doveva andare a finire dritto dritto nelle casse dell’Arcivescovo. Naturalmente lo stesso discorso valeva anche per gli altri tipi di produzione.

A fronte delle testimonianze di circa 50 persone, di cui disponeva l’Arcivescovo, Don Pietro poté utilizzare quelle di una decina di testimoni i quali non fecero altro che confermare quanto riportato in maniera accorata ma nello stesso tempo distaccata al Foglio 131: Don Pietro sosteneva che "il nuovo arbitrio del riso da esso esperimentato et introdutto da anni 17 in quà non li è mai riuscito, se non dalla V Indizione in quà, et avanti quel tempo ciò che si raccoglieva si dava ai porci, e da quel tempo in quà è riuscito per haverci Don Pietro posto più terre sott’acqua, fattovi la pinnata, et altri rimedy con grossa spesa, et grande industria e diligenza d’esso Don Pietro." Tutto ciò veniva confermato da Dominico d’Oliveri, Santo Furmino e Pietro Lo Leggio i quali aggiungevano che "tutte quelle terre dove è fatto l’arbitrio dello riso erano terre margiuse, infruttuose e mal conditionate e non atte a seminare e render formento per essere soggette alla risina."

Il conto finale sugli introiti derivanti dalla produzione veniva quantificato, mediando i valori riportati dal Morello e Calabrò e valutando il terzo preteso dall’Arcivescovo, in once 2088. Considerato che da questo importo bisognava decurtare il censo puntualmente pagato in 8 anni pari a 57*8=456 once nonché i ‘benfatti’ valutati all’occasione in once 1808, il conto a questo punto diventò semplicissimo: 2088-456-1808 = -196 ovverosia:

Don Pietro avrebbe ricevuto dall’Arcivescovo 196 once e andava via.

L’Arcivescovo avrebbe pagato a Don Pietro 196 once ma in compenso sarebbe divenuto proprietario assoluto non solo del terreno ma di tutto l’impianto e le migliorie apportate nel corso del tempo.

Amen. E così sia. O meglio: e così fu. 

Noi di Don Pietro sappiamo poco. Non sappiamo dove e quando sia nato e morto. Sappiamo che lo stesso tentativo di piantagione del riso lo aveva pure fatto a Mincilepri (Montelepre) dove aveva pure costruito un mulino.

Persona di notevole intraprendenza aveva cercato con l’ingegno di cambiare la realtà economica dell’epoca ma non aveva capito, forse perché impegnato com’era non ne aveva avuto il tempo, che contro il Potere, quello vero, quello che è capace di imporre la sua giustizia e di trasformare anche la coscienza della gente, non poteva opporsi né con il lavoro né con l’ingegno. Sarebbe occorso qualcos’altro. Ma per i tempi in cui si trovava ad operare rischiava di ricorrere alla violenza che, probabilmente, non rientrava nel suo carattere.

Noi non sappiamo se continuò nel suo lavoro o cambiò mestiere. Chissà? Magari avrà intrapreso la carriera ecclesiastica!

Sappiamo solo che il feudo di Fallamonica non fu più dato in enfiteusi ma a massaria. Del suo mulino di riso, ma non della coltivazione, troviamo traccia nel 1702.

Quel che è rimasto è un rudere, solitaria vedetta nella piana di Fellamonica, ancora oggi chiamato "nni Ron Petru", unica testimonianza dell’operosità e intraprendenza di Don Pietro Pezzinga.