L'unica Chiesa di Cristo

Situazione e futuro dell'Ecumenismo di Mons Walter Kasper[1]

 

 

Mons. Walter Kasper

Giovanni Paolo II e il primate ortodosso di Grecia Christodoulos (4 maggio 2001) Firma della Charta Oecumenica (metr. Jérémie: KEK - card. Vlk: CCEE)

 

 

       Ecumenismo: scelta irrevocabile

     Ecumenismo come problema di una piccola minoranza? Speriamo di no. Riguardo all'attesa di una rapida unità dei cristiani vige una buona dose di scetticismo. Certi dicono che l'unità dei cristiani si realizzerà il giorno del giudizio universale e i burloni aggiungono solo la sera di esso.

     Ma noi non possiamo sapere come sarà il futuro. Dobbiamo fare ciò che è possibile oggi. Infatti, la preghiera e il mandato di Cristo (Gv 17,21) sono inequivocabili. È impossibile non percepire il dono e il compito dell'unità nel Nuovo Testamento[2]. La divisione dei cristiani contraddice il comandamento di Cristo ed è uno scandalo. Non possiamo rassegnarci: «Credere in Cristo significa volere l'unità» (UUS 9)[3]. Non è quindi filantropia o opportunismo di politica ecclesiastica, ma un'esigenza della fede.

     Il movimento ecumenico del XX sec. ha avviato un cammino nuovo che può essere considerato solo opera dello Spirito Santo. La decisione della Chiesa cattolica a favore dell'impegno ecumenico è irrevocabile. Dal concilio Vaticano II ad oggi si sono fatti notevoli passi avanti. I cristiani divisi non si considerano più estranei, concorrenti o addirittura nemici, ma fratelli; hanno eliminato passate incomprensioni, malintesi, pregiudizi; pregano insieme, testimoniano insieme la loro fede; in molti campi lavorano insieme. Hanno sperimentato che «ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide» (UUS 20). Chi volesse ritornare al passato non avrebbe perso solo la testa, ma sarebbe stato abbandonato dallo Spirito Santo.

     Il mondo ha bisogno della testimonianza comune e l'attende. Infatti, l'unità dei cristiani non è fine a se stessa. Gesù ha pregato: «siano una cosa sola, affinché il mondo creda» (Gv 17,21). Solo nella maggiore comunione la Chiesa può essere segno e strumento di unità e di pace. L'impegno ecumenico è anche una risposta all'appello dei «segni dei tempi».

 

       I fondamenti

     Alcuni recenti documenti, soprattutto la dichiarazione Dominus Iesus (DI), hanno indotto a dubitare dell'impegno ecumenico della Chiesa cattolica. Il fatto ha deluso, offeso e ferito molte persone. Ma quei documenti non rappresentano un cambiamento nella posizione della Chiesa cattolica, infatti, il riferimento alle diversità non comporta la fine del dialogo, ma va inteso come una sfida al dialogo. Per questo vorrei fare alcune considerazioni sui fondamenti dell'ecumenismo, così come li troviamo nel decreto UR del Vaticano II e nell'enciclica UUS. La dichiarazione DI va letta e compresa nel quadro di questi due testi. Infatti, a partire dal concilio, la situazione si è modificata in maniera drammatica. Il diffuso pluralismo e relativismo post-moderno o tardo-moderno ha messo in discussione il presupposto comune del dialogo ecumenico: la fede in Gesù Cristo quale unico e universale mediatore della salvezza (1Tm 2,5). Questo è il cuore del Vangelo e il presupposto dell'ecumenismo. Questa dovrebbe essere anche l'idea delle Chiese della Riforma: il solus Christus.

     L'elemento decisivo dell'approccio ecumenico del Vaticano II è proprio il cristocentrismo. Prima del concilio vigeva la concezione dell'ecumenismo di ritorno. Si affermava che la Chiesa cattolica era la vera Chiesa di Cristo, per cui l'unità era possibile solo come ritorno degli "altri" cristiani in essa (Pio XI, Enciclica Mortalium animos del 1928). Il Vaticano II ha abbandonato quest'impostazione. Il punto di riferimento non è più la Chiesa cattolica romana, ma l'unica Chiesa di Cristo. Naturalmente, essa non è una realtà puramente spirituale, bensì ha radici storiche; essa sussiste nella Chiesa cattolica, è cioè concretamente realizzata in essa. La formula subsistit in, al posto dell'abituale est, è stata scelta per affermare che, al di fuori della struttura visibile della Chiesa cattolica, non esistono solo singoli cristiani, ma esiste una vera realtà ecclesiale, per cui la Chiesa di Cristo non si identifica semplicemente con la Chiesa cattolica esistente. «Oltre i limiti della comunità cattolica non c'è il vuoto ecclesiale» (UUS 13).

     Il concilio parla di elementa ecclesiae al di fuori della Chiesa cattolica e afferma che lo Spirito si serve di questi elementa come strumenti di salvezza e riconosce nelle altre Chiese esempi di santità fino al martirio. Così inteso, il subsistit in non svaluta le altre Chiese e Comunità Ecclesiali.

     In esse si trovano affermazioni analoghe. Anzi le Chiese ortodosse affermano ancor più fortemente di essere la Chiesa di Cristo. Anche le confessioni riformate fanno la stessa affermazione e si distinguono coscientemente e criticamente dalla Chiesa papale. Ogni Chiesa deve partire dalla presenza in essa della vera Chiesa di Cristo. La Chiesa cattolica prende sul serio le altre Chiese, da pari a pari, non livellando le differenze e non dichiarandole indifferenti, ma rispettandone l'alterità che esse rivendicano.

     Certo, il concilio riconosce anche la condizione peccatrice dei membri della propria Chiesa, nonché la necessità della riforma della Chiesa: afferma che la Chiesa è pellegrina, è semper purificanda, deve sempre percorrere la strada della penitenza e del rinnovamento. E riconosce che vari aspetti dell'essere Chiesa sono meglio realizzati nelle altre Chiese. L'ecumenismo non è una strada a senso unico, ma uno scambio di doni (UUS 28).

     Ciò dimostra che le divisioni non sono giunte fino alla radice e non si innalzano fino al cielo. Perciò, non si può neppure parlare in senso proprio di divisione della Chiesa. Il concilio distingue fra communio piena e communio imperfetta. Il fine dell'attività ecumenica è la realizzazione della piena communio, che non può essere una Chiesa unica, ma solo un'unità nella diversità. La strada che vi conduce non è la conversione dei singoli alla Chiesa cattolica, ma la conversione di tutti a Cristo. Senza rinnovamento personale e istituzionale non c'è unità ecumenica. Aiutandoci reciprocamente ad avvicinarci a Cristo, ci avviciniamo fra noi. Non si tratta di trattative e compromessi di politica ecclesiastica, ma di un reciproco scambio e arricchimento. Un'unità del genere non la si può "fare"; essa è un dono dello Spirito di Dio e della sua guida. Perciò l'ecumenismo non è solo una questione accademica; la sua anima è l'ecumenismo spirituale.

     Fin qui le affermazioni centrali del decreto e dell'enciclica sull'ecumenismo. Entrambi i documenti vanno compresi sullo sfondo dell'ecclesiologia di communio tipica della Bibbia e della Chiesa antica. Questa ecclesiologia-communio è stata sviluppata soprattutto dai teologi ortodossi ed è diventata il fondamento di tutti i dialoghi ecumenici, nonché dei testi relativi del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC). In base a essi l'unità della Chiesa viene intesa come unità-communio delle Chiese, le quali sono e restano Chiesa e tuttavia diventano sempre più una Chiesa.

 

       Ecumenismo con le antiche Chiese orientali e ortodosse

     Le Chiese orientali comprendono non solo le Chiese ortodosse, ma anche le antiche Chiese orientali, che si sono separate dall'allora Chiesa imperiale già nel IV e V secolo, in occasione dei concili di Efeso (381) e Calcedonia (451), come la Chiesa sira, la Chiesa copta, la Chiesa etiopica, o che non ne hanno mai fatto parte, come la Chiesa armena e la Chiesa malankarese. Per secoli sono state definite Chiese nestoriane o monofisite. Oggi sono entrate nel movimento ecumenico, le controversie cristologiche sono state risolte mediante dichiarazioni bilaterali tra il papa e i rispettivi patriarchi in una formula cristologica. Questa formula ha permesso di mantenere la fede comune in Cristo come vero Dio e vero uomo senza costringere queste Chiese ad accettare le formulazioni del concilio di Calcedonia. Quindi un'unità nella varietà delle forme espressive.

     Una diversa problematica presentano le Chiese ortodosse bizantine e slave. Con queste Chiese noi condividiamo l'eredità del primo millennio. L'anno 1054 come data della separazione ha un carattere simbolico, perché già prima le due parti dell'Impero romano avevano condotto una vita separata. Perciò, quando incontriamo le Chiese ortodosse, abbiamo la sensazione di incontrare, nonostante la vicinanza dogmatica, una diversa cultura e mentalità, che non ha alle spalle né la divisione fra Chiesa e stato, né l'Illuminismo moderno, bensì 50/70 anni di oppressione comunista. Ora queste Chiese si trovano davanti a un mondo profondamente mutato, nel quale devono ritrovare il loro posto. Ciò richiede tempo ed esige pazienza da parte nostra. L'unica seria controversia teologica fra noi e la Chiesa ortodossa è la questione del primato romano. D'altra parte, le molte tensioni nazionali intraortodosse, in un mondo che diventa sempre più un unico mondo, evidenziano l'importanza di un servizio universale dell'unità.

     Dopo la svolta politica del 1989 sono sorti ulteriori problemi. In Ucraina e Romania sono riemerse le Chiese unite a Roma, che erano state poste fuori legge da Stalin. Da allora si discute della questione del primato sulla base della questione delle Chiese "unite". C'era da aspettarsi che la discussione finisse in un vicolo cieco. Dal punto di vista ortodosso, essa riguarda la relazione fra primato e sinodalità. Nella celebre conferenza tenuta a Graz nel 1976, l'allora prof. Joseph Ratzinger ha posto le basi per questa discussione, affermando che «oggi non può essere impossibile dal punto di vista cristiano ciò che è stato possibile per un millennio», e che «riguardo alla dottrina del primato, Roma non può pretendere dall'Oriente più di quanto é stato formulato e praticato nel primo millennio». Questa "formula Ratzinger" è diventata decisiva ed è entrata anche nella Ut unum sint (n.61), che invita a una discussione ecumenica sull'esercizio dell'ufficio petrino. Ma, nonostante i molti incontri accademici e pubblicazioni mi sembra che la questione non sia ancora teologicamente e psicologicamente matura né in seno all'ortodossia né in seno alla Chiesa cattolica.

 

     Però si sono fatti molti passi avanti. I documenti pubblicati finora dalla Commissione teologica internazionale evidenziano una profonda comunione nella concezione della fede, della Chiesa e dei sacramenti. Così abbiamo potuto ripristinare con le Chiese sorelle ortodosse elementi essenziali della communio della Chiesa antica, reciproche visite e regolari scambi epistolari. Essendo vissuti per molti secoli separati gli uni dagli altri, oggi dobbiamo reimparare a vivere insieme mediante un lungo processo fatto di incontri umani e cristiani, nei quali dobbiamo eliminare pregiudizi, purificare la memoria storica[4], costruire la reciproca comprensione e stima.

 

       Ecumenismo con le Chiese della Riforma

     Dopo la separazione dall'Oriente, la cristianità latina si è sviluppata in modo unilaterale, si è impoverita, ha respirato con un solo polmone. Quest'impoverimento è stato una delle cause che ha condotto nel XVI secolo alla catastrofe della divisione della Chiesa in Occidente.

     Nel frattempo abbiamo raggiunto importanti obiettivi nei dialoghi bilaterali e multilaterali: possiamo parlare lo stesso linguaggio su questioni fondamentali relative alla cristologia e alla dottrina della giustificazione. La Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (1999) è stata una pietra miliare. Non intendo assolutamente negare le questioni che quella dichiarazione ha dovuto lasciare aperte. Mi chiedo solo: come Chiese dobbiamo concordare fin nei minimi dettagli su tutte le questioni teologiche? Non possono continuare a esistere, sulla base di un sostanziale accordo, differenze che sono teologicamente importanti, ma che non hanno necessariamente un carattere tale da dividere le Chiese? Non basta un consenso differenziato, una diversità riconciliata?

     L'unico osso duro che ancora rimane e che nella Dichiarazione congiunta è stato nascosto in una nota a piè pagina, è la questione della Chiesa e la questione del ministero. Dalla Riforma è sorto di fatto un nuovo tipo di Chiese, alle quali dal punto di vista cattolico mancano elementi ritenuti essenziali. Nel senso della Riforma, la Chiesa è creatura Verbi; è intesa, tramite la predicazione della Parola e la fede che vi risponde, come l'assemblea dei credenti nella quale si insegna il Vangelo nella sua purezza e si amministrano correttamente i sacramenti. Perciò, le Chiese della Riforma non hanno struttura episcopale, ma comunitaria e sinodale-presbiterale. È evidente la differenza rispetto al modello cattolico-ortodosso con la sua costituzione sacramentale-episcopale.

     Ma negli ultimi vent'anni si sono fatti notevoli passi avanti. Un ruolo importante hanno giocato i documenti di Lima su Battesimo, eucaristia e ministero (1982), che comprendono la successione apostolica nell'ufficio episcopale come «segno, ma non garanzia della continuità e dell'unità della Chiesa». Molto importanti sono anche le discussioni bilaterali e multilaterali sull'episkopé. Nel frattempo, in dialogo con le Chiese anglicane, le Chiese luterane scandinave e americane si sono aperte alla questione dell'ufficio episcopale storico. Diversamente le Chiese luterane del continente europeo nella Concordia di Leuenberg, comprendono la costituzione episcopale e sinodale-presbiterale come una legittima diversità.

     Attualmente riceviamo così dai nostri partner segnali diversi e in questo momento non è facile per noi individuare la loro posizione ecclesiologica e la direzione in cui si muovono. In questo caso, come in altre questioni ecclesiologiche (ad esempio, la relazione fra il sacerdozio comune di tutti i fedeli e il ministero ordinato e la presidenza dell'eucaristia), occorrono chiarimenti. È quindi di buon auspicio il fatto che la commissione Fede e Costituzione abbia avviato un processo di consultazione su «Natura e fine della Chiesa», che si spera possa procedere in modo costruttivo.

     In breve, dopo il chiarimento sulla dottrina della giustificazione, ora nel dialogo con le Chiese della Riforma rimangono le questioni ecclesiologiche. Secondo la concezione cattolica e ortodossa, esse sono la chiave per poter avanzare sull'urgente questione della comunione eucaristica.

 

       Nuove sfide e futuri compiti

     All'interno delle questioni relative al ministero e alla forma istituzionale c'è la questione dell'autorità nella Chiesa che riguarda la capacità di parlare e agire in modo vincolante. Nell'attuale pluralismo e relativismo è una questione di vita o di morte. Infatti, un pluralismo che considera tutto ugualmente valido finisce nello scetticismo e nel nichilismo. Le Chiese che non riescono a trovare una risposta alla questione di un'autorità vincolante corrono il rischio di finire in questo vortice che risucchia ogni cosa.

     Perciò, negli ultimi decenni sono sorti in tutte le Chiese movimenti di resistenza contro un eccessivo adeguamento a mode e umori moderni. In tutte le Chiese è in atto una nuova ricerca dell'identità cristiana ed ecclesiale. Sul piano ecumenico questo ha un effetto ritardante ed è una concausa dei vari contraccolpi che abbiamo registrato ultimamente. Al di fuori delle Chiese storiche, la ricerca dell'identità appare nelle nuove comunità evangelicali e pentecostali che sono in forte crescita in tutto il mondo, mentre il numero dei fedeli delle Chiese protestanti tradizionali ristagna o regredisce. Questo fenomeno ha cambiato il paesaggio ecumenico e lo cambierà sempre di più. La crisi del CEC, apparsa chiaramente nell'ultima assemblea generale ad Harare (1998), è strettamente legata a questo.

     I dialoghi fra il Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani e le Chiese libere, vecchie e nuove, non riguardano più prioritariamente le dottrine controverse, ma una questione più fondamentale: che cosa significa essere cristiani e testimoniare il Vangelo? Nella discussione sulla comune testimonianza emergono le questioni etiche: matrimonio e famiglia, aborto, omosessualità, eutanasia, giustizia e pace, lotta al razzismo, violenza.

     In queste e in altre questioni si pone per tutte le Chiese il problema rilevanza-identità. Ci si chiede: quanta apertura è necessaria per essere rilevanti? E quanta apertura è possibile per non perdere la propria identità? Senza rilevanza l'ecumenismo è un puro passatempo; senza identità non si può essere partner degni di essere presi sul serio in campo ecumenico.

     Molti tentativi di preservare la propria identità sono anti-ecumenici, poiché sono fondamentalistici, si aggrappano cioè a una comprensione letterale, astorica, della Bibbia o delle professioni di fede. Per i cattolici è una strada non percorribile. Secondo la concezione cattolica, la fides non può essere disgiunta dalla ratio. Proprio a causa del pluralismo e relativismo postmoderno dobbiamo tornare a porre la questione della verità. Infatti, la confessione di un unico Dio e di un unico Signore Gesù Cristo include la confessione di un'unica verità.

     Per il futuro della teologia ecumenica sarà quindi decisivo il fatto di comprendersi più di quanto non si sia fatto finora nel senso della fides quaerens intellectum, come cura intellettuale della fede comune. È questo il prezzo da pagare per l'ecumenismo. La via di uscita dalla crisi attuale è una nuova alleanza fra la fede e la ragione.



[1] Riportiamo in sintesi la relazione tenuta in occasione della nomina di mons. Walter Kasper a professore onorario dell'Università di Tübingen (23/1/2001). Mons. Kasper, già segretario del Pontificio Consiglio per la promozione dell'Unità dei Cristiani, è stato eletto Cardinale nel Concistoro del 21 febbraio 2001 e il 3 marzo 2001 è stato nominato Presidente dello stesso Consiglio succedendo al card. Edward Cassidy.

[2] Negli unici due passi in cui ricorre nei Sjnottici (Mt 16,18; 18,17), il termine 'Chiesa', è al singolare. Paolo sottolinea l'unità della Chiesa soprattutto con l'immagine dell'unità del corpo (1Cor 12,4-27; Rm 12,4s). Attraverso il battesimo, noi siamo uno in Cristo, (Gal 3,27s). Così Paolo mette in guardia dalle divisioni (1Cor 1,10) e ammonisce a preservare l'unità dello Spirito. 'Un solo corpo, un solo spirito... una sola speranza...; un solo Signore, una sola fede, un solo Dio Padre di tutti" (Ef 4,4s). Giovanni parla di "un solo gregge e un solo pastore" (Gv 10,16). Negli Atti degli apostoli l'unanimità dei discepoli è il segno distintivo della primitiva comunità cristiana (At 1,14; 2,46; 4,24; 5,12).

[3] Giovanni Paolo II, enciclica Ut unum sint (25/5/1995), n. 9

[4] Il 4 maggio 2001 il papa Giovanni Paolo II, nel suo viaggio in Grecia, ad Atene, ha chiesto perdono per le tensioni del passato e del presente. Ha lanciato un forte appello alla riconciliazione fra i cristiani, chiedendo a tutti uno sforzo di apertura. Commosso è stato l'incontro con il Primate ortodosso Christodoulos, dopo dieci secoli di silenzio e di diffidenza.


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