L'unica
Chiesa di Cristo
Situazione
e futuro dell'Ecumenismo di Mons Walter Kasper[1]
Ecumenismo: scelta irrevocabile
Ecumenismo come problema di una piccola minoranza? Speriamo di no.
Riguardo all'attesa di una rapida unità dei cristiani vige una
buona dose di scetticismo. Certi dicono che l'unità dei
cristiani si realizzerà il giorno del giudizio universale e i
burloni aggiungono solo la sera di esso.
Ma noi non possiamo sapere come sarà il futuro. Dobbiamo fare ciò
che è possibile oggi. Infatti, la preghiera e il mandato di
Cristo (Gv 17,21) sono inequivocabili. È impossibile non
percepire il dono e il compito dell'unità nel Nuovo Testamento[2].
La divisione dei cristiani contraddice il comandamento di Cristo
ed è uno scandalo. Non possiamo rassegnarci: «Credere
in Cristo significa volere l'unità» (UUS
9)[3].
Non è quindi filantropia o opportunismo di politica
ecclesiastica, ma un'esigenza della fede.
Il movimento ecumenico del XX sec. ha avviato un cammino nuovo
che può essere considerato solo opera dello Spirito Santo. La
decisione della Chiesa cattolica a favore dell'impegno ecumenico
è irrevocabile. Dal concilio Vaticano II ad oggi si sono fatti
notevoli passi avanti. I cristiani divisi non si considerano più
estranei, concorrenti o addirittura nemici, ma fratelli; hanno
eliminato passate incomprensioni, malintesi, pregiudizi; pregano
insieme, testimoniano insieme la loro fede; in molti campi
lavorano insieme. Hanno sperimentato che «ciò che ci
unisce è più forte di ciò che ci divide» (UUS
20). Chi volesse ritornare al
passato non avrebbe perso solo la testa, ma sarebbe stato
abbandonato dallo Spirito Santo.
Il mondo ha bisogno della testimonianza comune e l'attende.
Infatti, l'unità dei cristiani non è fine a se stessa. Gesù ha
pregato: «siano una cosa sola, affinché il mondo
creda» (Gv 17,21). Solo nella maggiore comunione la
Chiesa può essere segno e strumento di unità e di pace.
L'impegno ecumenico è anche una risposta all'appello dei «segni
dei tempi».
I fondamenti
Alcuni recenti documenti, soprattutto la dichiarazione Dominus
Iesus (DI), hanno
indotto a dubitare dell'impegno ecumenico della Chiesa cattolica.
Il fatto ha deluso, offeso e ferito molte persone. Ma quei
documenti non rappresentano un cambiamento nella posizione della
Chiesa cattolica, infatti, il riferimento alle diversità
non comporta la fine del dialogo, ma va inteso come una sfida al
dialogo. Per questo vorrei fare alcune considerazioni sui
fondamenti dell'ecumenismo, così come li troviamo nel decreto UR
del Vaticano II e nell'enciclica UUS. La
dichiarazione DI va letta e compresa nel
quadro di questi due testi. Infatti, a partire dal concilio, la
situazione si è modificata in maniera drammatica. Il diffuso
pluralismo e relativismo post-moderno o tardo-moderno ha messo in
discussione il presupposto comune del dialogo ecumenico: la fede
in Gesù Cristo quale unico e universale mediatore della salvezza
(1Tm 2,5). Questo è il cuore del Vangelo e il presupposto
dell'ecumenismo. Questa dovrebbe essere anche l'idea delle Chiese
della Riforma: il solus Christus.
L'elemento decisivo dell'approccio ecumenico del Vaticano II è
proprio il cristocentrismo. Prima del concilio vigeva la
concezione dell'ecumenismo di ritorno. Si
affermava che la Chiesa cattolica era la vera Chiesa di Cristo,
per cui l'unità era possibile solo come ritorno degli "altri"
cristiani in essa (Pio XI, Enciclica Mortalium animos
del 1928). Il Vaticano II ha abbandonato quest'impostazione. Il
punto di riferimento non è più la Chiesa cattolica romana, ma
l'unica Chiesa di Cristo. Naturalmente, essa non è una realtà
puramente spirituale, bensì ha radici storiche; essa sussiste
nella Chiesa cattolica, è cioè concretamente realizzata in essa.
La formula subsistit in, al posto
dell'abituale est, è stata scelta per
affermare che, al di fuori della struttura visibile della Chiesa
cattolica, non esistono solo singoli cristiani, ma esiste una
vera realtà ecclesiale, per cui la Chiesa
di Cristo non si identifica semplicemente con la Chiesa cattolica
esistente. «Oltre i limiti della comunità cattolica
non c'è il vuoto ecclesiale» (UUS
13).
Il concilio parla di elementa ecclesiae al
di fuori della Chiesa cattolica e afferma che lo Spirito si serve
di questi elementa come strumenti di
salvezza e riconosce nelle altre Chiese esempi di santità fino
al martirio. Così inteso, il subsistit in non
svaluta le altre Chiese e Comunità Ecclesiali.
In esse si trovano affermazioni analoghe. Anzi le Chiese
ortodosse affermano ancor più fortemente di
essere la Chiesa di Cristo. Anche le confessioni riformate fanno
la stessa affermazione e si distinguono coscientemente e
criticamente dalla Chiesa papale. Ogni
Chiesa deve partire dalla presenza in essa della vera Chiesa di
Cristo. La Chiesa cattolica prende sul serio le altre Chiese, da
pari a pari, non livellando le differenze e non
dichiarandole indifferenti, ma rispettandone
l'alterità che esse rivendicano.
Certo, il concilio riconosce anche la condizione peccatrice dei
membri della propria Chiesa, nonché la necessità della riforma
della Chiesa: afferma che la Chiesa è pellegrina, è semper
purificanda, deve sempre percorrere la strada della
penitenza e del rinnovamento. E riconosce che vari aspetti
dell'essere Chiesa sono meglio realizzati nelle altre Chiese.
L'ecumenismo non è una strada a senso unico, ma uno scambio di
doni (UUS 28).
Ciò dimostra che le divisioni non sono giunte fino alla radice e
non si innalzano fino al cielo. Perciò, non si può neppure
parlare in senso proprio di divisione della Chiesa. Il concilio
distingue fra communio piena e communio
imperfetta. Il fine dell'attività ecumenica è la
realizzazione della piena communio, che non
può essere una Chiesa unica, ma solo un'unità nella diversità.
La strada che vi conduce non è la conversione dei singoli alla
Chiesa cattolica, ma la conversione di tutti a Cristo. Senza
rinnovamento personale e istituzionale non c'è unità ecumenica.
Aiutandoci reciprocamente ad avvicinarci a Cristo, ci avviciniamo
fra noi. Non si tratta di trattative e compromessi di politica
ecclesiastica, ma di un reciproco scambio e arricchimento.
Un'unità del genere non la si può "fare"; essa è un
dono dello Spirito di Dio e della sua guida. Perciò l'ecumenismo
non è solo una questione accademica; la sua anima è
l'ecumenismo spirituale.
Fin qui le affermazioni centrali del decreto e dell'enciclica
sull'ecumenismo. Entrambi i documenti vanno compresi sullo sfondo
dell'ecclesiologia di communio tipica della
Bibbia e della Chiesa antica. Questa ecclesiologia-communio è
stata sviluppata soprattutto dai teologi ortodossi ed è
diventata il fondamento di tutti i dialoghi ecumenici, nonché
dei testi relativi del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC). In
base a essi l'unità della Chiesa viene intesa come unità-communio
delle Chiese, le quali sono e restano Chiesa e
tuttavia diventano sempre più una Chiesa.
Ecumenismo con le antiche Chiese orientali e ortodosse
Le Chiese orientali comprendono non solo le Chiese ortodosse, ma
anche le antiche Chiese orientali, che si sono separate
dall'allora Chiesa imperiale già nel IV e V secolo, in occasione
dei concili di Efeso (381) e Calcedonia (451), come la Chiesa
sira, la Chiesa copta, la Chiesa etiopica, o che non ne hanno mai
fatto parte, come la Chiesa armena e la Chiesa malankarese. Per
secoli sono state definite Chiese nestoriane o
monofisite. Oggi sono entrate nel movimento ecumenico,
le controversie cristologiche sono state risolte mediante
dichiarazioni bilaterali tra il papa e i rispettivi patriarchi in
una formula cristologica. Questa formula ha permesso di mantenere
la fede comune in Cristo come vero Dio e vero uomo senza
costringere queste Chiese ad accettare le formulazioni del
concilio di Calcedonia. Quindi un'unità nella varietà delle
forme espressive.
Una diversa problematica presentano le Chiese ortodosse bizantine
e slave. Con queste Chiese noi condividiamo l'eredità del primo
millennio. L'anno 1054 come data della separazione ha un
carattere simbolico, perché già prima le due parti dell'Impero
romano avevano condotto una vita separata. Perciò, quando
incontriamo le Chiese ortodosse, abbiamo la sensazione di
incontrare, nonostante la vicinanza dogmatica, una diversa
cultura e mentalità, che non ha alle spalle né la divisione fra
Chiesa e stato, né l'Illuminismo moderno, bensì 50/70 anni di
oppressione comunista. Ora queste Chiese si trovano davanti a un
mondo profondamente mutato, nel quale devono ritrovare il loro
posto. Ciò richiede tempo ed esige pazienza da parte nostra.
L'unica seria controversia teologica fra noi e la Chiesa
ortodossa è la questione del primato romano. D'altra parte, le
molte tensioni nazionali intraortodosse, in un mondo che diventa
sempre più un unico mondo, evidenziano l'importanza di un
servizio universale dell'unità.
Dopo la svolta politica del 1989 sono sorti ulteriori problemi.
In Ucraina e Romania sono riemerse le Chiese unite a Roma, che
erano state poste fuori legge da Stalin. Da allora si discute
della questione del primato sulla base della questione delle
Chiese "unite". C'era da aspettarsi che la discussione
finisse in un vicolo cieco. Dal punto di vista ortodosso, essa
riguarda la relazione fra primato e sinodalità. Nella celebre
conferenza tenuta a Graz nel 1976, l'allora prof. Joseph
Ratzinger ha posto le basi per questa discussione, affermando che
«oggi non può essere impossibile dal punto di vista
cristiano ciò che è stato possibile per un millennio», e
che «riguardo alla dottrina del primato, Roma non può
pretendere dall'Oriente più di quanto é stato formulato e
praticato nel primo millennio». Questa "formula
Ratzinger" è diventata decisiva ed è entrata anche nella Ut
unum sint (n.61), che invita a una discussione
ecumenica sull'esercizio dell'ufficio petrino. Ma, nonostante i
molti incontri accademici e pubblicazioni mi sembra che la
questione non sia ancora teologicamente e psicologicamente matura
né in seno all'ortodossia né in seno alla Chiesa cattolica.
Però si sono fatti molti passi avanti. I documenti pubblicati
finora dalla Commissione teologica internazionale evidenziano una
profonda comunione nella concezione della fede, della Chiesa e
dei sacramenti. Così abbiamo potuto ripristinare con le Chiese
sorelle ortodosse elementi essenziali della communio della
Chiesa antica, reciproche visite e regolari scambi epistolari.
Essendo vissuti per molti secoli separati gli uni dagli altri,
oggi dobbiamo reimparare a vivere insieme mediante un lungo
processo fatto di incontri umani e cristiani, nei quali dobbiamo
eliminare pregiudizi, purificare la memoria storica[4],
costruire la reciproca comprensione e stima.
Ecumenismo con le Chiese della Riforma
Dopo la separazione dall'Oriente, la cristianità latina si è
sviluppata in modo unilaterale, si è impoverita, ha respirato
con un solo polmone. Quest'impoverimento è stato una delle cause
che ha condotto nel XVI secolo alla catastrofe della divisione
della Chiesa in Occidente.
Nel frattempo abbiamo raggiunto importanti obiettivi nei dialoghi
bilaterali e multilaterali: possiamo parlare lo stesso linguaggio
su questioni fondamentali relative alla cristologia e alla
dottrina della giustificazione. La Dichiarazione
congiunta sulla dottrina della giustificazione (1999)
è stata una pietra miliare. Non intendo assolutamente negare le
questioni che quella dichiarazione ha dovuto lasciare aperte. Mi
chiedo solo: come Chiese dobbiamo concordare fin nei minimi
dettagli su tutte le questioni teologiche? Non possono continuare
a esistere, sulla base di un sostanziale accordo, differenze che
sono teologicamente importanti, ma che non hanno necessariamente
un carattere tale da dividere le Chiese? Non basta un consenso
differenziato, una diversità riconciliata?
L'unico osso duro che ancora rimane e che nella Dichiarazione
congiunta è stato nascosto in una nota a piè pagina,
è la questione della Chiesa e la questione del ministero. Dalla
Riforma è sorto di fatto un nuovo tipo di Chiese, alle quali dal
punto di vista cattolico mancano elementi ritenuti essenziali.
Nel senso della Riforma, la Chiesa è creatura Verbi; è
intesa, tramite la predicazione della Parola e la fede che vi
risponde, come l'assemblea dei credenti nella quale si insegna il
Vangelo nella sua purezza e si amministrano correttamente i
sacramenti. Perciò, le Chiese della Riforma non hanno struttura
episcopale, ma comunitaria e sinodale-presbiterale. È evidente
la differenza rispetto al modello cattolico-ortodosso con la sua
costituzione sacramentale-episcopale.
Ma negli ultimi vent'anni si sono fatti notevoli passi avanti. Un
ruolo importante hanno giocato i documenti di Lima su Battesimo,
eucaristia e ministero (1982), che comprendono la
successione apostolica nell'ufficio episcopale come «segno,
ma non garanzia della continuità e dell'unità della Chiesa». Molto
importanti sono anche le discussioni bilaterali e multilaterali sull'episkopé.
Nel frattempo, in dialogo con le Chiese anglicane, le
Chiese luterane scandinave e americane si sono aperte alla
questione dell'ufficio episcopale storico. Diversamente le Chiese
luterane del continente europeo nella Concordia di
Leuenberg, comprendono la costituzione episcopale e
sinodale-presbiterale come una legittima diversità.
Attualmente riceviamo così dai nostri partner segnali diversi e
in questo momento non è facile per noi individuare la loro
posizione ecclesiologica e la direzione in cui si muovono. In
questo caso, come in altre questioni ecclesiologiche (ad esempio,
la relazione fra il sacerdozio comune di tutti i fedeli e il
ministero ordinato e la presidenza dell'eucaristia), occorrono
chiarimenti. È quindi di buon auspicio il fatto che la
commissione Fede e Costituzione abbia avviato un processo di
consultazione su «Natura e fine della Chiesa», che si spera
possa procedere in modo costruttivo.
In breve, dopo il chiarimento sulla dottrina della
giustificazione, ora nel dialogo con le Chiese della Riforma
rimangono le questioni ecclesiologiche. Secondo la concezione
cattolica e ortodossa, esse sono la chiave per poter avanzare
sull'urgente questione della comunione eucaristica.
Nuove sfide e futuri compiti
All'interno delle questioni relative al ministero e alla forma
istituzionale c'è la questione dell'autorità nella Chiesa che
riguarda la capacità di parlare e agire in modo vincolante.
Nell'attuale pluralismo e relativismo è una questione di vita o
di morte. Infatti, un pluralismo che considera tutto ugualmente
valido finisce nello scetticismo e nel nichilismo. Le Chiese che
non riescono a trovare una risposta alla questione di un'autorità
vincolante corrono il rischio di finire in questo vortice che
risucchia ogni cosa.
Perciò, negli ultimi decenni sono sorti in tutte le Chiese
movimenti di resistenza contro un eccessivo adeguamento a mode e
umori moderni. In tutte le Chiese è in atto una nuova ricerca
dell'identità cristiana ed ecclesiale. Sul piano ecumenico
questo ha un effetto ritardante ed è una concausa dei vari
contraccolpi che abbiamo registrato ultimamente. Al di fuori
delle Chiese storiche, la ricerca dell'identità appare nelle
nuove comunità evangelicali e pentecostali che sono in forte
crescita in tutto il mondo, mentre il numero dei fedeli delle
Chiese protestanti tradizionali ristagna o regredisce. Questo
fenomeno ha cambiato il paesaggio ecumenico e lo cambierà sempre
di più. La crisi del CEC, apparsa chiaramente nell'ultima
assemblea generale ad Harare (1998), è strettamente legata a
questo.
I dialoghi fra il Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani
e le Chiese libere, vecchie e nuove, non riguardano più
prioritariamente le dottrine controverse, ma una questione più
fondamentale: che cosa significa essere cristiani e testimoniare
il Vangelo? Nella discussione sulla comune
testimonianza emergono le questioni etiche: matrimonio
e famiglia, aborto, omosessualità, eutanasia, giustizia e pace,
lotta al razzismo, violenza.
In queste e in altre questioni si pone per tutte le Chiese il
problema rilevanza-identità. Ci si chiede: quanta apertura è
necessaria per essere rilevanti? E quanta apertura è possibile
per non perdere la propria identità? Senza rilevanza
l'ecumenismo è un puro passatempo; senza identità non si può
essere partner degni di essere presi sul serio in campo ecumenico.
Molti tentativi di preservare la propria identità sono anti-ecumenici,
poiché sono fondamentalistici, si aggrappano cioè a una
comprensione letterale, astorica, della Bibbia o delle
professioni di fede. Per i cattolici è una strada non
percorribile. Secondo la concezione cattolica, la fides
non può essere disgiunta dalla ratio.
Proprio a causa del pluralismo e relativismo postmoderno dobbiamo
tornare a porre la questione della verità. Infatti, la
confessione di un unico Dio e di un unico Signore Gesù Cristo
include la confessione di un'unica verità.
Per il futuro della teologia ecumenica sarà quindi decisivo il
fatto di comprendersi più di quanto non si sia fatto finora nel
senso della fides quaerens intellectum, come
cura intellettuale della fede comune. È questo il prezzo da
pagare per l'ecumenismo. La via di uscita dalla crisi attuale è
una nuova alleanza fra la fede e la ragione.
[1] Riportiamo in sintesi la relazione tenuta in occasione della nomina di mons. Walter Kasper a professore onorario dell'Università di Tübingen (23/1/2001). Mons. Kasper, già segretario del Pontificio Consiglio per la promozione dell'Unità dei Cristiani, è stato eletto Cardinale nel Concistoro del 21 febbraio 2001 e il 3 marzo 2001 è stato nominato Presidente dello stesso Consiglio succedendo al card. Edward Cassidy.
[2] Negli unici due passi in cui ricorre nei Sjnottici (Mt 16,18; 18,17), il termine 'Chiesa', è al singolare. Paolo sottolinea l'unità della Chiesa soprattutto con l'immagine dell'unità del corpo (1Cor 12,4-27; Rm 12,4s). Attraverso il battesimo, noi siamo uno in Cristo, (Gal 3,27s). Così Paolo mette in guardia dalle divisioni (1Cor 1,10) e ammonisce a preservare l'unità dello Spirito. 'Un solo corpo, un solo spirito... una sola speranza...; un solo Signore, una sola fede, un solo Dio Padre di tutti" (Ef 4,4s). Giovanni parla di "un solo gregge e un solo pastore" (Gv 10,16). Negli Atti degli apostoli l'unanimità dei discepoli è il segno distintivo della primitiva comunità cristiana (At 1,14; 2,46; 4,24; 5,12).
[3] Giovanni Paolo II, enciclica Ut unum sint (25/5/1995), n. 9
[4] Il 4 maggio 2001 il papa Giovanni Paolo II, nel suo viaggio in Grecia, ad Atene, ha chiesto perdono per le tensioni del passato e del presente. Ha lanciato un forte appello alla riconciliazione fra i cristiani, chiedendo a tutti uno sforzo di apertura. Commosso è stato l'incontro con il Primate ortodosso Christodoulos, dopo dieci secoli di silenzio e di diffidenza.