Germania

 

LIVELLO SUPERIORE

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GERMANIA

 

 

 

1. I fiumi Reno e Danubio separano l'intera Germania da Galli, Reti e Pannoni; la reciproca paura o i monti la separano da Sarmati e Daci; le altre parti le cinge l'Oceano, abbracciando ampie penisole e isole di smisurata estensione, dove, in tempi recenti, abbiamo conosciuto alcuni popoli e re, che la guerra ci ha fatto scoprire. Il Reno, scaturito da inaccessibile e scoscesa vetta delle Alpi Retiche, piegando con lenta curva a occidente, va a sfociare nell'Oceano settentrionale. Il Danubio, sgorgando dalla catena del monte Abnoba, non molto elevato e dal dolce pendio, lambisce le terre di molti popoli, per poi gettarsi, da sei foci, nel Mar Pontico; la corrente d'una settima foce s'impaluda.

 

2. Propendo a credere i Germani una razza indigena, con scarsissime mescolanze dovute a immigrazioni o contatti amichevoli, perché un tempo quanti volevano mutare paese giungevano non via terra ma per mare, mentre l'Oceano, che si stende oltre sconfinato e, per così dire, a noi contrapposto, raramente è solcato da navi provenienti dalle nostre regioni. E poi, a parte i pericoli d'un mare tempestoso e sconosciuto, chi lascerebbe l'Asia, l'Africa o l'Italia per portarsi in Germania tra paesaggi desolati, in un clima rigido, in una terra triste da vedere e da starci se non per chi vi sia nato?

In antichi poemi, unica loro forma di trasmissione storica, cantano il dio Tuistone nato dalla terra. A lui assegnano come figlio Manno, progenitore e fondatore della razza germanica e a Manno attribuiscono tre figli, dal nome dei quali derivano il proprio gli Ingevoni, i più vicini all'Oceano, gli Erminoni, stanziati in mezzo, e gli Istevoni, cioè tutti gli altri. Alcuni, per la libertà che tempi tanto antichi consentono, ritengono più numerosi i figli del dio e più numerose le denominazioni dei popoli, cioè i Marsi, i Gambrivii, gli Svevi, i Vandilii, e che questi siano i nomi genuini e antichi. Invece il termine Germania è stato introdotto nell'uso di recente, perché i primi che varcarono il Reno, cacciandone i Galli, quelli che ora son detti Tungri, si chiamavano a quel tempo Germani. Così a poco a poco prevalse il nome di una tribù, non dell'intera stirpe: dapprima tutti, per la paura che incutevano, furono chiamati Germani dal nome dei vincitori, ma poi, ricevuto quel nome, finirono per attribuirselo essi stessi.

 

3. Si ricorda che anche Ercole ebbe a stare con loro e, al momento di andare in battaglia, lo celebrano come il più valoroso fra tutti gli eroi. Hanno pure canti di battaglia che intonano - la modulazione la chiamano bardito - per esaltare gli animi e dal canto traggono presagi sull'esito della battaglia. Infatti atterriscono, o son loro a tremare, a seconda di come si leva il grido di guerra; e non sembra un complesso di voci, ma un unanime incitamento al valore. Puntano soprattutto all'asprezza del suono e a produrre un'onda sonora tutta franta, e accostano lo scudo alla bocca, perché la voce, per risonanza, rimbombi più forte e cupa. Alcuni poi pensano che anche Ulisse, portato a questo Oceano da quel suo ben noto lungo e leggendario errare, abbia raggiunto le terre della Germania e che abbia fondato e chiamato Asciburgio la località posta sulla riva del Reno e oggi ancora abitata; dicono anzi che in quello stesso luogo si sia ritrovata in passato un'ara consacrata a Ulisse, con l'aggiunta del nome del padre Laerte e che al confine tra Germania e Rezia esistano tuttora monumenti e tombe con iscrizioni in caratteri greci. Cose che non confermo, né intendo confutare: ciascuno può credervi, o no, a suo piacere.

 

4. Personalmente inclino verso l'opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania non siano contaminati da incroci con gente di altra stirpe e che si siano mantenuti una razza a sé, indipendente, con caratteri propri. Per questo anche il tipo fisico, benché così numerosa sia la popolazione, è eguale in tutti: occhi azzurri d'intensa fierezza, chiome rossicce, corporature gigantesche, adatte solo all'assalto. Non altrettanta è la resistenza alla fatica e al lavoro; incapaci di sopportare la sete e il caldo, ma abituati al freddo e alla fame dal clima e dalla povertà del suolo.

 

5. Il quale suolo, alquanto vario d'aspetto, nell'insieme risulta irto di selve e infestato da paludi, più umido verso le Gallie, più ventoso verso il Norico e la Pannonia; ferace di messi, inadatto agli alberi da frutta, ricco di bestiame, per lo più di piccola taglia. Neppure i buoi hanno la loro solenne bellezza o l'ornamento delle corna; conta per loro la quantità e sono l'unica e più gradita ricchezza. Gli dèi hanno negato ai Germani l'argento e l'oro: se sia ciò segno di protezione o di ostilità, non saprei. Però non mi sento di dire che non s'apre nessuna vena d'argento o d'oro in Germania: chi le ha mai sondate? Diverso rispetto a noi l'uso, diverso il valore che danno al possesso. Capita di vedere, da loro, vasi d'argento offerti in dono ad ambasciatori o a capi, ma trattati con la stessa noncuranza di quelli d'argilla. Ma i popoli a noi più vicini, a seguito dei rapporti commerciali, valorizzano l'oro e l'argento e mostrano di riconoscere e di pregiare alcune nostre monete; i popoli dell'interno praticano, con più semplice e antica forma di scambio, il baratto. Danno credito alle monete vecchie, note da tempo, quelle con l'orlo dentato o con impressa una biga. Ricercano l'argento più dell'oro, non per una particolare predilezione, ma perché il valore delle monete d'argento meglio si presta al commercio di oggetti ordinari e poco pregiati.

 

6. Neppure il ferro abbonda, a giudicare dal tipo di armi. Pochi usano spade e lance d'una certa lunghezza: portano delle aste o, per dirla col loro nome, delle framee, dal ferro stretto e corto ma tanto aguzze e maneggevoli che possono impiegare la stessa arma, secondo occorrenza, in combattimenti da vicino e da lontano. Anche i cavalieri si limitano ad avere scudo e framea; i fanti lanciano anche proiettili, molti ciascuno, e li scagliano a grande distanza, a corpo nudo o coperti d'un mantello leggero. Non ostentano ornamenti militari; soltanto gli scudi li tingono di colori vistosi. Pochi indossano corazze, pochissimi poi un elmo di cuoio o di metallo. I cavalli non spiccano né per bellezza né per velocità. Neppure li addestrano a fare volteggi, come da noi: portano i cavalli in linea retta o fanno eseguire loro una conversione a destra con un allineamento così compatto che nessuno resta indietro. Ad una valutazione globale, è più forte la fanteria; e per questo combattono mescolati, perché si uniforma armonicamente alla battaglia equestre la velocità dei fanti, scelti fra tutti i giovani e disposti in prima fila. Anche il loro numero è prestabilito: cento per ogni distretto, e appunto questo è il nome che li indica fra loro, sicché quello che dapprima era un numero diventa un titolo d'onore. La schiera si dispone a cunei. L'indietreggiare, purché si contrattacchi, lo considerano saggia tattica piuttosto che segno di paura. Anche nelle battaglie d'esito incerto, portano indietro i corpi dei caduti. L'onta peggiore è abbandonare lo scudo e a chi così si sia disonorato non si concede più di presenziare ai riti o di intervenire alle assemblee, tanto che molti scampati alla guerra posero fine al loro disonore con un laccio al collo.

 

7. Scelgono i re per nobiltà di sangue, i comandanti in base al valore. I re non hanno potere illimitato o arbitrario e i comandanti contano per l'esempio che danno, non perché comandano, facendosi ammirare, se sono coraggiosi, se si fanno vedere innanzi a tutti, se si battono in prima fila. D'altronde, mettere a morte, imprigionare, sferzare è concesso solo ai sacerdoti e ciò non per punizione o per ordine del comandante, ma come per imposizione del dio che credono presente fra i combattenti. Portano in battaglia immagini di belve e simboli divini tratti dai boschi sacri, e - cosa che più d'ogni altra sprona al coraggio - la formazione di uno squadrone di cavalleria o di un cuneo avviene non per casuale raggruppamento, ma in base alle famiglie e ai clan; i loro cari stanno nei pressi, da dove possono udire le urla delle donne e i vagiti dei bambini. Questi i testimoni più sacri; da loro la lode più ambita: presentano le ferite alle madri, alle mogli, che hanno l'animo di contarle e di esaminarle; ed esse recano ai combattenti cibi ed esortazioni.

 

8. Si ha ricordo di eserciti, ormai sul punto di ripiegare e di cedere, rinsaldati dalle insistenti preghiere delle donne che mostravano il petto e che indicavano loro lo spettro dell'imminente schiavitù; schiavitù che temono per le loro donne assai più che per sé, tanto che si sentono più saldamente vincolate quelle popolazioni dalle quali si pretendono, come ostaggi, anche nobili fanciulle. Attribuiscono anzi alle donne un che di sacro e di profetico e non ne sottovalutano i consigli o ne disattendono i responsi. Abbiamo veduto noi romani, al tempo del divo Vespasiano, Velleda considerata da molti come un dio; ma anche in passato venerarono Albruna e parecchie altre, non per adulazione, né per farne delle dee.

 

9. Sopra tutti gli dèi onorano Mercurio, cui ritengono lecito, in certi giorni, fare anche sacrifici umani. Placano Ercole e Marte con sacrifici d'animali consentiti. Parte degli Svevi sacrifica anche a Iside. Dell'origine e del motivo di questo culto straniero ho potuto accertare ben poco al di fuori di un dato, e cioè che il simbolo stesso della dea, rappresentata in forma di nave liburnica, dimostra che il culto è stato importato. Non ritengono per altro conforme alla maestà degli dèi rinserrarli fra pareti e raffigurarli con sembianza umana: consacrano loro boschi e selve e danno nomi di divinità a quell'essere misterioso che solo il senso religioso fa loro percepire.

 

10. Più di qualsiasi altro popolo rispettano gli auspici e le sorti. Per queste ultime il procedimento è semplice. Tagliano un rametto di albero fruttifero in piccoli pezzi, li contraddistinguono con certi segni e li buttano a caso su una veste bianca. Dopo di che il sacerdote della tribù, se il consulto è per la comunità, o il capofamiglia, se ha destinazione privata, invocati gli dèi con lo sguardo volto al cielo, ne raccoglie tre pezzi, uno per volta, e li interpreta secondo il segno impresso. Se il responso è contrario, non si interrogano più le sorti, per quel giorno, sul medesimo argomento; in caso invece di segni favorevoli, si richiede un'ulteriore conferma degli auspici. È noto anche in Germania l'uso di interrogare le voci e i voli degli uccelli. È specialità di quelle genti ispirarsi ai presagi e ai moniti dei cavalli. Essi sono nutriti, a spese della collettività, nelle foreste e nei boschi sacri prima ricordati, bianchissimi e non contaminati dal lavoro prestato all'uomo: aggiogati al carro sacro, sono accompagnati dal sacerdote, dal re o dal capo di una gente, i quali ne osservano nitriti e fremiti. Non esiste auspicio al quale più ci si affidi, non solo da parte della gente comune, ma dei notabili e dei sacerdoti: ritengono infatti sé ministri degli dèi e i cavalli depositari del volere divino. Esiste anche un altro modo di trarre gli auspici, impiegato per prevedere l'esito di guerre importanti. Un prigioniero del popolo con cui sono in guerra, comunque catturato, lo oppongono a combattere contro un campione del loro popolo, ciascuno con le proprie armi: la vittoria dell'uno o dell'altro ha valore di pronostico.

 

11. Sulle questioni di minore importanza decidono i capi, su quelle più importanti, tutti; comunque, anche quelle di cui è arbitro il popolo subiscono un preventivo esame da parte dei capi. Si radunano, tranne casi di improvvisa emergenza, in giorni particolari, nel novilunio o nel plenilunio, perché credono che siano i periodi più favorevoli per prendere iniziative. Non contano il tempo, come noi, per giorni, ma per notti; con tale criterio fissano date, così si accordano: per loro è la notte che guida il giorno. Dal loro spirito di libertà deriva questo inconveniente, che non si presentano alle riunioni contemporaneamente, come dietro comando, ma perdono due o tre giorni per l'attesa dei partecipanti. Quando la massa dei convenuti lo ritiene opportuno, siedono in assemblea, armati. Il silenzio viene imposto dai sacerdoti che, in quelle occasioni, hanno anche il potere di reprimere. Quindi prendono la parola i re o i capi, secondo l'età, la nobiltà, la gloria militare e l'abilità oratoria e li stanno ad ascoltare più per l'autorevolezza che hanno nel persuadere che per l'autorità. Se le idee espresse non piacciono, manifestano disapprovazione con mormorii; se invece piacciono, battono insieme le framee: il plauso espresso con le armi è il più onorevole.

 

12. Nell'assemblea è consentito presentare anche accuse e intentare un processo capitale. Le pene variano secondo le colpe: i traditori e i disertori sono impiccati agli alberi; i vili e i codardi e quelli che macchiano il proprio corpo con pratiche infamanti vengono sommersi nel fango di una palude, poi coperta con un graticcio. La diversità del supplizio ha un suo significato: la punizione dei primi crimini deve essere veduta da tutti, quella degli atti vergognosi, nascosta. Anche per le mancanze meno gravi esistono punizioni proporzionate: i colpevoli pagano un'ammenda in cavalli o capi di bestiame, parte della quale va al re o alla collettività e l'altra a chi ottiene giustizia o ai suoi familiari. Sempre in queste assemblee vengono scelti anche i capi, che amministrano la giustizia nei distretti e nei villaggi; ciascuno di essi è assistito da cento uomini del popolo, che lo consigliano e gli conferiscono autorità.

 

13. Nessun affare trattano, né pubblico né privato, se non armati ma, per consuetudine, nessuno prende le armi se non quando la comunità l'ha giudicato idoneo. Allora, in assemblea, uno dei capi o il padre o un parente ornano il giovane dello scudo e della framea: questa è per loro la toga, questo il primo attestato d'onore per i giovani: prima di quel momento sono considerati parte della famiglia, poi dello stato. Il titolo di nobiltà o le grandi benemerenze degli antenati conferiscono dignità di capo anche agli adolescenti; gli altri si aggregano ai capi più maturi e già sperimentati, senza vergognarsi di figurare nel seguito che, secondo il giudizio di chi comanda, comporta una gerarchia. Di conseguenza esiste una grande emulazione per conquistare il primo posto presso il capo, e, fra i capi, per avere i seguaci più numerosi e combattivi. Questo è il prestigio, questa la potenza dei capi: essere attorniati sempre da una folta schiera di giovani scelti dà decoro in tempo di pace e in guerra. Ed è motivo di gloria e di rinomanza, non solo presso la propria gente, ma anche agli occhi delle popolazioni vicine, segnalarsi per il numero e il valore del seguito. I capi sono ricercati nelle ambascerie, colmati di doni e spesso con la loro fama decidono le sorti della guerra.

 

14. In battaglia poi è disonorevole per un capo lasciarsi superare in valore ed è disonorevole per il seguito non eguagliare il valore del capo. Inoltre costituisce un'infamia e una vergogna, che dura per tutta la vita, tornare dal campo di battaglia, sopravvivendo al proprio capo: difenderlo, proteggerlo, attribuire a sua gloria anche i propri atti di valore è l'impegno più sacro: i capi combattono per la vittoria, il seguito per il capo. Se la tribù in cui sono nati intorpidisce nell'ozio di una lunga pace, molti giovani nobili raggiungono volontariamente le tribù che al momento sono impegnate in qualche guerra, sia perché la gente germanica non ama la pace, sia perché più facilmente si acquista fama in mezzo ai pericoli, e si può mantenere un grande seguito solo con la forza e la guerra. Dalla generosità del capo pretendono quel cavallo adatto alla guerra o quella cruenta framea vittoriosa; infatti cibo e imbandigioni, non raffinati ma abbondanti, valgono come paga. I mezzi per largheggiare in doni derivano dalle guerre e dai saccheggi. È ben più difficile indurli ad arare la terra e ad aspettare il raccolto dell'anno che a provocare il nemico e a guadagnarsi ferite; pare anzi loro pigrizia e viltà acquistare col sudore quanto possono avere col sangue.

 

15. Quando non sono in guerra, dedicano molto tempo alla caccia, ma più all'ozio, abbandonandosi al sonno e al cibo; i più forti e bellicosi non fanno nulla, delegando la cura della casa, della famiglia e dei campi alle donne, ai vecchi e alle persone più deboli della famiglia: essi restano inattivi, in stupefacente contrasto con la loro natura, perché gli stessi amano l'inattività e detestano la pace. È usanza che, nelle tribù, ciascuno porti volontariamente ai capi una quota di bestiame o di prodotti della terra e tutto ciò, accettato come segno di onore, serve anche ai loro bisogni. Si compiacciono soprattutto dei doni dei popoli confinanti, mandati da privati ma anche dalla collettività: cavalli scelti, belle armi, decorazioni metalliche e collane; ma ormai abbiamo loro insegnato a prendere anche denaro.

 

16. È notorio che le popolazioni germaniche non hanno vere e proprie città e che non amano neppure case fra loro contigue. Vivono in dimore isolate e sparse, a seconda che li attragga una fonte, un campo, un bosco. Non costruiscono, come noi, villaggi con edifici vicini e addossati gli uni agli altri: ciascuno lascia uno spazio intorno alla propria casa o per precauzione contro possibili incendi o per imperizia nella costruzione. Non impiegano pietre tagliate o mattoni: per ogni cosa si servono di legname grezzo, incuranti di assicurare un aspetto accogliente. Tuttavia rivestono accuratamente certe parti delle abitazioni di una terra così fine e lucida da imitare la tinteggiatura e i disegni colorati. Usano ricavare anche degli spazi sotterranei, ricoprendoli di un abbondante strato di letame, quale rifugio d'inverno o deposito per le messi, perché, così facendo, mitigano il rigore del freddo e, in occasione di incursioni di un nemico, questi devasta i luoghi scoperti, mentre ciò che è nascosto sotto terra o rimane ignorato o sfugge proprio perché deve essere cercato.

 

17. Il vestito, per tutti, è un corto mantello allacciato da una fibbia o, in mancanza, da una spina; il resto del corpo è nudo e passano intere giornate accanto al focolare acceso. I più ricchi si distinguono per una sottoveste, non ampia, come hanno Sarmati e Parti, ma attillata, e che mette in rilievo le forme. Indossano anche pelli di fiere: senza voler apparire eleganti quelli vicini ai fiumi, come segno di raffinatezza invece quelli dell'interno, dove il commercio non porta alcun lusso. Questi ultimi scelgono gli animali adatti, li scuoiano e poi ne screziano le pellicce con pezzi di pelle di altri animali, che l'Oceano più lontano o il mare sconosciuto danno alla luce. Analogo a quello degli uomini è l'abbigliamento delle donne, salvo che queste si coprono spesso con mantelli di lino ricamati di porpora e non allungano la parte superiore della tunica a formare delle maniche; hanno braccia e avambracci scoperti e rimane scoperta anche la parte superiore del petto.

 

18. Per altro i rapporti coniugali sono severi e, nei loro costumi, nulla v'è che meriti altrettanta lode. Infatti, quasi soli fra i barbari, sono paghi di una sola moglie, salvo pochissimi, e non per sete di piacere, ma perché, a causa della loro nobiltà, sono oggetto di molte offerte di matrimonio. La dote non la porta la moglie al marito, ma il marito alla moglie. Intervengono i genitori e i parenti e valutano i doni, scelti non per soddisfare i piaceri femminili o perché se ne adorni la nuova sposa, ma consistenti in buoi, in un cavallo bardato, in uno scudo con framea e spada. Come corrispettivo di tali doni si riceve la moglie, che, a sua volta, porta qualche arma al marito: questo è il vincolo più solido, questo l'arcano rito, queste le divinità nuziali. E perché la donna non si creda estranea ai pensieri di gloria militare o esente dai rischi della guerra, nel momento in cui prende avvio il matrimonio, le si ricorda che viene come compagna nelle fatiche e nei pericoli, per subire e affrontare la stessa sorte, in pace come in guerra: questo significano i buoi aggiogati, questo il cavallo bardato, questo il dono delle armi. Così deve vivere, così morire: sappia di ricevere armi che dovrà consegnare inviolate e degne ai figli, che le nuore riceveranno a loro volta, per trasmetterle ai nipoti.

 

19. Vivono dunque in riservata pudicizia, non corrotte da seduzioni di spettacoli o da eccitamenti conviviali. Uomini e donne ignorano egualmente i segreti delle lettere. Rarissimi, tra gente così numerosa, gli adulterii, la cui punizione è immediata e affidata al marito: questi le taglia i capelli, la denuda e, alla presenza dei parenti, la caccia di casa e la incalza a frustate per tutto il villaggio. Non esiste perdono per la donna disonorata: non le varranno bellezza, giovinezza, ricchezza, per trovare un marito. Perché là i vizi non fanno sorridere e il corrompere e l'essere corrotti non si chiama moda. Ancora più austere sono le tribù in cui solo le vergini si sposano e la speranza e l'attesa del matrimonio si appagano una volta sola. Un solo marito ricevono così come hanno un solo corpo e una sola vita, perché il loro pensiero non vada oltre e non si prolunghi il desiderio e perché amino non tanto il marito, bensì il matrimonio. Limitare il numero dei figli o ucciderne qualcuno dopo il primogenito è considerata colpa infamante e lì hanno più valore i buoni costumi che non altrove le buone leggi.

 

20. In ogni casa crescono nudi e sporchi, per poi svilupparsi in quelle membra e in quei corpi che tanto ammiriamo. Ogni madre allatta al seno i propri figli e non li affida ad ancelle o nutrici. Impossibile distinguere il padrone o il servo da cure particolari nell'educazione. Vivono tra il medesimo bestiame e sullo stesso terreno, finché l'età separa i giovani nati liberi e il valore li fa conoscere tali. I rapporti sessuali non sono precoci e quindi la loro virilità è inesauribile. Non c'è fretta di far sposare le giovani; identico ai maschi è il vigore giovanile, simile la statura: si maritano quando hanno prestanza e robustezza pari al loro compagno e i figli rinnovano la forza dei genitori. Lo zio materno tiene nella stessa considerazione di un padre i figli delle sorelle. Certe tribù privilegiano questo legame di sangue e, quando ricevono ostaggi, lo preferiscono, perché, secondo loro, i nipoti impegnano più in profondo gli affetti e in modo più esteso la famiglia. Gli eredi dei beni e i successori sono però i figli che ciascuno ha e non si fanno testamenti. In mancanza di figli, subentrano, in ordine di successione, i fratelli, gli zii paterni e gli zii materni. Più numerosi sono i parenti di sangue e acquisiti, più onorata è la vecchiaia; e a non aver eredi non c'è vantaggio alcuno.

 

21. È un dovere assoluto far proprie le inimicizie e le amicizie del padre o di un parente; gli odii non sono però implacabili: anche l'omicidio infatti è riscattabile con un certo numero di buoi o di ovini e l'intera famiglia riceve questo atto di soddisfazione, con vantaggio per la comunità, perché le inimicizie sono più pericolose in un paese libero.

Nessun altro popolo ha più spiccati il senso conviviale e quello dell'ospitalità. È inammissibile per loro respingere qualcuno dalla propria casa. Tutti accolgono l'ospite alla propria tavola, imbandita secondo i propri mezzi. Finita la disponibilità di cibo, chi aveva offerto l'ospitalità gli indica un'altra casa e ve lo accompagna; pur senza invito, entrano nella casa vicina, e non c'è differenza: vengono accolti con lo stesso riguardo. In fatto d'ospitalità nessuno fa distinzione tra persona conosciuta o sconosciuta. Quando l'ospite parte, è usanza concedergli ciò che chiede, e la franchezza nel chiedere è altrettanta. I doni sono per loro una gioia, né chi dona si sente in credito, né chi riceve in obbligo. [Il tenore di vita, quando si è con gli ospiti, è quello comune.]

 

22. Appena usciti dal sonno, che in genere protraggono fino a giorno inoltrato, si lavano, per lo più con acqua calda, come è naturale in un paese dove l'inverno occupa tanta parte dell'anno. Finito di lavarsi, mangiano. Ciascuno ha un posto e un piatto separato a tavola. Poi, armati, vanno alle loro occupazioni e, non meno spesso, a dei banchetti. Non costituisce vergogna passare il giorno e la notte bevendo. Le risse, frequenti, come suole tra avvinazzati, raramente finiscono con semplici insulti, più spesso con morti e feriti. Per altro, generalmente, nei banchetti si tratta di riconciliazioni tra nemici, di contratti di matrimonio, di scelte dei capi e perfino di pace e di guerra, come se in nessun'altra occasione l'animo fosse più aperto a pensieri franchi o s'infiammasse meglio a grandi azioni. Gente senza astuzia né malizia, apre inoltre i segreti del cuore nella rilassata allegria del banchetto, sicché schietto e trasparente è il pensiero di tutti. Il giorno dopo, la questione viene ripresa e in questo modo salvano i vantaggi dei due diversi momenti: trattano quando non sanno fingere e decidono quando non possono sbagliare.

 

23. Come bevanda hanno un liquido, ricavato dall'orzo o dal frumento, fermentato pressappoco come il vino. I più vicini ai fiumi comprano anche vino. Semplici i cibi: frutti di campo, selvaggina fresca, latte cagliato: scacciano la fame senza sontuosità e raffinatezze culinarie. Non sono altrettanto temperanti invece contro la sete. Se si asseconda il loro debole per l'ubriachezza, offrendo quanto desiderano, possono essere vinti coi vizi meglio che con le armi.

 

24. Gli spettacoli sono di un unico tipo, che si ripete identico in tutte le riunioni: giovani nudi, specializzati in questi esercizi, volteggiano rapidi in mezzo a spade e a framee puntate contro di loro. Dall'esercizio hanno acquistato abilità e dall'abilità grazia, ma non a fine di guadagno o per compenso: unica ricompensa di un gioco tanto pericoloso è il divertimento degli spettatori. È stupefacente vedere con quale serietà giochino ai dadi, e mai in condizioni di ubriachezza; l'azzardo e l'accanimento, vincano o perdano, sono tali che, una volta venuti meno tutti i loro beni, con un ultimo e decisivo colpo, pongono come posta la loro libertà personale. Chi perde, accetta volontariamente la schiavitù: può anche essere più giovane e robusto del vincitore, ma si lascia legare e mettere in vendita. Si tratta di una deplorevole ostinazione, ma la chiamano una prova di lealtà. Gli schiavi di questo tipo li vendono, per liberare anche se stessi dalla vergogna di aver vinto.

 

25. Gli schiavi per altro non li impiegano, come noi, assegnando loro compiti precisi: ciascuno di essi è libero di regolare a suo piacere la propria abitazione e la propria famiglia. Il padrone pretende una certa quantità di frumento, di bestiame o di tessuto, come da un colono, e lo schiavo, entro questi limiti, deve obbedire; al resto delle incombenze domestiche provvedono la moglie e i figli del padrone. Raro è il caso di uno schiavo picchiato, messo in prigione o spedito ai lavori forzati. Capita che lo uccidano, non in nome della disciplina o per severità, ma in un impeto d'ira, come un nemico personale, e con la differenza che il gesto resta impunito. I liberti sono in condizione non migliore degli schiavi e raramente hanno qualche influenza nelle faccende private, mai nella vita pubblica, salvo per quelle popolazioni che hanno un re. Là salgono più in alto dei liberi e dei nobili: presso tutte le altre popolazioni l'inferiorità dei liberti è prova che esiste la libertà.

 

26. Prestar denaro a interesse e arrivare fino all'usura è cosa per loro sconosciuta; per questo se ne guardano più che se fosse vietato. Occupano, volta a volta, le terre in proporzione al numero di chi le lavora e poi le dividono fra loro in base al rango; la grande estensione del terreno facilita la ripartizione. Cambiano ogni anno il suolo coltivato e vi è sempre terra in sovrappiù. Infatti non faticano a sfruttare la fertilità o l'ampiezza del suolo piantando frutteti, delimitando prati, irrigando orti: alla terra non chiedono che grano. Quindi non dividono, come noi, l'anno in stagioni: dell'inverno, della primavera e dell'estate hanno la nozione e la parola corrispondente; dell'autunno ignorano il nome e i prodotti.

 

27. Per i funerali, niente sfarzo: tengono solo a che i corpi degli uomini importanti siano bruciati con legni speciali. Non gettano sul rogo né vesti né profumi. Mettono vicino a ciascuno le sue armi e per qualcuno ardono nel rogo anche il cavallo. Erigono il sepolcro con zolle di terra: rifiutano l'onore di monumenti massicci ed elaborati, come opprimenti per i defunti. Lasciano presto lamenti e lacrime, tardi dolore e tristezza. Alle donne si addice piangere, agli uomini ricordare.

Questi dati abbiamo raccolto sull'origine e i costumi dei Germani in generale; ora passo a trattare le istituzioni e i riti dei singoli popoli con le loro specifiche differenze, indicando quali popoli siano passati dalla Germania nelle Gallie.

 

28. Il divo Giulio, sommo tra gli storici, scrive che in passato fu più grande la potenza dei Galli; sicché è credibile che anche i Galli siano trasmigrati in Germania. Troppo modesto ostacolo infatti un fiume, per impedire che, quando un popolo fosse diventato potente, si trasferisse in luoghi non ancora occupati stabilmente e non suddivisi in regni potenti, e vi si stanziasse. Di conseguenza nella regione compresa tra la Selva Ercinia e i fiumi Reno e Meno si stabilirono gli Elvezi, più all'interno i Boi, genti galliche entrambe. Il nome di Boemia, che ancora rimane, attesta l'antica storia della regione, benché ora gli abitanti siano mutati. È invece incerto se gli Aravisci, staccandosi dagli Osii, tribù germanica, siano passati in Pannonia o se gli Osii siano passati in Germania, staccandosi dagli Aravisci, giacché hanno ancora la stessa lingua, gli stessi ordinamenti, le stesse usanze; e, vivendo essi anticamente in eguale povertà e libertà, beni e mali si eguagliavano sull'una e sull'altra riva del Danubio. Della loro pretesa origine germanica Treveri e Nervi vanno molto superbi, perché pensano di distinguersi, con questo orgoglio di sangue, dall'indolenza dei Galli. Indubbiamente germaniche sono le popolazioni stanziate lungo la riva del Reno: Vangioni, Triboci, Nemeti. Neppure gli Ubii arrossiscono della propria origine, benché abbiano meritato di essere una colonia romana e più volentieri si facciano chiamare Agrippinesi dal nome della fondatrice; passarono il Reno tempo addietro e, per la loro provata fedeltà, vennero collocati proprio sulla riva del fiume, per difenderla, non per essere meglio sorvegliati.

 

29. Di tutti questi popoli si segnalano per valore i Batavi, che occupano un breve tratto della riva, ma sono insediati sull'isola del Reno; tribù un tempo dei Catti, passati poi, per discordie interne, in quei luoghi dove erano destinati a diventare parte dell'impero romano. Rimane loro un glorioso privilegio come segno dell'antica alleanza: infatti non subiscono l'umiliazione dei tributi né le vessazioni degli esattori: esenti da gravami e contribuzioni, sono serbati per il solo utilizzo in battaglia, come armi di offesa e di difesa. In analoghi rapporti di dipendenza è la tribù dei Mattiaci, perché la grandezza del popolo romano ha imposto il rispetto dell'impero al di là del Reno e quindi al di là dei vecchi confini. Così, per sede e territorio vivono sulla riva germanica, ma il loro spirito, la loro mente è con noi, simili per il resto ai Batavi, salvo che per la fierezza più spiccata, dovuta al suolo e al clima della loro terra su cui ancora stanno.

Non comprenderei fra i popoli della Germania, benché stanziati oltre il Reno e il Danubio, quelli che coltivano i campi decimati: i più miserabili fra i Galli, resi audaci dalla miseria, occuparono quel suolo di precario possesso. Più tardi fu allestita una linea fortificata di frontiera e vennero fatte avanzare le nostre guarnigioni, e ora sono considerati una punta avanzata dell'impero e una parte della provincia.

 

30. Al di là dei Mattiaci vengono, insediati nel territorio che comincia dalla Selva Ercinia, i Catti; la regione non è così piana e paludosa come quella delle altre popolazioni che si distendono sulla Germania, perché vi si prolungano ancora dei colli gradatamente scemanti e la Selva Ercinia accompagna i suoi Catti e lì finisce con loro. Hanno corpi più resistenti, membra solide, volto minaccioso e una vigoria d'animo più intensa. Capaci, per essere Germani, di grande intelligenza e solerzia: sanno scegliersi dei condottieri, ubbidire ai capi, mantenere il posto nelle file, cogliere il momento opportuno, frenare l'impeto, distribuire i vari compiti nel corso della giornata, trincerarsi di notte, considerare la fortuna tra le cose aleatorie e il valore tra quelle certe, e infine, cosa assai rara e consentita solo alla disciplina romana, affidarsi più al comandante che all'esercito. La loro forza militare sta nella fanteria, che essi caricano, oltre che di armi, anche di attrezzi di ferro e di vettovaglie: gli altri popoli paiono andare a battaglia, i Catti alla guerra. Rare le scorrerie e gli scontri casuali. È peculiarità appunto delle forze a cavallo assicurare una rapida vittoria o una rapida ritirata. La velocità è contigua alla paura, la calma, quella dei fanti, è vicina al fermo coraggio.

 

31. È diventata consuetudine presso i Catti una pratica adottata, ma raramente e solo a seguito di personale ardimento, anche da altri popoli germanici: si lasciano crescere, appena entrati nella giovinezza, i capelli e la barba e non cambiano quell'aspetto del volto, promesso in voto e consacrato al valore, se non dopo aver ucciso un nemico. Sopra le spoglie insanguinate scoprono la fronte e solo allora pensano di aver pagato il prezzo della loro nascita e si ritengono degni della patria e dei genitori: ai vili e agli incapaci in battaglia rimane l'aspetto incolto. I più forti portano anche un anello di ferro, simbolo d'infamia per quel popolo, come una catena, da cui si liberano solo uccidendo un nemico. Simile acconciatura piace a gran parte dei Catti e incanutiscono con questi segni distintivi, mostrati a dito da nemici e compagni. Tocca a loro iniziare le battaglie; costituiscono sempre la prima linea, spaventosa a vedersi, perché neppure in tempo di pace addolciscono il loro viso a un'espressione meno truce. Non si curano della casa, del campo o d'altro: sempre, da chiunque si rechino, vengono mantenuti, prodighi dei beni altrui, sprezzanti dei propri, finché la debolezza della vecchiaia li rende impari a così dura virtù guerriera.

 

32. Vicini ai Catti, gli Usipi e i Tencteri abitano la riva del Reno, che ha ormai un alveo definito e bastevole a far da confine. I Tencteri, oltre al solito prestigio militare, eccellono nell'equitazione; né la fanteria dei Catti è degna di maggior lode della cavalleria dei Tencteri. Così iniziarono i loro avi e i discendenti ne seguono l'esempio. Questo è il divertimento dei ragazzi, queste le gare dei giovani; così perseverano i vecchi. I cavalli vengono trasmessi in eredità insieme ai servi, alla casa e ai diritti di successione: non passano però al primogenito, come gli altri beni, ma al figlio più fiero e valoroso in guerra.

 

33. Vicini ai Tencteri si incontravano un tempo i Brutteri. Ora, a quanto si racconta, sono immigrati in quelle terre i Camavi e gli Angrivari, una volta cacciati e pressocché sterminati i Brutteri da una lega di tribù vicine, mosse da odio per loro arroganza o dall'attrattiva della preda o da un qualche favore divino nei nostri confronti; infatti non ci hanno neanche privato dello spettacolo della battaglia. Ne caddero più di sessantamila, non in virtù delle armi romane ma - cosa ancora più splendida - per diletto dei nostri occhi. E prego che così continuino in quei popoli, se non l'amore per noi, almeno l'odio fra loro, dal momento che, ora che si profila un minaccioso destino sull'impero, ormai la fortuna nulla di meglio può accordarci che la discordia fra i nemici.

 

34. Angrivari e Camavi sono chiusi alle spalle dai Dugulbini, dai Casuari e da altre popolazioni ancora meno note; sulla fronte si trovano ad avere i Frisii. La denominazione di Frisii maggiori e minori deriva dalla loro potenza. Le due popolazioni sono delimitate dal Reno fino all'Oceano e abitano attorno a laghi immensi, solcati anche da flotte romane. Da quella parte anzi ci siamo avventurati verso l'Oceano e la fama ha divulgato che là esistono ancora le colonne d'Ercole, sia che Ercole sia giunto in quei luoghi, sia che, ovunque si compie una grande impresa, concordiamo nell'attribuirgliene la gloria. Non mancò l'ardimento a Druso Germanico, ma l'Oceano si oppose a che si indagasse su di lui e su Ercole. Nessuno in seguito tentò più l'avventura e parve segno di maggiore pietà e devozione credere alle gesta degli dèi più che constatarle.

 

35. Fin qui abbiamo conosciuto la parte occidentale della Germania. Poi essa piega a settentrione con un ampio arco. In primo luogo s'incontra la popolazione dei Cauci, la quale, benché incominci dal territorio dei Frisii e occupi una parte del litorale, si stende ai lati dei popoli che ho nominato, fino a piegare sui Catti. Un territorio così immenso i Cauci non solo lo occupano ma lo popolano: è la più nobile gente fra i Germani, che preferisce conservare la propria grandezza con la giustizia. Senza avidità e prepotenza, in appartata tranquillità, non provocano guerre ed evitano devastazioni con razzie e rapine. La più grande prova del loro valore e della loro forza è che, per esprimere la loro superiorità, non ricorrono alla violenza. Hanno, per altro, tutti pronte le armi e, dove occorra, l'esercito, imponente per fanti a cavalieri; e anche in pace la loro fama militare resta inalterata.

 

36. A fianco dei Cauci e dei Catti, i Cherusci, rimasti a lungo senza subire attacchi, hanno conservato una pace eccessiva e sfibrante: cosa più gradevole che sicura, perché fra popoli prepotenti e forti, la pace è un'illusione; quando poi ci si scontra, moderazione e probità sono titoli del vincitore. Sicché quelli che un tempo furono chiamati i buoni e giusti Cherusci, ora sono detti inetti e stolti; quanto ai Catti vincitori, la fortuna passò per saggezza. La rovina dei Cherusci travolse anche la tribù confinante dei Fosi, oggi appaiati a essi nella sventura, mentre nella prosperità erano stati inferiori.

 

37. La medesima penisola della Germania, in vicinanza dell'Oceano, l'occupano i Cimbri, piccola tribù oggi, ma grande per gloria. Dell'antica fama restano ampie tracce, vasti accampamenti sulle due rive del Reno, dalla cui ampiezza è dato misurare ancora oggi la massa e la forza di quel popolo e derivare l'attendibilità di una migrazione così vasta. La nostra città aveva seicentoquarant'anni di vita, quando per la prima volta, sotto i consoli Cecilio Metello e Papirio Carbone, si sentì parlare delle armi dei Cimbri. Se calcoliamo da allora fino al secondo consolato dell'imperatore Traiano, si sommano quasi duecentodieci anni: da tanto tempo fatichiamo a vincere la Germania. Molte, in così lungo corso di tempo, le perdite reciproche. Non i Sanniti, non i Cartaginesi, non le Spagne e le Gallie e neppure gli stessi Parti hanno tanto spesso avanzato la loro minaccia: più tenace del regno di Arsace è la libertà dei Germani. Infatti all'infuori della morte di Crasso, bilanciata dalla morte di Pacoro, cosa ci potrebbe rinfacciare l'Oriente, piegato sotto i piedi di un Ventidio? I Germani invece, sgominati o catturati Carbone e Cassio e Scauro Aurelio e Servilio Cepione e Massimo Mallio, hanno tolto in rapida successione cinque eserciti consolari al popolo romano, e Varo con tre legioni anche ad Augusto; e non senza perdite li batterono Gaio Mario in Italia, il divo Cesare in Gallia, Druso e Nerone e Germanico nelle loro stesse sedi; più tardi anche le terribili minacce di G. Cesare finirono in una farsa. Da allora ci fu pace, fino a che, approfittando delle nostre discordie e delle guerre civili, espugnate le sedi invernali delle nostre legioni, aspirarono anche a conquistare le Gallie. Di là furono ancora una volta respinti e in tempi recenti abbiamo celebrato su di loro dei trionfi più che delle vittorie.

 

38. Debbo ora parlare degli Svevi, che non costituiscono un unico popolo come i Catti o i Tencteri; occupano infatti la maggior parte della Germania, per di più distinti in tribù con nomi diversi, pur chiamandosi, nel loro complesso, Svevi. Una caratteristica di questa gente è piegare i capelli da un lato e stringerli in un nodo. Così gli Svevi si differenziano dagli altri Germani; così, fra gli Svevi, i liberi dagli schiavi. Un'usanza del genere si riscontra presso altri popoli - o per parentela cogli Svevi, oppure, come spesso accade, per imitazione - ma è rara e limitata alla giovinezza, mentre gli Svevi tirano in su, fino alla vecchiaia, i loro ispidi capelli e spesso li legano al sommo della testa. I capi li adornano anche. La loro attenzione a farsi belli è tutta qui, ma innocente; non si ornano infatti per amare o farsi amare, bensì per accrescere l'imponenza e incutere timore agli occhi del nemico, quando vanno alla guerra.

 

39. I Semnoni si dicono i più antichi e nobili fra gli Svevi. La conferma della loro antichità viene da un rito sacro. In un'epoca determinata, i rappresentanti di tutti i popoli del medesimo sangue convengono in una foresta, sacra per i riti degli avi e il secolare timore, e là, ucciso un uomo a nome della comunità, danno inizio all'orrendo rito barbarico. Esprimono anche in altro modo la loro riverente soggezione per quel bosco sacro: nessuno vi entra se non avvinto da lacci, per attestare così la propria dipendenza dal potere della divinità. In caso di caduta, non è consentito rialzarsi e rimettersi in piedi: ci si deve rotolare per terra. Nella loro sostanza quei riti significherebbero che da lì la tribù ha la sua origine, che là risiede il dio che regna su tutti e che tutto a lui soggiace e obbedisce. A tale credenza aggiunge prestigio la fortuna dei Semnoni: abitano in ben cento villaggi e, in forza del numero, si credono il centro vitale degli Svevi.

 

40. Il numero esiguo nobilita, all'opposto, i Longobardi: pur circondati da numerosi e valenti popoli, trovano la loro sicurezza non nella sottomissione, bensì nei rischi delle battaglie. Seguono i Reudigni e gli Avioni e gli Anglii e i Varini e gli Eudosi e i Suardoni e i Nuitoni, protetti da fiumi e foreste. Nessuna caratteristica di rilievo in ciascuno di questi, se non il culto comune di Nerto, ossia della madre terra, che, secondo loro, interviene nelle vicende umane e scende su un carro in mezzo ai popoli. Esiste in un'isola dell'Oceano un intatto bosco sacro e, dentro, un carro consacrato alla dea, ricoperto da un drappo: toccarlo è consentito al solo sacerdote. Questi percepisce la presenza della dea nel profondo del bosco e, quando compare trainata da giovenche, la accompagna con profonda venerazione. Sono allora giorni di gioia, sono luoghi di festa quelli cui si degna di giungere come ospite. Non si iniziano guerre, non si impugnano armi; ogni ferro è riposto; solo allora conoscono pace e quiete, allora solo le amano, finché quel sacerdote riconduce all'area sacra la dea, sazia del contatto dei mortali. Quindi il carro, il drappo e, se vuoi crederlo, la divinità stessa si purificano in un lago appartato. Addetti a questo servizio sono alcuni schiavi che poi il lago inghiotte. Da qui un misterioso terrore e una santa ignoranza di ciò che può esser visto soltanto da chi è destinato a morire.

 

41. Anche questi Svevi si protendono nella parte più interna della Germania. Seguendo ora il Danubio, come prima il Reno, più vicino è il popolo degli Ermunduri, fedele ai Romani. Per questo, soli fra i Germani, commerciano non solo lungo le rive del fiume ma all'interno, cioè appunto nella fiorentissima colonia della provincia retica. Attraversano il confine dovunque, senza sorveglianza; e mentre alle altre popolazioni mostriamo solo armi e accampamenti, a questi apriamo case e ville, perché non le desiderano. Nel territorio degli Ermunduri nasce l'Elba, fiume famoso e in passato ben noto; ora ne sentiamo solo parlare.

 

42. Al confine con gli Ermunduri vivono i Naristi e poi i Marcomanni e i Quadi. Spiccano per gloria e potenza i Marcomanni, che in passato si sono conquistati col valore anche la sede, cacciando i Boi. Né sono da meno Naristi e Quadi. Costituiscono, per così dire, la fronte della Germania, per come almeno la segna il Danubio. Fino ai nostri tempi, Marcomanni e Quadi ebbero re della propria gente, della nobile stirpe di Maroboduo e di Tudro (ora accettano anche re stranieri), ma la forza e la potenza di questi re deriva loro dall'autorità di Roma. Raramente ricevono da noi aiuti in armi, più spesso in denaro, che non vale meno di quelle.

 

43. Verso settentrione Marsigni, Cotini, Osi, Buri chiudono alle spalle Marcomanni e Quadi. Di tutti questi, Marsigni e Buri ricordano, per lingua e tenore di vita, gli Svevi. La lingua gallica dei Cotini e la pannonica degli Osi dimostrano che non sono Germani, e lo prova anche il fatto che subiscono l'imposizione di tributi, come forestieri, in parte dai Sarmati, in parte dai Quadi; i Cotini, per loro maggiore vergogna, estraggono anche il ferro. Poche sono le zone pianeggianti abitate da questi popoli, che hanno occupato principalmente regioni montuose, comprese le cime. Divide infatti e separa il paese degli Svevi una ininterrotta catena di monti, al di là della quale vivono moltissime popolazioni, tra cui si estende su un'ampia regione il paese dei Lugi, suddiviso fra molte tribù. Basti ricordare le più forti: gli Arii, gli Elveconi, i Manimi, gli Elisii, i Naanarvali. Presso questi ultimi viene indicato un bosco, sede di un antico culto: vi presiede un sacerdote in abbigliamento muliebre, e gli dèi, secondo le corrispondenze romane, sono identificati con Castore e Polluce. Le caratteristiche divine sono le stesse; il nome è Alci. Non esistono statue, né tracce che indichino la provenienza straniera del culto; li venerano però come fratelli e come giovani. Quanto agli Arii, a parte la forza che li fa emergere fra i popoli or ora enumerati, con artifici e scelta di tempo esaltano la ferocia, già insita nel loro aspetto truce: hanno scudi neri e il corpo tinto di scuro; per combattere scelgono notti tenebrose, e la sola raccapricciante comparsa di questo esercito di fantasmi semina panico, poiché nessun nemico sa reggere a quella stupefacente e quasi infernale visione; infatti in ogni battaglia i primi a essere vinti sono appunto gli occhi.

 

44. Al di là dei Lugi stanno i Gotoni, retti da monarchia, più autoritaria che presso le altre genti germaniche, ma non al punto da schiacciare la libertà. Seguono subito dopo, in direzione dell'Oceano, Rugi e Lemovi; caratterizzano queste popolazioni lo scudo rotondo, la spada corta e l'obbedienza ai loro re.

Di là in poi, proprio nell'Oceano, abitano le tribù dei Suioni, potenti, oltre che per gli uomini e le armi, per le loro flotte. La forma delle loro navi differisce dalle altre, perché presentano una prua sulle due estremità con la fronte sempre pronta all'approdo. Non manovrano con le vele, né dispongono i remi in fila regolare sui fianchi: i remi sono mobili, come in certi casi nella navigazione fluviale, e spostabili da una parte e dall'altra, secondo necessità. Essi danno importanza anche alla ricchezza: per questo uno solo ha in mano il potere, questa volta senza limitazioni e con diritto assoluto all'obbedienza. Le armi non sono, come per gli altri Germani, a disposizione di tutti, bensì custodite sotto chiave, precisamente da uno schiavo, perché l'Oceano impedisce incursioni improvvise dei nemici e anche perché schiere di armati in ozio si lascianoprendere facilmente la mano; sicché non conviene a un re affidare le armi né a un notabile né a un libero e neppure a un liberto.

 

45. Al di là dei Suioni c'è un altro mare, stagnante e quasi immobile, che cinge e chiude la terra: lo si crede perché l'estremo rifulgere della luce del sole al tramonto dura fino all'alba, in un chiarore tale da offuscare le stelle; la credenza popolare aggiunge che, al sorgere del sole, si ode un suono e si vedono le forme dei suoi cavalli e i raggi attorno al suo capo. Soltanto fin là, e questo è vero, si estende il mondo. Dunque sul lato destro il mare svevo bagna le genti degli Estii, simili piuttosto agli Svevi per i culti e l'aspetto esteriore, ai Britanni per la lingua. Venerano la Madre degli dèi: come simbolo del culto portano amuleti a forma di cinghiale; questo amuleto vale, per i devoti della dea, come arma e salvaguardia da tutti i pericoli e protegge anche in mezzo ai nemici. Rare le armi di ferro; più frequente l'uso di bastoni. Coltivano il frumento e gli altri prodotti del suolo con tenacia maggiore rispetto all'abituale indolenza dei Germani. Esplorano anche il mare e sono gli unici a raccogliere, nelle secche e sul litorale, l'ambra, che chiamano gleso. Barbari come sono, non si son posti il problema e non hanno accertato né la natura di questa sostanza né quale causa la produca; anzi è rimasta a lungo confusa tra gli altri rifiuti del mare, finché la nostra mania di lusso non le ha dato un nome. Essi non sanno che farsene: la raccolgono grezza, ce la danno così com'è, e ne ricevono, stupiti, il compenso. Tuttavia si può capire che sia una secrezione di alberi, perché spesso si scorgono in trasparenza animaletti terrestri e anche volatili che, invischiati in quel liquido, vi restano racchiusi al solidificarsi della sostanza. Come nelle remote regioni d'Oriente vi sono foreste e boschi ricchi di alberi che trasudano incensi e balsami, così sono portato a credere che nelle isole e nelle terre d'Occidente si trovino sostanze, le quali, secrete e liquefatte dalla forza del sole vicino, scivolano nel mare lì accanto, per essere rigettate dalla violenza delle tempeste sulle rive opposte. Se, per saggiare la composizione dell'ambra, la avvicini al fuoco, s'accende come una torcia e alimenta una fiamma grassa e odorosa; poi diventa vischiosa come la pece o la resina.

Ai Suioni seguono le tribù dei Sitoni. Simili a quelli in tutto il resto, salvo in un punto, che li governa una donna: degenerano non solo in fatto di libertà, ma anche di schiavitù.

 

46. Qui finisce la Svevia. I Peucini, i Veneti e i Fenni non so se comprenderli fra i Germani o i Sarmati. Per la verità i Peucini, che alcuni chiamano Bastarni, hanno lingua, modi di vita, abitazioni fisse come i Germani. Sudiciume in tutti, indolenza nei capi. Causa i matrimoni misti, hanno peggiorato alquanto i lineamenti, prendendo fattezze da Sarmati. Dei loro costumi molto hanno preso i Veneti: infatti si spostano predando su tutte le alture boscose, che si levano tra i Peucini e i Fenni. Tuttavia vanno classificati piuttosto fra i Germani, perché piantano dimore fisse, portano scudi e amano spostarsi a piedi, velocemente: tutto al contrario dei Sarmati che vivono sui carri e a cavallo. Sorprendentemente selvaggi ed estremamente poveri i Fenni: non hanno armi, cavalli, vita familiare; vivono d'erba, si vestono di pelli, dormono sulla terra; unico loro affidamento le frecce che, in mancanza di ferro, rendono aguzze con punte d'osso. Vivono di caccia tanto gli uomini che le donne; queste li accompagnano ovunque e pretendono la loro parte della preda. Per i bambini l'unico riparo dalle belve e dalle piogge è una copertura di rami intrecciati. Lì tornano i giovani dalla caccia, questo è il ricovero dei vecchi. Ma la considerano felicità più grande che logorarsi nei campi, faticare a costruire case, darsi da fare, tra speranze e timori, coi beni propri e altrui: sereni di fronte agli uomini, sereni di fronte agli dèi, hanno raggiunto il traguardo più difficile: non avere neanche bisogno di desiderare qualcosa. Il resto appartiene al mondo delle favole: gli Ellusii e gli Ossioni, col volto di uomini e il corpo di fiere. Notizia su cui non mi esprimo, perché non verificata.