Le Storie: Libri 1-2

 

LIVELLO SUPERIORE

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LIBRO I

 

 

Erodoto di Alicarnasso espone qui il risultato delle sue ricerche storiche; lo scopo è di impedire che avvenimenti determinati dall'azione degli uomini finiscano per sbiadire col tempo, di impedire che perdano la dovuta risonanza imprese grandi e degne di ammirazione realizzate dai Greci come dai barbari; fra l'altro anche la ragione per cui vennero a guerra tra loro.

I dotti persiani affermano che i responsabili della rivalità furono i Fenici. Costoro giunsero in queste nostre acque provenienti dal mare detto Eritreo; insediatisi nella regione che abitano tuttoggi, subito, con lunghi viaggi di navigazione, presero a fare commercio in vari paesi di prodotti egiziani ed assiri, e si spinsero fino ad Argo. A quell'epoca Argo era da ogni punto di vista la città più importante fra quante sorgevano nel territorio oggi chiamato Grecia. I Fenici arrivarono ad Argo e vi misero in vendita le loro mercanzie. Quattro o cinque giorni dopo il loro arrivo, ormai quasi esaurite le merci, scesero sulla riva del mare diverse donne, tra le quali si trovava la figlia del re Inaco: si chiamava Io, anche i Greci concordano su questo punto. Secondo i dotti persiani, mentre le donne si trattenevano accanto alla poppa della nave, per acquistare i prodotti che più desideravano, i marinai si incoraggiarono a vicenda e si avventarono su di loro: molte riuscirono a fuggire, ma non Io, che fu catturata insieme con altre; risaliti sulle navi, i Fenici si allontanarono, facendo rotta verso l'Egitto.

Secondo i Persiani Io giunse in Egitto così e non come narrano i Greci; e questo episodio avrebbe segnato l'inizio dei misfatti. In seguito alcuni Greci (essi non sono in grado di precisarne la provenienza), spintisi fino a Tiro, in Fenicia, vi rapirono la figlia del re, Europa; è possibile che costoro fossero di Creta. E fino a qui la situazione era in perfetta parità, ma poi i Greci si resero responsabili di una seconda colpa: navigarono con una lunga nave fino ad Ea e alle rive del fiume Fasi, nella Colchide, e là, compiuta la missione per cui erano venuti, rapirono Medea, la figlia del re dei Colchi; questi mandò in Grecia un araldo a reclamare la restituzione della figlia e a chiedere giustizia del rapimento, ma i Greci risposero che i barbari non avevano dato soddisfazione del ratto dell'argiva Io e che quindi per parte loro avrebbero fatto altrettanto.

Narrano che nella generazione successiva Alessandro, figlio di Priamo, a conoscenza di quei fatti, volle procurarsi moglie in Grecia per mezzo di un rapimento; era assolutamente convinto che non ne avrebbe mai dovuto rendere conto ai Greci perché questi in precedenza non lo avevano fatto nei confronti dei barbari. E così, quando ebbe rapito Elena, i Greci decisero per prima cosa di inviare messaggeri a chiedere la sua restituzione e a pretendere giustizia del rapimento; di fronte a tale istanza i barbari rinfacciarono loro il ratto di Medea: non era accettabile che proprio i Greci, rei di non avere pagato il proprio delitto e di non avere provveduto a nessuna restituzione malgrado le richieste, pretendessero ora di ottenere giustizia dagli altri.

Comunque, fino a quel momento, fra Greci e barbari non c'era stato altro che una serie di reciproci rapimenti; a partire da allora invece i maggiori colpevoli sarebbero diventati i Greci: essi infatti cominciarono a inviare eserciti in Asia prima che i Persiani in Europa. Ora, i barbari ritengono che rapire donne sia azione da delinquenti, ma che preoccuparsi di vendicare delitti del genere sia pensiero da dissennati: l'unico atteggiamento degno di un saggio è non tenere il minimo conto di donne rapite, perché è evidente che non le si potrebbe rapire se non fossero consenzienti. Secondo i Persiani gli abitanti dell'Asia non si curano minimamente delle donne rapite; i Greci invece per una sola donna di Sparta radunarono un grande esercito, si spinsero fino in Asia e abbatterono la potenza di Priamo; da allora e per sempre i Persiani avrebbero guardato con ostilità a tutto ciò che è greco. In effetti essi considerano loro proprietà l'Asia e le genti barbare che vi abitano e ben separate, a sé stanti, l'Europa e il mondo greco.

Insomma i Persiani descrivono così la dinamica degli eventi: fanno risalire alla distruzione di Ilio l'origine dell'odio che nutrono per i Greci. Però, a proposito di Io, i Fenici non concordano con i Persiani; secondo la loro versione essi condussero sì Io in Egitto, ma non dopo averla rapita, bensì perché lei ancora in Argo aveva avuto una relazione con il timoniere della nave; accortasi di essere rimasta incinta, per la vergogna aveva preferito partire con i Fenici, per non doverlo confessare ai propri genitori. Ecco dunque le versioni dei Persiani e dei Fenici; quanto a me, riguardo a tali fatti, non mi azzardo a dire che sono avvenuti in un modo o in un altro; io so invece chi fu il primo a rendersi responsabile di ingiustizie nei confronti dei Greci e quando avrò chiarito di costui procederò nel racconto. Verrò a parlare di varie città, ma senza distinguere fra grandi e piccole: il fatto è che alcune erano importanti nell'antichità e poi, in gran parte, sono decadute, altre, notevoli ai miei tempi, prima invece erano insignificanti; io, ben consapevole che la condizione umana non è mai stabile e immutabile, le ricorderò senza fare distinzioni.

Creso era di stirpe lidia e figlio di Aliatte; era re delle popolazioni al di qua di quel fiume Alis che, scorrendo da sud fra i Siri e i Paflagoni, procede verso settentrione fino al Ponto Eusino. Creso, per primo fra i barbari di cui abbiamo notizia, sottomise alcune città greche al pagamento di un tributo, mentre di altre cercava di acquistarsi l'amicizia: le vittime furono gli Ioni, gli Eoli e i Dori d'Asia, i privilegiati furono gli Spartani. Prima del regno di Creso tutti i Greci erano indipendenti: anche all'epoca dell'invasione della Ionia ad opera di un esercito di Cimmeri, alquanto prima del regno di Creso, non si erano avute sottomissioni di città, bensì soltanto scorrerie e saccheggi ai loro danni.

In Lidia il potere apparteneva agli Eraclidi; pervenne alla famiglia di Creso, ai Mermnadi, come ora vi narro. A Sardi il re era Candaule, dai Greci chiamato Mirsilo, discendente di un figlio di Eracle, Alceo. Il primo dei discendenti di Eracle a divenire re di Sardi era stato Agrone, che era figlio di Nino il quale a sua volta era figlio di Belo e nipote di Alceo; l'ultimo fu Candaule, figlio di Mirso. Quanti avevano regnato sul paese prima di Agrone erano discendenti di Lido, figlio di Atis; da Lido presero nome i Lidi, prima chiamati Meoni. Gli Eraclidi, progenie di Eracle e di una schiava di Iardano, ottennero il potere in affidamento dai discendenti di Lido in base a un oracolo e lo esercitarono per ventidue generazioni, vale a dire per 505 anni, trasmettendoselo di padre in figlio fino a Candaule figlio di Mirso.

Questo Candaule era molto innamorato della propria moglie e perciò era convinto che fosse di gran lunga la più bella donna del mondo. Con una simile convinzione, poiché era solito confidarsi anche sugli argomenti più delicati con un certo Gige, una guardia del corpo, suo favorito, figlio di Dascilo, finì in particolare per esaltargli l'aspetto fisico della moglie. Ma era fatale che a Candaule ne derivasse un grave danno: poco tempo dopo disse a Gige: «Gige, ho l'impressione che tu non mi credi quando ti parlo del corpo di mia moglie; succede certo che gli uomini abbiano le orecchie più incredule degli occhi, ma allora fai in modo di vederla nuda». Ma Gige protestando gli rispose: «Signore, ma che razza di discorso insano mi fai? Mi ordini di guardare nuda la mia padrona? Quando una donna si spoglia dei vestiti si spoglia anche del pudore; i buoni precetti sono ormai un patrimonio antico dell'umanità e da essi bisogna imparare: uno dice che si deve guardare solo ciò che ci appartiene. Io crederò che lei è la più bella donna del mondo e ti prego di non chiedermi assurdità».

Insomma, rispondendo così, opponeva il suo rifiuto: temeva che da quella situazione gli potesse derivare qualche guaio. Ma Candaule insistette: «Coraggio, Gige, non avere paura di me, come se ti facessi un simile discorso per metterti alla prova, né di mia moglie, che per opera sua ti possa accadere qualcosa di male; tanto per cominciare io studierò la maniera che lei non si accorga di essere osservata da te. Ecco, ti metterò dietro la porta spalancata della stanza in cui dormiamo; più tardi, quando io sarò entrato, anche mia moglie verrà, per mettersi a letto. Vicino alla porta c'è una sedia su cui lei, spogliandosi, appoggerà le vesti, una per una; e così potrai guardartela in tutta tranquillità; ma quando lei si sposterà dalla sedia verso il letto, dandoti la schiena, allora esci dalla stanza, ma fai attenzione che lei non ti veda».

Non avendo via di scampo, Gige era pronto a obbedire. Candaule, quando gli parve ora di andare a dormire, condusse Gige nella sua camera; subito dopo comparve anche la moglie: Gige la osservò mentre entrava e posava i propri vestiti. Appena la donna si voltò per avvicinarsi al letto, dandogli le spalle, Gige uscì dal nascondiglio e si allontanò; lei lo scorse mentre usciva, ma, pur avendo compreso il misfatto del marito, invece di gridare per la vergogna, finse di non essersi accorta di niente, con l'intenzione però di vendicarsi di Candaule. Bisogna sapere che presso i Lidi, come presso quasi tutti gli altri barbari, è grande motivo di vergogna persino che sia visto nudo un uomo.

Sul momento non lasciò trasparire nulla e rimase tranquilla; ma non appena fu giorno diede istruzioni ai servi che vedeva a sé più fedeli e mandò a chiamare Gige. Gige credeva che lei ignorasse l'accaduto e si presentò subito: era abituato anche prima ad accorrere ogni volta che la regina lo chiamava. Quando lo ebbe davanti, la donna gli disse: «Ora tu, caro Gige, hai di fronte a te due strade e io ti concedo di scegliere quale preferisci percorrere: o uccidi Candaule e ottieni me e il regno dei Lidi, oppure è necessario che tu muoia subito, così non sarai più costretto a vedere ciò che non devi per obbedire a tutti gli ordini del tuo padrone. Non ci sono alternative: o muore il responsabile di tutte queste macchinazioni o muori tu che mi hai vista nuda e che hai compiuto azioni così poco lecite». Gige dapprima rimase sbalordito dalle parole della regina, poi supplicò per un po' di non costringerlo a compiere una simile scelta; ma non riuscì a persuaderla, anzi si rese conto senza più dubbi di trovarsi di fronte all'ineluttabile: uccidere il proprio padrone o venire ucciso lui stesso da altri, e scelse la propria salvezza. Rivolgendosi alla donna le chiese: «Poiché mi costringi a uccidere il mio padrone contro la mia volontà, voglio almeno sapere in che modo lo aggrediremo». E lei gli rispose: «L'aggressione avverrà esattamente dallo stesso luogo dal quale lui mi ha mostrata nuda e il colpo si farà mentre dorme».

Studiarono i particolari del piano e appena scese la notte Gige seguì la donna nella camera da letto: gli era stato impedito di allontanarsi e non aveva nessuna possibilità di sottrarsi a quel compito: era inevitabile la morte sua o di Candaule. La regina lo nascose dietro la stessa porta dopo avergli consegnato un pugnale. Più tardi, quando Candaule si addormentò, Gige uscì dal suo nascondiglio, lo uccise ed ebbe così insieme la donna e il regno. Archiloco di Paro, vissuto nella stessa epoca, menzionò Gige in un suo trimetro giambico.

Ottenne il regno e vide consolidato il suo potere grazie all'oracolo di Delfi, perché quando già i Lidi, considerando la gravità dell'assassinio di Candaule, erano in armi, i partigiani di Gige e gli altri Lidi vennero a un accordo: se l'oracolo lo avesse designato re dei Lidi, allora Gige avrebbe regnato, in caso contrario avrebbe restituito il potere agli Eraclidi. L'oracolo gli fu favorevole e così Gige fu re. La Pizia vaticinò che gli Eraclidi si sarebbero rivalsi sul quinto discendente di Gige, ma di questa profezia i Lidi e i loro sovrani non si curarono più fino a quando non si compì.

Ecco insomma come i Mermnadi avevano conquistato il potere, sottraendolo agli Eraclidi. Gige, quando fu re, inviò rilevanti offerte a Delfi, in pratica la maggior parte di tutte le offerte in argento che vi si trovano; e oltre all'argento dedicò anche oro in grande quantità, fra cui è degna di menzione una serie di sei crateri d'oro: oggi si trovano nel tesoro dei Corinzi e raggiungono un peso di trenta talenti. Però a dire il vero il tesoro non appartiene allo stato di Corinto, bensì a Cipselo figlio di Eezione. Gige fu il primo barbaro di cui abbiamo notizia a inviare offerte a Delfi dopo Mida, figlio di Gordio, re di Frigia. Mida aveva consacrato il trono regale da cui amministrava la giustizia, un oggetto che merita di essere visto: questo trono si trova dove sono collocati anche i crateri di Gige. Gli abitanti di Delfi chiamano «Gigade», dal nome del donatore, l'oro e l'argento offerti da Gige. Quando ebbe il potere, anch'egli inviò spedizioni militari contro Mileto e Smirne, ed espugnò la città di Colofone, ma non ci fu nessuna altra impresa durante i 38 anni del suo regno, e anche di questa basterà aver fatto menzione.

Mi limiterò a menzionare soltanto anche Ardi, figlio di Gige, che regnò dopo il padre: costui espugnò Priene e organizzò una spedizione contro Mileto; fu durante il suo regno che i Cimmeri, muovendo dalle loro sedi a causa della pressione di nomadi Sciti, si spostarono in Asia e occuparono tutta Sardi a eccezione dell'acropoli.

Dopo i 49 anni del regno di Ardi sul trono salì suo figlio Sadiatte, che regnò per 12 anni. Il figlio di Sadiatte, Aliatte, combatté poi una guerra contro Ciassare, il discendente di Deioce, e contro i Medi, scacciò i Cimmeri dall'Asia, prese Smirne, colonia di Colofone e assalì pure Clazomene: da questo conflitto non uscì proprio come aveva sperato, anzi con insuccessi non indifferenti. Però mentre fu al potere realizzò altre imprese degne di essere ricor 17

·date. Combatté contro i Milesi una guerra ereditata dal padre, guidando le manovre di offesa e stringendo l'assedio nella maniera seguente: mandava all'attacco l'esercito ogni volta che in quella terra i prodotti erano giunti a maturazione; le operazioni si svolgevano al suono di zampogne, di pettidi e di flauti acuti e gravi. Quando entrava nei territori di Mileto non abbatteva o incendiava le case che si trovavano nei campi; non ne forzava neppure le porte, le lasciava intatte in tutta la contrada; gli alberi e i frutti della terra li faceva distruggere e poi si ritirava. Il fatto è che i Milesi erano padroni del mare, sicché non era possibile per un esercito stringerli d'assedio. Il re lidio non abbatteva le costruzioni affinché i Milesi muovendo da esse potessero coltivare e lavorare la terra e lui, grazie al lavoro di quelli, avesse qualcosa da depredare durante le sue incursioni.

Con questo sistema la guerra durò undici anni, durante i quali i Milesi subirono due gravi sconfitte, a Limeneo nel loro territorio e nella piana del Meandro. Per sei anni su undici a capo dei Lidi era stato ancora il figlio di Ardi Sadiatte: era stato lui a suo tempo a invadere con le sue truppe il paese di Mileto, ed era stato anche il responsabile dell'inizio della guerra. Nei successivi cinque anni a combattere fu Aliatte figlio di Sadiatte il quale, come ho già spiegato, ereditò dal padre il conflitto e lo diresse con particolare energia. Nessuna popolazione della Ionia aiutò i Milesi a sostenere il peso di quella guerra tranne i soli abitanti di Chio, che vennero in loro soccorso per ricambiare un analogo favore: infatti in tempi precedenti Mileto aveva condiviso con Chio i disagi della guerra contro Eritre.

Al dodicesimo anno, mentre il raccolto veniva dato alle fiamme dall'esercito, si verificò questo fatto: quando le messi presero a bruciare, il fuoco, spinto dal vento, raggiunse il tempio di Atena Assesia: il tempio si incendiò e rimase completamente distrutto dalle fiamme, cosa alla quale sul momento nessuno fece caso. Ma dopo il ritorno a Sardi dell'esercito, Aliatte si ammalò; e siccome la malattia non guariva, inviò a Delfi degli incaricati, vuoi per suggerimento di qualcuno vuoi avendo deciso da solo di interrogare il dio sulla natura del proprio male. E agli inviati la Pizia rispose che non avrebbe emesso alcun responso se prima non avessero ricostruito il tempio di Atena che avevano incendiato ad Asseso nel territorio di Mileto.

Io sono a conoscenza di questi particolari perché mi sono stati raccontati a Delfi, ma i Milesi aggiungono che Periandro, figlio di Cipselo, legato da strettissimi vincoli di ospitalità con l'allora re di Mileto Trasibulo, quando venne a conoscenza dell'oracolo dato ad Aliatte, tramite un messaggero lo riferì a Trasibulo affinché, saputolo prima, potesse regolarsi di conseguenza. Così andarono le cose secondo il racconto dei Milesi.

Quando Aliatte ricevette il responso, subito inviò a Mileto un araldo, intenzionato a stipulare una tregua con Trasibulo e con i Milesi per tutto il tempo necessario alla edificazione del santuario. Così, mentre l'inviato era in viaggio verso Mileto, Trasibulo, ormai al corrente di ogni cosa e in grado di prevedere le mosse di Aliatte, preparò la seguente messinscena: fece raccogliere nella piazza principale tutte quante le riserve alimentari della città, pubbliche e private, e ordinò ai cittadini di attendere il suo segnale e poi di abbandonarsi a bevute e a bagordi collettivi.

Trasibulo dava queste disposizioni affinché l'araldo di Sardi tornasse a riferire ad Aliatte di aver visto grandi cumuli di vivande ammonticchiate e uomini dediti a festeggiamenti. Come appunto avvenne: l'araldo vide quello spettacolo, riferì a Trasibulo il messaggio del re lidio e ritornò a Sardi; e, secondo le informazioni che ho ricevuto, fu proprio quella la causa della ricomposizione del conflitto. In realtà Aliatte sperava che Mileto fosse ormai in preda a una dura carestia e la cittadinanza ridotta all'estremo limite di sopportazione: invece udì dall'araldo ritornato da Mileto esattamente il contrario di ciò che si aspettava. In seguito stipularono una pace stringendo fra loro vincoli di ospitalità e di alleanza; Aliatte fece costruire ad Asseso non uno ma due templi dedicati ad Atena e guarì della sua malattia. Questo accadde ad Aliatte durante la guerra contro Trasibulo e Mileto.

Periandro, quello che aveva informato Trasibulo del responso, era figlio di Cipselo e signore di Corinto; gli abitanti di Corinto narrano (e i Lesbi concordano con loro) che durante la sua vita si verificò un evento portentoso, l'arrivo al Tenaro di Arione di Metimna, in groppa a un delfino. Arione fu il più grande citaredo dell'epoca, il primo uomo a nostra conoscenza a comporre un ditirambo, a dargli nome e a farlo eseguire in Corinto.

Ebbene si narra che Arione, il quale trascorreva accanto a Periandro la maggior parte del suo tempo, aveva provato grande desiderio di compiere un viaggio per mare fino in Italia e in Sicilia; là si era arricchito, poi aveva deciso di ritornare a Corinto. Quando dunque si trattò di ripartire da Taranto, poiché non si fidava di nessuno più che dei Corinzi, noleggiò una nave di Corinto; ma quando furono in mare aperto gli uomini dell'equipaggio tramarono di sbarazzarsi di Arione e di impossessarsi delle sue ricchezze. Arione se ne accorse e cominciò a supplicarli: era disposto a cedere i suoi averi, ma chiedeva salva la vita; tuttavia non riuscì a convincerli, anzi i marinai gli ingiunsero di togliersi la vita così da ottenere sepoltura nella terra oppure di gettarsi in mare al più presto. Arione, vistosi ormai senza scampo, chiese il permesso, poiché avevano deciso così, di cantare in piedi fra i banchi dei rematori in completa tenuta di scena: promise di togliersi la vita al termine del canto. I marinai, piacevolmente attirati dall'idea di ascoltare il miglior cantore del mondo, si ritirarono da poppa verso il centro della nave. Arione indossò i suoi costumi di scena, prese la cetra ed eseguì un canto a tono elevato, stando in piedi tra i banchi dei rematori; alla fine del canto si gettò in mare così com'era, con tutto il costume. Sempre secondo il racconto i marinai fecero poi rotta verso Corinto mentre Arione fu raccolto da un delfino e trasportato fino al Tenaro; qui toccò terra e da qui si diresse verso Corinto, ancora in tenuta di scena; quando vi giunse narrò tutto l'accaduto a Periandro, il quale, alquanto incredulo, decise di trattenere Arione sotto sorveglianza e di concentrare la sua attenzione sull'equipaggio della nave. Così, quando i marinai furono a disposizione, li fece chiamare e chiese loro se potevano dargli notizie di Arione; essi risposero che si trovava vivo e vegeto in Italia, che lo avevano lasciato a Taranto in piena e felice attività; ma Arione si mostrò davanti a loro, ancora vestito come quando era saltato dalla nave, e quelli, sbigottiti e ormai scoperti, non poterono più negare. Questo raccontano i Corinzi e i Lesbi; inoltre sul Tenaro si trova una statua votiva di bronzo di Arione, non grande, che rappresenta un uomo in groppa a un delfino.

Aliatte, il re di Lidia che aveva portato a termine la guerra contro Mileto, morì assai più tardi, dopo 57 anni di regno. Guarito dalla malattia, aveva consacrato a Delfi, secondo nella sua famiglia, un grande cratere d'argento e un sottocratere di ferro saldato, oggetto che merita di essere visto più di tutti gli ex-voto di Delfi; è opera di Glauco di Chio che fu l'unico artista a scoprire la tecnica di saldatura del ferro.

Alla morte di Aliatte gli succedette nel regno il figlio Creso che all'epoca aveva 35 anni; egli assalì per primi tra i Greci gli Efesini. In quella circostanza gli Efesini, assediati dall'esercito di Creso, affidarono la città ad Artemide legando una fune dal tempio fino alle mura. Fra la parte antica della città, che era quella allora assediata, e il tempio ci sono sette stadi. Gli Efesini furono solo i primi perché poi in seguito Creso aggredì una per una tutte le città degli Ioni e degli Eoli, prendendo a pretesto le colpe più svariate, muovendo accuse gravi quando poteva trovarne di gravi, ma anche adducendo ragioni di poco conto.

Dopo aver costretto tutti i Greci d'Asia al pagamento di un tributo, progettò di far costruire delle navi e di assalire gli abitanti delle isole. Si racconta che, quando ormai tutto era pronto alla costruzione delle navi, giunse a Sardi Biante di Priene (secondo altri era Pittaco di Mitilene): e costui riuscì a fare interrompere i lavori dando a Creso, che gli chiedeva se ci fossero novità dalla Grecia, la seguente risposta: «Signore, gli abitanti delle isole stanno facendo incetta di cavalli per organizzare una spedizione contro Sardi e contro di te». Creso, credendo che stesse parlando seriamente, esclamò: «Magari gli dei glielo mettessero in testa a quegli isolani di venire contro i figli dei Lidi con la cavalleria!» E l'altro replicò: «Mio re, vedo che ti auguri ardentemente di ricevere sul continente degli isolani trasformati in cavalieri, ed è una speranza ben logica; ma poi, cos'altro credi che si augurino gli isolani, da quando hanno saputo che stai facendo costruire navi per assalirli, se non di ricevere i Lidi sul mare, dove potrebbero farti pagare la schiavitù in cui tieni i Greci del continente?» Raccontano che a Creso piacque molto questa conclusione e poiché gli parve molto pertinente si persuase a interrompere la costruzione delle navi. Fu così che strinse un patto di buon vicinato con gli Ioni residenti nelle isole.

Col passare del tempo quasi tutte le popolazioni stanziate al di qua del fiume Alis furono sottomesse: Creso assoggettò al suo dominio, tranne Cilici e Lici, tutte le altre genti: Lidi, Frigi, Misi, Mariandini, Calibi, Paflagoni, Traci (Tini e Bitini), Cari, Ioni, Dori, Eoli e Panfili.

Creso li sottomise e ne annesse i territori al regno dei Lidi; così in una Sardi all'apice dello splendore giunsero in seguito tutti i sapienti di Grecia dell'epoca, uno dopo l'altro, e tra gli altri Solone di Atene. Solone formulò le leggi per i propri concittadini, su loro richiesta, e poi soggiornò fuori della patria per dieci anni, partito col pretesto di un viaggio conoscitivo, ma in realtà per non essere costretto ad abrogare alcuna delle leggi che aveva promulgato; perché gli Ateniesi, da soli, non erano in condizione di farlo: solenni giuramenti li vincolavano per dieci anni a valersi delle norme stabilite da Solone.

Per tale ragione e anche per il suo viaggio, Solone rimase all'estero, recandosi in Egitto presso Amasi e, appunto, a Sardi presso Creso. Al suo arrivo fu ospitato da Creso nella reggia: due o tre giorni dopo, per ordine del re, alcuni servitori lo condussero a visitare i tesori e gli mostrarono quanto vi era di straordinario e di sontuoso. Creso aspettò che Solone avesse osservato e considerato tutto per bene e poi, al momento giusto, gli chiese: «Ospite ateniese, ai nostri orecchi è giunta la tua fama, che è grande sia a causa della tua sapienza sia per i tuoi viaggi, dato che per amore di conoscenza hai visitato molta parte del mondo: perciò ora m'ha preso un grande desiderio di chiederti se tu hai mai conosciuto qualcuno che fosse veramente il più felice di tutti. Faceva questa domanda perché riteneva di essere lui l'uomo più ricco, ma Solone, evitando l'adulazione e badando alla verità, rispose: «Certamente, signore, Tello di Atene». Creso rimase sbalordito da questa risposta e lo incalzò con un'altra domanda: «E in base a quale criterio giudichi Tello l'uomo più felice?» E Solone spiegò: «Tello in un periodo di prosperità per la sua patria ebbe dei figli sani e intelligenti e tutti questi figli gli diedero dei nipoti che crebbero tutti; lui stesso poi, secondo il nostro giudizio già così fortunato in vita, ha avuto la fine più splendida: durante una battaglia combattuta a Eleusi dagli Ateniesi contro una città confinante, accorso in aiuto, mise in fuga i nemici e morì gloriosamente; e gli Ateniesi gli celebrarono un funerale di stato nel punto esatto in cui era caduto e gli resero grandissimi onori».

Quando Solone gli ebbe presentato la storia di Tello, così ricca di eventi fortunati, Creso gli domandò chi avesse conosciuto come secondo dopo Tello, convinto di avere almeno il secondo posto. Ma Solone disse: «Cleobi e Bitone, entrambi di Argo, i quali ebbero sempre di che vivere e oltre a ciò una notevole forza fisica, sicché tutti e due riportarono vittorie nelle gare atletiche; di loro tra l'altro si racconta il seguente episodio: ad Argo c'era una festa dedicata a Era e i due dovevano assolutamente portare la madre al tempio con un carro, ma i buoi non giungevano in tempo dai campi; allora, per non arrivare in ritardo, i due giovani sistemarono i gioghi sulle proprie spalle, tirarono il carro, sul quale viaggiava la madre, e arrivarono fino al tempio dopo un tragitto di 45 stadi. Al loro gesto, ammirato da tutta la popolazione riunita per la festa, seguì una fine nobilissima: con loro il dio volle mostrare quanto, per un uomo, essere morto sia meglio che vivere. Intorno ai due giovani gli uomini di Argo ne lodavano la forza, mentre le donne si complimentavano con la madre che aveva avuto due figli come quelli; e la madre, oltremodo felice dell'impresa e della grande reputazione derivatane, si fermò in piedi di fronte all'immagine della dea e la pregò di concedere a Cleobi e a Bitone, i suoi due figli che l'avevano tanto onorata, la sorte migliore che possa toccare a un essere umano. Dopo questa preghiera i giovani celebrarono i sacrifici e il banchetto e poi si fermarono a dormire lì nel tempio; e l'indomani non si svegliarono più: furono colti così dalla morte. Gli Argivi li ritrassero in due statue che consacrarono a Delfi, come si fa con gli uomini più illustri».

A quei due dunque Solone assegnava il secondo posto nella graduatoria della felicità; Creso si irritò e gli disse: «Ospite ateniese, la nostra felicità l'hai svalutata al punto da non ritenerci neppure pari a cittadini qualunque?» E Solone rispose: «Creso tu interroghi sulla condizione umana un uomo che sa quanto l'atteggiamento divino sia pieno di invidia e pronto a sconvolgere ogni cosa. In un lungo arco di tempo si ha occasione di vedere molte cose che nessuno desidera e molte bisogna subirle. Supponiamo che la vita di un uomo duri settanta anni; settanta anni da soli, senza considerare il mese intercalare, fanno 25.200 giorni; se poi vuoi che un anno ogni due si allunghi di un mese per evitare che le stagioni risultino sfasate, visto che in settanta anni i mesi intercalari sono 35, i giorni da aggiungere risultano 1050. Ebbene, di tutti i giorni che formano quei settanta anni, cioè di ben 26.250 giorni, non uno solo vede lo stesso evento di un altro. E così, Creso, tutto per l'uomo è provvisorio. Vedo bene che tu sei ricchissimo e re di molte genti, ma ciò che mi hai chiesto io non posso attribuirlo a te prima di aver saputo se hai concluso felicemente la tua vita. Chi è molto ricco non è affatto più felice di chi vive alla giornata, se il suo destino non lo accompagna a morire serenamente ancora nella sua prosperità. Infatti molti uomini, pur essendo straricchi, non sono felici, molti invece, che vivono una vita modesta, possono dirsi davvero fortunati. Chi è molto ricco ma infelice è superiore soltanto in due cose a chi è fortunato, ma quest'ultimo rispetto a chi è ricco è superiore da molti punti di vista. Il primo può realizzare un proprio desiderio e sopportare una grave sciagura più facilmente, ma il secondo gli è superiore perché, anche se non è in grado come lui di sopportare sciagure e soddisfare desideri, da questi però la sua buona sorte lo tiene lontano; e non ha imperfezioni fisiche, non ha malattie e non subisce disgrazie, ha bei figli e un aspetto sempre sereno. E se oltre a tutto questo avrà anche una buona morte, allora è proprio lui quello che tu cerchi, quello degno di essere chiamato felice. Ma prima che sia morto bisogna sempre evitare di dirlo felice, soltanto "fortunato". Certo, che un uomo riunisca tutte le suddette fortune, non è possibile, così come nessun paese provvede da solo a tutti i suoi fabbisogni: se qualcosa produce, di altro è carente, cosicché migliore è il paese che produce più beni. Allo stesso modo non c'è essere umano che sia sufficiente a se stesso: possiede qualcosa ma altro gli manca; chi viva, continuamente avendo più beni, e poi concluda la sua vita dolcemente, ecco, signore, per me costui ha diritto di portare quel nome. Di ogni cosa bisogna indagare la fine. A molti il dio ha fatto intravedere la felicità e poi ne ha capovolto i destini, radicalmente».

Creso non rimase per niente soddisfatto di questa spiegazione; non tenne Solone nella minima considerazione e lo congedò; considerava senz'altro un ignorante chi trascurava i beni presenti e di ogni cosa esortava a osservare la fine.

Dopo la partenza di Solone Creso subì la vendetta del dio: la subì, per quanto si può indovinare, perché aveva creduto di essere l'uomo più felice del mondo. Non era trascorso molto tempo quando nel sonno ebbe un sogno rivelatore: sognò le sventure che sarebbero poi effettivamente capitate a suo figlio. Creso aveva due figli, uno dei quali menomato (era muto), mentre l'altro, di nome Atis, primeggiava fra i suoi coetanei in ogni attività; il sogno indicò a Creso chiaramente che Atis sarebbe morto colpito da una punta di ferro. Al risveglio, quando si rese conto del contenuto del sogno, ne provò orrore; allora fece prendere moglie al figlio e siccome prima era abituato a guidare l'esercito lidio, non lo inviò più in nessun luogo per incarichi di questo tipo. Frecce, giavellotti e tutti quegli strumenti che si usano per combattere, li fece asportare dalle sale degli uomini e ammucchiare nelle stanze delle donne, perché nessuno di essi, rimanendo appeso alle pareti, potesse cadere accidentalmente sul figlio.

Quando il figlio era impegnato nelle nozze, giunse a Sardi uno sventurato di nazionalità frigia e di stirpe reale, le cui mani erano impure. Costui si presentò alla reggia di Creso e chiese di ottenere la purificazione secondo le norme locali, e Creso lo purificò. Il rituale di purificazione dei Lidi è pressoché identico a quello dei Greci. Compiuti gli atti rituali, Creso gli chiese chi fosse e da dove venisse: «Straniero, chi sei? Da quale parte della Frigia sei venuto a rifugiarti presso il mio focolare? Quale uomo o quale donna hai ucciso?» E quello rispose: «Signore, io sono nipote di Mida e figlio di Gordio, il mio nome è Adrasto; sono qui perché senza volerlo ho ucciso mio fratello e perché sono stato scacciato da mio padre e privato di ogni cosa». Al che Creso disse: «Si dà il caso che tu sia discendente di persone legate a noi da vincoli di amicizia; e fra amici pertanto tu sei arrivato. Se rimani con noi non ti mancherà nulla e se vivrai di buon cuore questa tua disgrazia, avrai molto da guadagnarci».

E così Adrasto soggiornava presso Creso quando comparve sul monte Olimpo di Misia un grosso esemplare di cinghiale che muovendo dalla montagna distruggeva le coltivazioni dei Misi; più di una volta i Misi avevano organizzato battute di caccia, senza però riuscire ad arrecargli alcun danno, subendone anzi da lui. Infine dei messaggeri Misi si recarono da Creso e gli dissero: «O re, nella nostra regione è comparso un gigantesco cinghiale che ci distrugge le coltivazioni; e noi, con tutto l'impegno che ci mettiamo, non riusciamo ad abbatterlo. Perciò ora ti preghiamo di mandare tuo figlio insieme con giovani scelti e cani, così potremo allontanarlo dai nostri territori». Queste erano le loro richieste, ma Creso, memore del sogno, rispose: «Quanto a mio figlio non se ne parla nemmeno: non lo posso mandare con voi perché si è appena sposato e ora ha da pensare a ben altro. Manderò invece uomini scelti e ogni sorta di equipaggiamento utile alla caccia, e ordinerò agli uomini della spedizione di garantire tutto il loro impegno nell'aiutarvi a scacciare il cinghiale dal vostro paese».

Ma mentre i Misi erano soddisfatti della risposta ricevuta, si fece avanti il figlio di Creso, che aveva udito le richieste dei Misi; visto che suo padre si era rifiutato di inviarlo con loro, il giovane gli disse: «Padre, una volta per noi l'aspirazione più bella e più nobile consisteva nel meritarsi gloria in guerra o nella caccia, ma ora tu mi vieti entrambe le attività; eppure non hai certamente scorto in me qualche segno di vigliaccheria o di paura. Con quale faccia ora devo mostrarmi fra la gente andando e venendo attraverso la città? Che opinione avranno di me i cittadini, e mia moglie, che mi ha appena sposato? Con quale marito crederà di convivere? Adesso perciò o tu mi lasci partecipare alla caccia, oppure mi dai una spiegazione sufficiente a convincermi che è meglio non farlo».

E Creso rispose: «Figlio mio, io non agisco così perché abbia scorto in te vigliaccheria o qualche altra cosa spiacevole; ma una visione apparsami nel sonno mi disse che tu avresti avuto una vita breve, che saresti morto colpito da una punta di ferro. Perciò dopo il sogno affrettai le tue nozze e perciò ora non invio te per l'impresa che ho accettato: agisco con cautela per vedere se in qualche modo, finché sono vivo, riesco a sottrarti alla morte. Il destino vuole che tu sia il mio unico figlio: l'altro infatti, che è menomato, non lo considero tale».

E il giovane gli rispose: «Ti capisco, padre, e capisco le precauzioni che hai nei miei riguardi dopo un simile sogno. Ma di questo sogno ti è sfuggito un particolare ed è giusto che io te lo faccia notare. Dal tuo racconto risulta che il sogno ti annunciava la mia morte come causata da una punta di ferro: e quali mani possiede un cinghiale? Quale punta di ferro di cui tu possa avere paura? Se ti avesse annunciato la mia morte come provocata da una zanna o da qualcosa del genere, allora sarebbe stato tuo dovere agire come agisci, ma ha parlato di una punta. E allora, visto che non si tratta di andare a combattere contro dei guerrieri, lasciami partire».

E Creso concluse: «Figlio mio, si può dire che nell'interpretare il mio sogno tu batti le mie capacità di giudizio: e io, in quanto sconfitto da te, cambio parere e ti lascio partecipare alla caccia».

Detto ciò, Creso fece chiamare il frigio Adrasto al quale, quando lo ebbe davanti, pronunciò il seguente discorso: «Adrasto, - disse - tu eri stato colpito da una dolorosa disgrazia, che non ti rimprovero, e io ti ho purificato e accolto nella mia casa dove ora ti ospito offrendoti ogni mezzo di sussistenza; adesso dunque, visto che per primo ti ho concesso enormi favori, tu sei in debito verso di me di favori uguali; io desidero che tu vegli su mio figlio che sta partendo per una battuta di caccia, che lungo la strada non vi si parino davanti pericolosi ladroni armati di cattive intenzioni. Oltre tutto non puoi esimerti dal recarti là dove tu possa segnalarti con qualche bella impresa: così facevano i tuoi antenati, senza contare che le tue forze te lo consentono ampiamente».

E Adrasto gli rispose: «Sovrano, se non me lo chiedessi tu, io non parteciperei a una simile impresa, perché non è decoroso per me, con la disgrazia che ho avuto, accompagnarmi a giovani della mia età dalla vita felice: non è quanto io voglio, anzi ne farei volentieri a meno. Ma ora, poiché sei tu a spingermi e verso di te io devo mostrarmi cortese, in debito come sono di enormi favori, ora sono disposto a farlo; tuo figlio, che affidi alla mia sorveglianza, per quanto dipende da me fai pure conto di vederlo tornare sano e salvo».

Quando Adrasto ebbe dato a Creso la sua risposta, la spedizione partì, con ampio seguito di giovani scelti e di cani da caccia. Giunsero al monte Olimpo e cominciarono a cercare il cinghiale; trovatolo lo circondarono e presero a scagliargli addosso i loro giavellotti: a questo punto l'ospite, proprio quello purificato da Creso, Adrasto, nel tentativo di centrare il cinghiale finì per sbagliarlo colpendo invece il figlio di Creso. Questi, trafitto dalla punta, dimostrò l'esattezza profetica del sogno. Qualcuno corse ad annunciare a Creso l'accaduto: come giunse a Sardi gli raccontò della battuta di caccia e della disgrazia del figlio.

Creso, sconvolto dalla morte del figlio, fu ancora più dispiaciuto per il fatto che a ucciderlo era stato l'uomo da lui purificato da un omicidio. Prostrato dalla sciagura, invocava con rabbia Zeus Purificatore, chiamandolo a testimone di ciò che aveva sofferto per mano del suo ospite, e lo invocava come protettore del focolare e dell'amicizia, sempre lo stesso dio ma con attributi diversi: in quanto protettore del focolare perché, avendo accolto nella propria casa lo straniero, senza saperlo aveva dato da mangiare all'uccisore di suo figlio, in quanto protettore dell'amicizia perché lo aveva inviato come difensore e se lo ritrovava ora odiosissimo nemico.

Più tardi tornarono i Lidi portando il cadavere e dietro li seguiva il responsabile della disgrazia: Adrasto, in piedi di fronte al cadavere, si consegnava a Creso protendendo le mani, invitandolo a immolarlo sul corpo del figlio; ricordava la precedente sventura e sosteneva di non avere più diritto di vivere dato che aveva rovinato chi a suo tempo si era fatto suo benefattore. Creso, nonostante il grande dolore per la disgrazia abbattutasi sulla sua famiglia, udendo queste parole ebbe compassione di Adrasto e gli disse: «Ho già da parte tua ogni soddisfazione visto che tu stesso ti assegni la morte come punizione. Tu non hai colpa di questa sciagura se non in quanto ne sei stato strumento involontario: il responsabile forse è un dio, che già da tempo mi aveva preannunciato quanto sarebbe accaduto». Poi Creso diede al figlio degna sepoltura; Adrasto, discendente di Gordio e di Mida, uccisore del proprio fratello e uccisore di chi da quell'omicidio lo aveva purificato, riconoscendo di essere l'uomo più sciagurato del mondo, attese che tutti si fossero allontanati dal sepolcro e lì, proprio sulla tomba, si tolse la vita.

Creso, rimasto privo del figlio, per due anni mantenne un lutto strettissimo. Più tardi la caduta di Astiage figlio di Ciassare e l'assunzione del potere da parte di Ciro, figlio di Cambise, con la conseguente crescita della potenza persiana, distolsero Creso dal suo dolore e determinarono in lui la preoccupazione insistente di frenare, se possibile, l'espansione della potenza dei Persiani prima che divenissero troppo influenti. Con questa idea decise subito di mettere alla prova gli oracoli greci e l'oracolo di Libia inviando corrieri un po' ovunque: a Delfi, ad Abe nella Focide, a Dodona; altri furono mandati ai santuari di Anfiarao e di Trofonio, altri ancora presso i sacerdoti Branchidi, nel territorio di Mileto. Tanti furono gli oracoli greci che Creso mandò a consultare; in Libia inviò un'altra delegazione a interrogare l'indovino di Ammone. In tal modo Creso voleva verificare le conoscenze degli oracoli: se avesse riscontrato che conoscevano la verità, avrebbe inviato nuovi corrieri per chiedere se poteva intraprendere spedizioni militari contro la Persia.

Ai Lidi spediti a saggiare gli oracoli diede le seguenti istruzioni: dovevano tenere il conto esatto dei giorni trascorsi dopo la loro partenza da Sardi; al centesimo giorno dovevano consultare gli oracoli chiedendo loro che cosa stesse facendo in quel momento il re dei Lidi Creso, figlio di Aliatte; dovevano trascrivere parola per parola il responso degli indovini e tornare a riferirlo. Nessuno sa dire quali furono le risposte degli altri oracoli, ma a Delfi, non appena i Lidi furono entrati nel santuario ed ebbero consultato il dio formulando la domanda prescritta, la Pizia diede in versi esametri la seguente risposta:

Io so quanti sono i granelli di sabbia e so le dimensioni del mare,

io intendo chi è muto e ascolto anche chi non ha voce.

Fino a me giunge l'odore di una testuggine dal duro guscio

che sta cuocendo nel rame insieme con carni di agnello:

c'è rame sotto di lei e rame sopra.

I Lidi trascrissero il responso della Pizia e partirono per tornare a Sardi. Quando anche gli altri inviati furono presenti, tutti con il loro responso, Creso aprì gli scritti, uno per uno, e ne esaminò il contenuto: nessuno degli altri gli parve soddisfacente, ma quando apprese il responso proveniente da Delfi subito lo accolse con devozione, e ritenne quello di Delfi l'unico vero oracolo, poiché aveva scoperto ciò che lui stava facendo. Infatti, dopo aver inviato i suoi messi presso gli oracoli, aveva tenuto d'occhio con la massima cura la data prestabilita, preparando il suo piano: pensò qualcosa che fosse impossibile indovinare o prendere in considerazione: uccise una testuggine e un agnello e li cucinò personalmente in una pentola di rame chiusa da un coperchio, pure di rame.

Tale dunque fu il responso che Creso ricevette da Delfi. Quanto all'indovino di Anfiarao non sono in grado di dire quale risposta diede ai Lidi, quando ebbero esaurito il consueto rituale intorno al santuario: nemmeno il testo di questo oracolo ci viene tramandato, ma posso dire che Creso giudicò di avere ricevuto un vaticinio veritiero.

Dopodiché Creso cercava di procurarsi il favore del dio di Delfi con offerte imponenti: immolò 3000 capi di bestiame di tutte le specie adatte al sacrificio, ammassò una gigantesca pira sulla quale bruciò lettighe rivestite d'oro e d'argento, boccette d'oro, vesti di porpora e tuniche, sperando di guadagnarsi maggiormente il favore del dio con simili offerte. E a tutti i Lidi ordinò di sacrificare quanto ciascuno potesse. Al termine dei sacrifici fece fondere un enorme quantitativo d'oro e ne ricavò dei mezzi mattoni lunghi sei palmi, larghi tre e spessi uno: erano 117 di numero, di cui quattro di oro puro, ciascuno del peso di due talenti e mezzo, mentre gli altri mezzi mattoni pesavano due talenti essendo costituiti da oro bianco. Fece fondere in oro puro anche la statua di un leone, pesante dieci talenti. Questo leone, quando ci fu l'incendio del tempio di Delfi, cadde dai mattoni, sui quali era appunto collocato: ora si trova nel tesoro di Corinto e pesa sei talenti e mezzo, perché tre talenti e mezzo si fusero e andarono perduti.

Appena pronti tali oggetti, Creso li spedì a Delfi; e vi aggiunse due crateri di grandi dimensioni, uno d'oro e uno d'argento; quello d'oro fu posto a destra di chi entra nel tempio e quello d'argento a sinistra, ma anch'essi vennero dislocati altrove all'epoca dell'incendio del santuario. Ora quello d'oro si trova nel tesoro dei Clazomeni e ha un peso di otto talenti e mezzo e dodici mine, quello d'argento in un angolo del pronao e ha una capacità di 600 anfore: ancora lo usano a Delfi durante le feste delle Teofanie. I Delfi dicono che è opera di Teodoro di Samo, un parere che condivido, perché non è certamente un oggetto fabbricabile da chiunque. Spedì anche quattro orci d'argento, ora nel tesoro dei Corinzi, e offrì due vasi per l'acqua lustrale, uno d'oro e uno d'argento; su quello d'oro c'è una iscrizione che ne attribuisce l'offerta agli Spartani, ma è un falso: l'oggetto è proprio di Creso e la scritta è dovuta a uno di Delfi che voleva ingraziarsi gli Spartani: io ne conosco il nome, ma non lo menzionerò. Dono degli Spartani è il fanciullo dalla cui mano scorre l'acqua, ma certamente non lo sono i due vasi lustrali. Assieme a questi Creso consacrò altri oggetti senza contrassegni e due catini rotondi d'argento e, ancora, una statua d'oro alta tre cubiti, che rappresenta una donna, anzi più precisamente la fornaia di Creso, secondo quanto si dice a Delfi. E inoltre Creso offrì le collane e le cinture della moglie.

Questo è quanto inviò a Delfi. Invece ad Anfiarao, di cui aveva appreso il valore e la sorte sventurata, consacrò uno scudo interamente d'oro e una solida lancia, essa pure d'oro massiccio tanto nell'asta come nelle punte. All'epoca della mia visita entrambi gli oggetti si trovavano ancora a Tebe, e esattamente nel tempio di Apollo Ismenio.

Ai Lidi incaricati di portare i doni ai santuari Creso ordinò di chiedere agli oracoli se convenisse muovere guerra ai Persiani e se fosse il caso di aggregarsi qualche esercito amico. I Lidi, giunti a destinazione, consacrarono le offerte e interrogarono gli oracoli: «Creso, re dei Lidi e di altre popolazioni, convinto che questi sono gli unici veri oracoli al mondo, vi destina questi doni degni dei vostri vaticini, e vi chiede se gli conviene muovere guerra contro i Persiani e se è il caso di aggregarsi qualche esercito alleato». Alle loro domande entrambi gli oracoli diedero identica risposta, preannunciando a Creso che, se avesse mosso guerra ai Persiani, avrebbe rovesciato un grande regno; e gli consigliarono di trovare quali fossero i Greci più potenti e di assicurarsene l'amicizia.

Venuto a conoscenza dei responsi, Creso se ne compiacque molto: tutto preso dalla speranza di abbattere il regno di Ciro, inviò a Pito una ulteriore delegazione: si informò quanti fossero i Delfi di numero e a ciascuno di loro donò due stateri d'oro. In cambio i Delfi concedettero a Creso e ai Lidi il diritto di precedenza nella consultazione dell'oracolo, l'esenzione dai tributi, il diritto di seggio privilegiato negli spettacoli e la possibilità, per sempre, a ogni Lido che lo desiderasse di diventare cittadino di Delfi.

Dopo quei doni Creso si rivolse al santuario per la terza volta: da quando ne aveva riconosciuto la veridicità abusava dell'oracolo. Questa volta chiese se il suo regno sarebbe durato a lungo e la Pizia gli diede il seguente responso:

Quando un mulo sarà divenuto re dei Medi,

allora, o Lidio dal piede delicato, lungo l'Ermo ghiaioso

fuggi e non fermarti, e non avere vergogna di essere vile.

Quando gli giunsero tali parole Creso ne gioì molto più che di tutte le precedenti: non si aspettava certo che un mulo venisse mai a regnare sui Medi al posto di un uomo e quindi né la sua, né la sovranità dei suoi discendenti avrebbero avuto mai fine. Poi si preoccupò di scoprire quali erano i Greci da farsi amici in quanto più potenti, e a forza di indagini risultò che Spartani e Ateniesi prevalevano nettamente all'interno dei loro gruppi etnici, rispettivamente il dorico e lo ionico. Erano in effetti i due popoli preminenti: l'uno di antica origine pelasgica, l'altro di origine ellenica; gli Ateniesi non si erano mai mossi dai territori che occupavano, gli altri avevano compiuto numerosi spostamenti: al tempo del re Deucalione abitavano la Ftiotide, al tempo di Doro figlio di Elleno la regione detta Estiotide alle falde dell'Ossa e dell'Olimpo; cacciati dalla Estiotide ad opera dei Cadmei si erano stanziati a Pindo con il nome di Macedni. Da lì ancora si trasferirono nella Driopide e infine dalla Driopide passarono nel Peloponneso, dove assunsero il nome di Dori.

Quale lingua parlassero i Pelasgi non sono in grado di dirlo con esattezza: se è indispensabile fornire qualche indicazione, basandosi sulle popolazioni pelasgiche superstiti, sia quelle insediate oggi nella città di Crestona a nord dei Tirreni e già limitrofe degli attuali Dori nella regione adesso chiamata Tessagliotide, sia quelle che nell'Ellesponto avevano colonizzato Placia e Scilace e avevano condiviso il territorio con gli Ateniesi, o sulle città un tempo pelasgiche ma che poi avevano mutato nome, ebbene, deducendo su queste basi, bisogna concludere che i Pelasgi parlavano una lingua barbara. Se dunque i Pelasgi erano di lingua barbara, allora gli Attici, Pelasgi di stirpe, una volta divenuti Greci dovettero anche cambiare il modo di esprimersi. Infatti, bisogna aggiungere che gli abitanti di Crestona e di Placia parlano due idiomi assolutamente diversi dagli idiomi dei popoli circostanti, ma molto simili fra loro, dimostrando così di avere conservato l'originaria impronta linguistica anche dopo esser immigrati nei rispettivi nuovi territori.

A me risulta che il gruppo degli Elleni fin dalla sua origine abbia sempre parlato la stessa lingua: staccatisi dai Pelasgi, erano deboli e poco numerosi, ma poi, estendendo il proprio dominio, crebbero fino all'attuale moltitudine di popolazioni, grazie ai continui apporti di Pelasgi, soprattutto, e di altre etnie barbare. Al confronto mi pare senz'altro che nessun popolo pelasgico, restando barbaro, abbia mai compiuto progressi considerevoli.

Di quelle due genti Creso venne a sapere che una, la attica, era retta e tenuta divisa dal figlio di Ippocrate Pisistrato, allora tiranno di Atene. A Ippocrate era capitato un evento assolutamente prodigioso: si trovava ad Olimpia, come privato cittadino, per assistere ai Giochi e aveva appena terminato un sacrificio quando i lebeti, che erano lì pronti, pieni di acqua e di carni, presero improvvisamente a bollire senza fuoco e a traboccare. Lì accanto per caso c'era Chilone di Sparta; egli, osservato il prodigio, rivolse a Ippocrate i seguenti consigli: per prima cosa non sposare una donna in grado di procreare, se invece aveva già moglie ripudiarla e rinnegare il proprio figlio se era già venuto al mondo. Ma non pare proprio che Ippocrate abbia voluto seguire le indicazioni di Chilone: e così più tardi nacque Pisistrato. Gli Ateniesi della costa e gli Ateniesi dell'interno, i primi capitanati da Megacle figlio di Alcmeone, i secondi da Licurgo figlio di Aristolaide, erano in conflitto fra di loro: Pisistrato mirando al potere assoluto diede vita a una terza fazione: riunì un certo numero di sediziosi, si autodichiarò fittiziamente capo degli Ateniesi delle montagne ed escogitò il seguente stratagemma. Ferì se stesso e le proprie mule e poi spinse il carro nella piazza centrale fingendo di essere sfuggito a un agguato di nemici che, a sentire lui, avrebbero avuto la chiara intenzione di ucciderlo mentre si recava in un suo campo; chiese pertanto che il popolo gli assegnasse un corpo di guardia, anche in considerazione dei suoi meriti precedenti, quando, stratega all'epoca della guerra contro i Megaresi, aveva conquistato il porto di Nisea e realizzato altre grandi imprese. Il popolo ateniese si lasciò ingannare e gli concedette di scegliere fra i cittadini un certo numero di uomini, i quali diventarono i lancieri privati di Pisistrato, o meglio i suoi «mazzieri», visto che lo scortavano armati di mazze di legno. Questo corpo di guardia contribuì al colpo di stato di Pisistrato occupando l'acropoli. Da allora Pisistrato governò su Atene senza riformare le cariche dello stato esistenti e senza modificare le leggi: resse la città amministrandola con oculatezza sulla base degli ordinamenti già in vigore.

Non molto tempo dopo i partigiani di Megacle e quelli di Licurgo si misero d'accordo e lo cacciarono dalla città. Così andarono le cose la prima volta che Pisistrato ebbe in mano sua Atene: perse il potere prima che si radicasse saldamente. Ma tra coloro che lo avevano scacciato rinacquero i contrasti e Megacle, messo in difficoltà dai tumulti, finì col mandare un messaggero a Pisistrato offrendogli il potere assoluto a patto che sposasse sua figlia. Pisistrato accettò la proposta e fu d'accordo sulle condizioni; per il suo rientro in Atene ricorsero a un espediente che io trovo assolutamente ridicolo, visto che i Greci fin dall'antichità sono sempre stati ritenuti più accorti dei barbari e meno inclini alla stoltezza e alla dabbenaggine, e tanto più se in quella circostanza attuarono effettivamente un simile disegno in barba agli Ateniesi, che fra i Greci passano per essere i più intelligenti. Nel demo di Peania viveva una donna, di nome Fia, alta quattro cubiti meno tre dita e per il resto piuttosto bella. Vestirono questa donna di una armatura completa, la fecero salire su di un carro, le insegnarono come atteggiarsi per ottenere il più nobile effetto e la guidarono in città facendosi precedere da alcuni araldi, i quali, giunti in Atene, secondo le istruzioni ricevute andavano ripetendo il seguente proclama: «Ateniesi, accogliete di buon grado Pisistrato: Atena in persona, onorandolo sopra tutti gli uomini, lo riconduce sulla acropoli a lei dedicata». Facevano questo annuncio percorrendo la città e ben presto la voce si sparse fino ai demi: «Atena riconduce Pisistrato»; e in città, credendo che Fia fosse la dea in persona, a lei, che era una semplice donna, si rivolsero con devozione; e accolsero Pisistrato. |[continua]|

 

|[LIBRO I, 2]|

Riavuto il potere nel modo ora esposto, Pisistrato rispettò l'accordo preso con Megacle e ne sposò la figlia; ma poiché aveva già dei figli adulti e correva fama che sugli Alcmeonidi pesasse la maledizione divina, non volendo avere prole dalla nuova moglie, non si univa con lei come vuole natura. La donna, lì per lì, tenne nascosta la cosa, ma poi, che glielo avessero chiesto o meno, ne parlò alla madre; e questa lo riferì al marito. Il fatto fu considerato un terribile affronto da parte di Pisistrato: in preda all'ira com'era, Megacle si riconciliò con quelli della sua fazione. Pisistrato, informato di quanto si stava concretizzando ai suoi danni, non esitò ad allontanarsi dal paese: si rifugiò a Eretria e lì studiò la situazione insieme coi figli. Prevalse il parere di Ippia, di tentare la riconquista del potere, e allora cominciarono a sollecitare doni dalle città che in qualche modo erano obbligate nei loro confronti. E fra le tante città che fornirono ingenti somme di denaro i Tebani superarono tutti con il loro contributo. Insomma, per farla breve, venne il momento in cui tutto era pronto per il rientro in Atene: dal Peloponneso erano arrivati dei mercenari argivi, e un uomo di Nasso, di nome Ligdami, giunse di sua iniziativa, ben fornito di uomini e mezzi, e offrì i suoi servigi.

Muovendo da Eretria fecero ritorno in Attica, a distanza di oltre dieci anni dalla loro fuga. In Attica il primo luogo che occuparono fu Maratona; mentre stavano lì accampati si unirono a loro dei ribelli provenienti dalla città, e altri ne affluivano dai demi: tutta gente che abbracciava la tirannide preferendola alla libertà. Costoro quindi si andavano radunando: gli Ateniesi rimasti in città, finché Pisistrato raccoglieva finanziamenti e poi per tutto il tempo che si trattenne a Maratona, non si preoccuparono minimamente; ma quando seppero che stava marciando da Maratona su Atene allora finalmente scesero in campo contro di lui. Mentre l'esercito cittadino marciava incontro agli assalitori, Pisistrato e i suoi si erano mossi da Maratona e avanzavano verso la città; convergendo finirono perciò per incontrarsi nel demo di Pallene, all'altezza del tempio di Atena Pallenide, e lì i due eserciti si schierarono uno di fronte all'altro. In quel momento, spinto da ispirazione divina, si presentò a Pisistrato l'indovino Anfilito di Acarnania, gli si avvicinò e pronunciò la seguente profezia in esametri:

La rete è stata lanciata, le sue maglie si sono distese,

i tonni vi irromperanno dentro in una notte di luna.

Così vaticinava sotto l'ispirazione del dio e Pisistrato comprendendo la profezia dichiarò di accoglierla e guidò in campo l'esercito. Nel frattempo gli Ateniesi della città avevano pensato bene di mangiare e, dopo, si erano messi chi a giocare a dadi, chi a dormire. Pisistrato e i suoi piombarono su di loro e li volsero in fuga. Mentre essi fuggivano Pisistrato trovò la maniera più saggia per impedire che gli Ateniesi si raccogliessero ancora, e anzi per tenerli dispersi. Fece montare a cavallo i suoi figli e li mandò avanti: essi, raggiungendo i fuggitivi, parlavano loro secondo le disposizioni di Pisistrato, esortandoli uno per uno a non avere paura e a tornare ciascuno alle proprie occupazioni.

Gli Ateniesi si lasciarono persuadere e così Pisistrato per la terza volta fu padrone di Atene; questa volta rese più saldo il proprio potere grazie alle molte guardie e agli ingenti contributi in denaro, che gli provenivano tanto dall'Attica come dal fiume Strimone. Inoltre prese in ostaggio i figli degli Ateniesi che erano rimasti a combattere senza darsi subito alla fuga e li tenne sequestrati a Nasso (perché Pisistrato aveva sottomesso anche Nasso e l'aveva affidata a Ligdami). Poi obbedendo agli oracoli purificò l'isola di Delo, in questo modo: fece disseppellire e trasportare in un'altra parte dell'isola tutti i resti umani che si trovavano in zone visibili dal santuario. E così Pisistrato fu signore di Atene; ma vari Ateniesi erano caduti nella battaglia e altri avevano seguito gli Alcmeonidi in esilio lontano dalla loro patria.

Questa era la situazione in Atene all'epoca in cui Creso raccoglieva le sue informazioni; dal canto loro gli Spartani erano appena usciti da un periodo di grosse difficoltà e stavano ormai prevalendo nella guerra contro Tegea. Effettivamente nel periodo in cui a Sparta regnarono Leonte ed Egesicle, gli Spartani, che avevano risolto a proprio favore gli altri conflitti, non riuscivano a superare l'ostacolo di Tegea. In epoca ancora precedente a questi avvenimenti erano, si può dire, i più arretrati in tutta la Grecia in fatto di legislazione interna ed erano isolati dal punto di vista internazionale. Il progresso verso un buon ordinamento legislativo avvenne nel modo che ora vi narro. Una volta all'oracolo di Delfi si recò Licurgo, uno degli Spartiati più in vista; non appena fu entrato nel sacrario la Pizia così parlò:

Licurgo, tu vieni al mio tempio opulento

tu, caro a Zeus e a quanti abitano le dimore dell'Olimpo.

Sono in dubbio se dichiararti dio o essere umano

ma penso piuttosto che tu sei un dio, Licurgo.

Alcuni aggiungono che la Pizia gli suggerì anche l'attuale costituzione degli Spartiati, ma a quanto raccontano gli Spartani stessi, Licurgo la introdusse derivandola da quella di Creta al tempo in cui lui era tutore di suo nipote, il re di Sparta Leobote. Non appena assunse la tutela provvide a riformare tutte le leggi e vigilò che non si verificassero violazioni. In seguito Licurgo fissò gli ordinamenti militari: corpi speciali dell'esercito, unità di trenta uomini, mense comuni, e istituì, inoltre, le cariche di eforo e di geronte.

Con simili riforme gli Spartani ottennero una buona legislazione; e alla morte di Licurgo gli dedicarono un santuario che è tuttora molto venerato. Poiché risiedono in un buon territorio e costituiscono una massa non indifferente di uomini, ebbero un rapido sviluppo e raggiunsero un notevole grado di prosperità. Al punto che non si accontentarono più di vivere in pace, ma, presumendo di essere più forti degli Arcadi, consultarono l'oracolo di Delfi sull'Arcadia intera: e la Pizia diede loro il seguente responso:

Mi chiedi l'Arcadia? Chiedi molto: non te la concederò.

In Arcadia ci sono molti uomini che si nutrono di ghiande

i quali vi respingeranno; ma non voglio opporti solo un rifiuto:

ti concederò Tegea, battuta dai piedi, per ballare,

e la sua bella pianura, da misurare con la fune.

Appresa la risposta gli Spartani si tennero lontani da tutti gli altri Arcadi, ma intrapresero una spedizione militare contro Tegea; e avevano tanta fiducia nell'ambiguo responso che portarono con sé anche le catene, per essere pronti a rendere schiavi i Tegeati. Ma quando furono sconfitti nella battaglia, quanti di loro rimasero prigionieri furono costretti a lavorare la terra della pianura di Tegea dopo aver misurato con la fune la parte spettante a ciascuno e incatenati con gli stessi ceppi che si erano portati dietro. Questi ceppi, gli stessi che servirono a incatenarli, li ho visti io, ancora intatti, a Tegea, appesi tutto intorno al tempio di Atena Alea.

Durante questo primo conflitto gli Spartani continuarono ad avere la peggio negli scontri contro i Tegeati, ma al tempo di Creso e del regno spartano di Anassandride e di Aristone, gli Spartiati ormai avevano acquistato una sicura superiorità bellica, ed ecco come. Visto che in guerra risultavano sempre inferiori ai Tegeati, inviarono a Delfi una delegazione a chiedere quale dio dovessero propiziarsi per prevalere nella guerra contro Tegea. La Pizia rispose che ci sarebbero riusciti quando avessero traslato nella loro città le ossa di Oreste figlio di Agamennone. Ma poiché non erano capaci di scoprire il luogo in cui Oreste era stato seppellito, mandarono di nuovo a chiedere al dio dove esattamente giacesse Oreste. E agli inviati la Pizia diede la seguente risposta:

In Arcadia c'è una città, Tegea, in una aperta regione:

dove soffiano due venti sotto dura costrizione,

dove c'è colpo e ciò che respinge il colpo, dove male giace su male,

lì la terra, generatrice di vita, racchiude il figlio di Agamennone.

Quando lo avrai con te sarai signore di Tegea.

Anche dopo aver ricevuto questa risposta, gli Spartani non riuscivano affatto a scoprire il luogo in questione, pur cercandolo dovunque; finché lo trovò un certo Lica, uno degli Spartiati che possono onorarsi del titolo di Agatoergi. Gli Agatoergi sono quei cinque cittadini di anno in anno più anziani fra coloro che si congedano dalla cavalleria: essi per tutto l'anno in cui escono dalle file dei cavalieri hanno l'obbligo di non rimanere inattivi e di accettare missioni all'estero per conto dello stato.

Ricopriva dunque questo incarico Lica quando, grazie ad un colpo di fortuna e alla sua intelligenza, trovò a Tegea la tomba di Oreste. Esistevano allora libere relazioni fra Sparta e Tegea; Lica, entrato in una fucina, se ne stava ad osservare ammirato la lavorazione del ferro. Il fabbro si accorse del suo stupore e interrompendo il proprio lavoro gli disse: «Ospite spartano, sono sicuro che rimarresti a bocca aperta se vedessi quello che ho visto io, dal momento che guardi con tanta meraviglia battere il ferro. Devi sapere che io volevo costruire un pozzo nel mio cortile e scavando ho urtato in una bara lunga sette cubiti. Non potendo credere che fossero mai esistiti uomini più alti degli attuali, la scoperchiai e vidi un cadavere lungo quanto la bara. Lo misurai e lo seppellii di nuovo». Il fabbro gli raccontava quanto aveva visto e Lica riflettendoci ne arguì che quel morto fosse Oreste; lo deduceva dal testo dell'oracolo, interpretato così: nei due mantici del fabbro, che aveva sott'occhio, riconobbe i venti, nel martello e nell'incudine il colpo e ciò che respinge il colpo, nel ferro battuto il male che giace sul male, interpretando in base al principio che il ferro sia stato scoperto per il male dell'uomo. Avendo compreso l'enigma, fece ritorno a Sparta e riferì ai suoi concittadini come stavano le cose. Essi lo accusarono di propagazione di notizie false e lo bandirono dalla città. Lica tornò a Tegea e narrando al fabbro quanto gli era accaduto cercò, ma senza successo, di prendere in affitto da lui quel cortile. Col tempo riuscì a convincerlo e vi si poté installare; allora disseppellì la bara, raccolse le ossa di Oreste e con esse rientrò a Sparta. E da quel momento, ogni volta che avevano luogo degli scontri con i Tegeati, gli Spartani avevano sempre la meglio. E ormai essi avevano sottomesso anche la maggior parte del Peloponneso.

Creso, venuto a conoscenza di tutti questi fatti, inviò a Sparta dei messaggeri, latori di doni e di una richiesta di alleanza e bene istruiti sulle parole da riferire. Quando arrivarono a Sparta essi dichiararono: «È stato Creso, re dei Lidi e di altre popolazioni, a mandarci qui, affidandoci questo messaggio: "Spartani, il dio mi ha ordinato per bocca di un oracolo di rendermi amico il popolo greco, e io so che voi siete i primi della Grecia: pertanto obbedendo alla parola del dio a voi rivolgo il mio appello, desideroso di diventare vostro amico e alleato, senza inganni, senza secondi fini". E fu quanto i messaggeri di Creso riferirono da parte del loro re; gli Spartani, a cui era noto il responso in questione, furono molto lieti della venuta dei Lidi e strinsero vincoli giurati di amicizia e di alleanza militare. Del resto erano legati da alcuni benefici ricevuti da Creso in tempi precedenti: a Sardi gli Spartani avevano mandato a comprare dell'oro, di cui intendevano servirsi per la fabbricazione della statua di Apollo che ora si trova sul Tornace, in Laconia, e Creso, benché fossero disposti a pagarlo, gliene aveva offerto in dono.

Per questi motivi gli Spartani accettarono il patto di alleanza e anche perché li aveva scelti come alleati anteponendoli a tutti gli altri Greci. E oltre a dichiararsi disponibili a ogni appello fecero fabbricare un cratere di bronzo, decorato con figure lungo il bordo esterno e tanto grande da avere una capacità di 300 anfore: lo donarono a Creso intendendo così contraccambiarlo. Questo cratere non arrivò mai a Sardi, fatto di cui si danno due diverse spiegazioni: gli Spartani sostengono che quando il cratere durante il viaggio verso Sardi venne a trovarsi all'altezza dell'isola di Samo, gli abitanti di Samo, informati, li assalirono con lunghe navi da battaglia e se ne impadronirono; invece i Sami raccontano che gli Spartani incaricati del trasporto avevano ritardato, sicché poi, quando giunse la notizia della caduta di Sardi e della cattura di Creso, decisero di cedere l'oggetto in Samo: lo acquistarono dei privati cittadini per offrirlo al tempio di Era; poi, forse, gli stessi che lo avevano venduto, una volta tornati a Sparta, raccontarono di essere stati depredati dai Sami.

Così andarono le cose a proposito del cratere. Dal canto suo Creso, fraintendendo il senso dell'oracolo, organizzava una invasione della Cappadocia, convinto di abbattere Ciro e la potenza persiana. Mentre Creso si preparava a marciare contro i Persiani, un lido di nome Sandani che già in occasioni precedenti aveva dimostrato di essere un saggio, ma che dopo il parere espresso in questa circostanza si guadagnò la massima reputazione in Lidia, diede a Creso il seguente consiglio: «Mio re, - gli disse - tu stai facendo preparativi per combattere contro uomini che portano brache di cuoio e di cuoio anche il resto dei loro vestiti, che si cibano non di ciò che vogliono ma di ciò che hanno, perché la loro terra è avara; inoltre non toccano vino, ma bevono solo acqua, non hanno fichi da mangiare e nient'altro di buono. Insomma se li batti cosa potrai ricavare da loro, visto che non possiedono nulla? Se invece rimani sconfitto, pensa a quanti beni perdi! Se faranno tanto di gustare le nostre risorse, se le terranno strette e noi non potremo mai più liberarci dei Persiani. Per me io ringrazio gli dèi che non mettono in mente ai Persiani di muovere guerra ai Lidi». Pur con questi argomenti non riusciva a persuadere Creso. In effetti i Persiani prima di sottomettere la Lidia non possedevano nulla di delicato e di buono.

Gli abitanti della Cappadocia dai Greci sono chiamati Siri. Questi Siri prima del dominio persiano erano stati sudditi dei Medi; allora lo erano di Ciro. Il confine tra il regno dei Medi e quello dei Lidi correva lungo il fiume Alis, il quale scende dal monte Armeno attraverso la Cilicia e poi, proseguendo nel suo corso, ha sulla riva destra i Matieni e sulla sinistra i Frigi; più avanti risale verso nord e separa i Siri della Cappadocia, sulla destra, dai Paflagoni, sulla sinistra. In tal modo il fiume Alis delimita quasi tutta l'Asia inferiore, a partire dal mare che fronteggia l'isola di Cipro fino al Ponto Eusino; questa zona è un po' come una strozzatura dell'intero continente: un corriere equipaggiato alla leggera impiega cinque giorni a percorrerla.

Creso decise di aggredire la Cappadocia per varie ragioni, un po' per desiderio di nuove terre da annettere ai propri possedimenti, ma soprattutto perché aveva fiducia nell'oracolo e voleva vendicare Astiage contro Ciro. Bisogna sapere che Ciro figlio di Cambise aveva rovesciato dal trono e teneva imprigionato Astiage, figlio di Ciassare e cognato di Creso nonché re dei Medi; cognato di Creso lo era divenuto come sto per raccontare. In seguito a una sedizione una tribù di nomadi Sciti era penetrata nel territorio dei Medi; a quell'epoca re dei Medi era il nipote di Deioce e figlio di Fraorte Ciassare il quale in un primo momento aveva trattato con riguardo questi Sciti, considerandoli supplici; li teneva in tanta considerazione che affidò loro alcuni giovani perché ne imparassero la lingua e la tecnica di tiro con l'arco. Passò del tempo; gli Sciti andavano regolarmente a caccia, e ne tornavano regolarmente con qualche preda, ma una volta accadde che non riuscirono a prendere nulla; vedendoli tornare a mani vuote Ciassare, che era, e lo dimostrò, eccessivamente collerico, si rivolse loro piuttosto duramente, finendo per offenderli. Vistisi oltraggiati in quel modo da Ciassare e convinti di non esserselo meritato, gli Sciti decisero di tagliare a pezzi uno dei giovani affidati alle loro cure, di cucinarne le carni come di solito preparavano la selvaggina e di servirle a Ciassare come se fosse cacciagione; dopo di che sarebbero riparati in tutta fretta a Sardi presso il re Aliatte figlio di Sadiatte. E così avvenne: Ciassare e i suoi compagni di tavola mangiarono quelle carni e gli Sciti, autori del misfatto, si fecero supplici di Aliatte.

Dopo qualche tempo, dato che Aliatte si rifiutava di soddisfare le richieste di Ciassare di consegnare gli Sciti, fra Lidi e Medi scoppiò una guerra, lunga cinque anni, nei quali varie volte i Medi sconfissero i Lidi e varie volte i Lidi sconfissero i Medi; in quella guerra ebbe luogo anche una battaglia notturna. Mantennero un sostanziale equilibrio fino alla fine del conflitto, al sesto anno di lotta, quando, durante una battaglia, nell'infuriare degli scontri, improvvisamente il giorno si fece notte. Questa trasformazione del giorno era stata preannunciata agli Ioni da Talete di Mileto, che aveva previsto come scadenza proprio l'anno in cui il fenomeno si verificò. Lidi e Medi, quando videro le tenebre sostituirsi alla luce, smisero di combattere e si affrettarono entrambi a stipulare un trattato di pace. I mediatori dell'accordo furono Siennesi di Cilicia e Labineto di Babilonia. Costoro sollecitarono anche un giuramento solenne e combinarono un matrimonio incrociato: stabilirono che Aliatte concedesse sua figlia Arieni al figlio di Ciassare Astiage, perché se non ci sono solidi legami di parentela i trattati, di solito, non durano. Presso questi popoli il rituale del giuramento è identico a quello greco: in più si praticano una incisione sulla pelle del braccio e si succhiano a vicenda un po' di sangue.

Ciro, per una ragione che esporrò più avanti, aveva spodestato e teneva prigioniero Astiage, che era suo nonno materno: è quanto Creso gli rimproverava allorché mandò a interrogare l'oracolo sulla possibilità di attaccare la Persia; ottenuto l'ambiguo responso, si illuse di avere l'oracolo dalla propria parte e si mosse contro il territorio persiano. Quando giunse sulla riva del fiume Alis, io credo che fece passare dall'altra parte le sue truppe servendosi dei ponti allora esistenti; ma una versione dei fatti molto diffusa fra i Greci vuole attribuire il merito dell'attraversamento a Talete di Mileto. Si dice infatti che Talete si trovasse lì nell'esercito nel momento in cui Creso era in grave difficoltà non sapendo come traghettare i suoi soldati (perché a quell'epoca non sarebbero esistiti ponti sull'Alis); allora pare che Talete sia riuscito a far scorrere anche sul lato destro dell'esercito quel fiume che prima avevano solo sulla sinistra, e ci riuscì nella maniera seguente. Ordinò di scavare un profondissimo canale semicircolare che iniziava a monte dell'accampamento; lo scopo era quello di incanalare le acque e di farle scorrere alle spalle dell'esercito accampato, per poi farle rifluire nel vecchio letto una volta superato l'accampamento; così il fiume fu diviso in due rami che divennero immediatamente guadabili. C'è persino chi sostiene che l'antico letto fu del tutto prosciugato, un'ipotesi per me del tutto inaccettabile: come avrebbero potuto in tal caso attraversare il canale al ritorno? 76

·Creso dunque attraversò il fiume con le sue truppe e si spinse in quella parte della Cappadocia che viene chiamata Pteria; la Pteria è la regione che si estende grosso modo a sud della città di Sinope sul Ponto Eusino ed è la zona più fortificata del paese; qui si accampò cominciando a devastare i possedimenti dei Siri. Espugnò la città di Pteria e ne ridusse in schiavitù gli abitanti, occupò tutte le località circostanti e si accanì a saccheggiare quella regione, che non aveva nessuna colpa verso di lui. Ciro si diresse contro Creso dopo aver radunato l'esercito e prese con sé tutte le popolazioni che lo separavano dall'invasore. Prima di muovere le sue truppe aveva inviato araldi alle città della Ionia nel tentativo di sollevarle contro Creso; ma gli Ioni non si erano lasciati convincere. Ciro raggiunse Creso e pose il proprio accampamento di fronte al suo: qui, nella regione di Pteria misurarono le rispettive forze. Ci fu una terribile battaglia, con numerosi caduti da entrambe le parti, che si interruppe al sopraggiungere della notte senza che uno dei due eserciti fosse riuscito a prevalere.

Tanto fu l'impegno profuso da tutti i combattenti. Creso, insoddisfatto della consistenza numerica del proprio esercito (le truppe che avevano combattuto erano assai inferiori a quelle di Ciro), a causa di tale sua insoddisfazione e visto che il giorno dopo Ciro non arrischiava un altro assalto, tornò precipitosamente a Sardi con l'intenzione di chiamare in suo aiuto gli Egiziani (aveva stretto una alleanza pure con il re egiziano Amasi ancora prima che con gli Spartani); di far accorrere anche i Babilonesi (anche con loro aveva stipulato un trattato di alleanza militare; a quell'epoca il re di Babilonia era Labineto); di notificare agli Spartani la scadenza entro la quale presentarsi; contava di riunire gli alleati e radunare il proprio esercito, di lasciar passare l'inverno e di marciare contro i Persiani all'inizio della primavera.

Con questo piano in mente, appena giunse a Sardi inviò araldi ai diversi alleati per avvisarli che il raduno era fissato a Sardi di lì a quattro mesi. L'esercito di cui già disponeva e che si era battuto contro i Persiani, ed era composto di mercenari, lo congedò tutto e lasciò che si sciogliesse: non avrebbe mai immaginato che Ciro, dopo aver sostenuto una battaglia dall'esito così equilibrato, si sarebbe spinto fino a Sardi.

Mentre Creso meditava questo suo piano, i sobborghi di Sardi furono invasi dai serpenti; e, al loro apparire, i cavalli, abbandonati i pascoli consueti, accorsero a divorarli. Creso vedendo ciò pensò che si trattasse, come in effetti era, di un presagio; subito inviò degli incaricati ai Telmessi, i famosi indovini. Gli inviati di Creso giunsero a destinazione e appresero il significato del prodigio ma non riuscirono a informarne il re: prima che potessero imbarcarsi per ritornare a Sardi, Creso era stato fatto prigioniero. I Telmessi avevano sentenziato che Creso doveva attendersi l'invasione del proprio paese da parte di un esercito straniero il quale avrebbe assoggettato la popolazione locale: spiegavano che il serpente era il figlio della terra e che il cavallo rappresentava il nemico straniero. I Telmessi diedero questa risposta quando Creso era già stato catturato ma quando ancora non potevano essere al corrente di ciò che era accaduto a lui personalmente e alla città di Sardi.

Non appena Creso si fu messo sulla via del ritorno, dopo la battaglia svoltasi nella Pteria, Ciro intuì che Creso, dopo essersi ritirato, avrebbe sciolto l'esercito; riflettendo trovò che la cosa fondamentale a quel punto era avanzare su Sardi con la massima celerità possibile, prima che le forze dei Lidi si radunassero una seconda volta. Prese questa decisione e agì con rapidità: spinse le sue truppe in Lidia e in pratica fu lui stesso ad annunciare a Creso il proprio arrivo. Allora Creso, benché messo in grave difficoltà dal corso degli eventi, così diversi da come se li era prospettati, tuttavia guidò i suoi Lidi alla battaglia. A quell'epoca non esisteva in Asia un popolo più valoroso e più forte dei Lidi: combattevano da cavallo, armati di lunghe lance ed erano tutti eccellenti cavalieri.

Si fronteggiarono nella pianura antistante la città di Sardi, una pianura ampia e sgombra: attraverso di essa scorrono l'Illo e altri torrenti immettendosi nel fiume principale, l'Ermo, che nasce da un monte sacro alla Gran Madre di Dindimo e sfocia poi in mare presso la città di Focea. Ciro, quando vide i Lidi schierati per la battaglia, ebbe paura della loro cavalleria e dietro suggerimento del Medo Arpago operò come segue: radunò tutti i cammelli al seguito del suo esercito per il trasporto di vettovagliamenti e salmerie, li sbarazzò del carico e li fece montare da soldati equipaggiati da cavalieri; al termine di tali preparativi, ordinò a questi soldati di marciare in testa all'esercito contro la cavalleria di Creso; ordinò poi alla fanteria di avanzare dietro ai cammelli e infine alle spalle dei fanti schierò l'intera sua cavalleria. Quando tutti furono al loro posto, diede l'ordine di massacrare senza pietà ogni Lidio che trovassero sulla loro strada, ma di non uccidere Creso, anche se avesse tentato di resistere alla cattura. Queste furono le sue disposizioni: i cammelli li schierò di fronte alla cavalleria nemica perché i cavalli hanno un grande terrore dei cammelli, non riescono a sopportarne la vista e neppure a sentirne l'odore. Appunto per ciò aveva escogitato questo astuto espediente, per impedire a Creso di utilizzare la cavalleria, con la quale invece il re lidio contava di coprirsi di gloria. In effetti quando avvenne lo scontro, non appena ebbero fiutato e visto i cammelli, i cavalli retrocedettero, e Creso vide andare in fumo così tutte le sue speranze. I Lidi tuttavia non si persero di coraggio per questo, anzi, come si resero conto di ciò che stava accadendo, balzarono di sella e si gettarono come fanti contro i Persiani. Alla fine, dopo molte perdite da entrambe le parti, i Lidi presero la fuga: si asserragliarono dentro le mura della città, dove furono assediati dai Persiani.

I Persiani dunque posero il loro assedio; e Creso, credendo che tale situazione si sarebbe protratta a lungo, cominciò a fare uscire dei messaggeri dalla cinta delle mura inviandoli ai propri alleati. I messaggeri precedenti portavano la richiesta di concentrare gli aiuti a Sardi entro un termine di quattro mesi, questi invece furono mandati a sollecitare soccorsi con la massima urgenza, visto che Creso si trovava già assediato.

Fra le varie città alleate a cui mandò i suoi messaggi, c'era ovviamente anche Sparta. Proprio in quel periodo gli Spartani avevano una contesa aperta con Argo a proposito di una regione chiamata Tirea: gli Spartani avevano sottratto la Tirea al dominio di Argo e la tenevano in loro potere. Il fatto è che tutta la regione a ovest di Argo fino al capo Malea, tanto la parte continentale quanto Citera e le altre isole, era in mano degli Argivi. Gli Argivi accorsero a difesa del territorio che veniva loro sottratto: allora concordarono, dopo varie trattative, di far combattere trecento soldati per parte e di assegnare la regione ai vincitori. Il grosso dei due eserciti doveva ritirarsi nelle rispettive sedi e non assistere al combattimento per evitare che una delle due parti, vedendo i propri campioni in difficoltà, accorresse in loro aiuto. Stretto questo patto, si ritirarono; i due gruppi di soldati scelti rimasero sul campo e diedero inizio allo scontro. Si batterono con pari successo, finché, di seicento che erano, rimasero in tre: per gli Argivi Alcenore e Cromio, per gli Spartani Otriade. Al calar della notte sopravvivevano solo questi tre. I due Argivi, ritenendosi vincitori, tornarono di corsa ad Argo, invece lo Spartano Otriade spogliò delle armi i cadaveri argivi, le trasportò nel proprio campo e continuò ad occupare il suo posto di combattimento. Il giorno dopo vennero i due eserciti per informarsi sull'esito della lotta e a quel punto entrambi si dichiararono vincitori: gli Argivi sostenendo di essere rimasti in numero superiore, gli Spartani facendo notare che gli avversari erano fuggiti mentre il loro campione era rimasto sul campo e aveva spogliato i cadaveri nemici; insomma, litigando vennero alle mani e ingaggiarono una vera e propria battaglia che fu vinta dagli Spartani dopo grandi perdite da entrambe le parti. A partire da quel momento gli Argivi, che per un ben saldo costume portavano i capelli molto lunghi, si rasarono il capo e stabilirono per legge, con minaccia di maledizione, che nessun Argivo si lasciasse mai più crescere i capelli e che le donne non portassero mai più ornamenti d'oro, fino a quando non avessero riconquistato Tirea. Invece gli Spartani introdussero una norma del tutto contraria: essi, che non avevano mai portato i capelli lunghi, da quel momento se li lasciarono crescere. E si racconta che Otriade, l'unico superstite dei trecento, vergognandosi di ritornare a Sparta mentre tutti i suoi compagni erano morti, si sia tolto la vita ancora lì, nella Tirea.

Questa era la situazione degli Spartani quando giunse l'araldo di Sardi a richiedere soccorsi per Creso assediato. Nonostante tutto essi, come ebbero udito l'araldo, si mossero per organizzare i soccorsi. Quando ormai avevano terminato i preparativi e le navi erano pronte a salpare, giunse un secondo messaggio ad annunciare che le fortificazioni dei Lidi erano state espugnate e che Creso era stato fatto prigioniero. Gli Spartani, profondamente addolorati per l'accaduto, desistettero dalla spedizione.

Ecco come i Persiani espugnarono Sardi: Creso subiva ormai l'assedio da quattordici giorni, quando Ciro mandò dei cavalieri attraverso le file del proprio esercito a diffondere un annuncio: prometteva un grosso premio a chi avesse scavalcato per primo le mura nemiche. In seguito, dopo tanti inutili tentativi, quando tutti gli altri ormai avevano rinunciato, ci provò un Mardo, di nome Ireade, scalando quella parte dell'acropoli dove non era stata posta alcuna sentinella proprio perché non si temeva che da lì potesse venire conquistata; infatti su quel lato la rocca scende giù a picco e si presenta inespugnabile. Quello era anche l'unico lato intorno al quale l'antico re di Sardi Melete non aveva fatto passare il leone natogli dalla sua concubina, allorquando i Telmessi avevano sentenziato che Sardi non sarebbe mai caduta se il leone avesse compiuto il giro delle mura; Melete lo aveva condotto intorno alle fortificazioni in ogni punto in cui l'acropoli si prestava a un assalto, ma aveva escluso proprio quello in quanto scosceso e quindi, come credeva, inespugnabile: si tratta del lato della città che guarda verso il Tmolo. Ebbene il Mardo Ireade il giorno prima aveva scorto un Lidio scendere da questa parte dell'acropoli per recuperare un elmo rotolato dall'alto; notato il fatto, non se l'era scordato. Allora diede personalmente la scalata e altri Persiani lo seguirono; quando furono saliti in tanti, Sardi fu presa e l'intera città messa a sacco.

Ed ecco cosa accadde a Creso personalmente: come ho già una volta ricordato aveva un figlio che era ben dotato per il resto, ma muto. Al tempo delle sue passate fortune Creso aveva fatto di tutto per lui e fra gli altri tentativi escogitati aveva anche mandato a interrogare in proposito l'oracolo di Delfi. E la Pizia così gli aveva risposto:

Tu, che sei di stirpe lidia e re di molti popoli, stoltissimo Creso,

non augurarti di udire in casa tua la desideratissima voce

di tuo figlio. Sarebbe molto meglio che ciò non accadesse.

Parlerà per la prima volta in un giorno di sventura.

Effettivamente quando le mura furono espugnate, un Persiano che non lo aveva riconosciuto stava aggredendo Creso per ucciderlo; Creso dal canto suo, pur vedendosi assalito, non se ne curò: nella sciagura che ormai gli era toccata non gli importava di morire sotto i colpi. Ma suo figlio, il muto, quando vide che il Persiano lo stava aggredendo, per la paura e per il dolore sciolse la voce e gridò: «Uomo, non uccidere Creso!». Questa fu la prima volta; poi conservò la favella per tutta la vita.

I Persiani occuparono Sardi e fecero prigioniero Creso al quattordicesimo anno del suo regno e al quattordicesimo giorno di assedio: Creso, come aveva previsto l'oracolo, pose fine a un grande regno, il proprio. Quando i Persiani lo catturarono, lo condussero davanti a Ciro; Ciro ordinò di erigere una grande pira e vi fece salire Creso legato in catene e con lui quattordici giovani Lidi; la sua intenzione era di consacrare queste primizie a qualche dio o forse voleva sciogliere un voto; o forse addirittura, avendo sentito parlare della devozione di Creso, lo destinò al rogo curioso di vedere se qualche dio lo avrebbe salvato dal bruciare vivo. Così agiva Ciro; ma a Creso, ormai in piedi sopra la pira, nonostante la drammaticità del momento, venne in mente il detto di Solone: «Nessuno che sia vivo è felice»; e gli parvero parole ispirate da un dio. Con questo pensiero, sospirando e gemendo, dopo un lungo silenzio, pronunciò tre volte il nome di Solone. Ciro lo udì e ordinò agli interpreti di chiedere a Creso chi stesse invocando; essi gli si avvicinarono e lo interrogarono. Creso dapprima evitò di rispondere alle domande, poi, cedendo alle insistenze rispose: «Uno che avrei dato molto denaro perché fosse venuto a parlare con tutti i re». Ma poiché queste parole suonavano incomprensibili, gli chiesero ulteriori spiegazioni. Visto che continuavano a infastidirlo con le loro insistenze, raccontò come una volta si fosse recato da lui Solone di Atene e dopo aver visto le sue ricchezze le avesse disprezzate; ne riferì anche le affermazioni e narrò come poi tutto si fosse svolto secondo le parole che Solone aveva rivolto non soltanto a lui, Creso, ma a tutto il genere umano e specialmente a quanti a loro proprio giudizio si ritengono felici. Mentre Creso raccontava questi fatti, la pira, a cui era stato appiccato il fuoco, bruciava ormai tutto intorno. Ciro udì dagli interpreti il racconto di Creso e cambiò parere: pensò che lui, semplice essere umano, stava mandando al rogo, ancora vivo, un altro essere umano, che non gli era stato inferiore per fortune terrene; inoltre gli venne timore di una vendetta divina, al pensiero che nella condizione dell'uomo non vi è nulla di stabile e sicuro, e ordinò di spegnere al più presto il fuoco ormai divampante e di far scendere Creso e i suoi compagni. Ma nonostante tutti i tentativi non riuscivano ad avere ragione delle fiamme.

I Lidi raccontano che a questo punto Creso, resosi conto del cambiamento avvenuto in Ciro e vedendo che tutti si sforzavano di domare il fuoco e non ci riuscivano, invocò ad alta voce Apollo, supplicandolo di stargli accanto e di salvarlo dalla sventura in cui si trovava, se mai una delle sue offerte gli era riuscita gradita. Invocava il dio fra le lacrime quando all'improvviso il cielo, prima sereno e privo di vento, si annuvolò, scoppiò un temporale e cadde un violentissimo acquazzone che spense completamente le fiamme. Allora Ciro, resosi conto che Creso era un uomo giusto e caro agli dei, lo fece scendere dal rogo e gli chiese: «Creso, quale uomo ti convinse a marciare contro le mie terre, a essermi nemico invece che amico?» E Creso rispose: «Sovrano, ho agito così per la tua felicità e per la mia rovina: di tutto questo il colpevole fu il dio dei Greci, che mi esortò alla guerra. Perché nessuno è così folle da preferire la guerra alla pace: in pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono i padri a seppellire i figli. Ma piaceva forse a un dio che le cose andassero come sono andate».

Così Creso rispose. Ciro lo liberò dalle catene e lo fece sedere al suo fianco trattandolo con molti riguardi: Ciro lo guardava con una sorta di ammirazione e così quelli del suo seguito. Dal canto suo Creso rifletteva in silenzio, ma a un certo punto si sollevò e, vedendo che i Persiani stavano devastando la città dei Lidi, disse: «Signore, nella situazione in cui mi trovo posso dirti quello che penso o devo tacere?» Ciro lo invitò a dire senza timori ciò che voleva e allora Creso gli domandò: «Che cosa sta facendo tutta questa gente con tanto ardore?» Ciro rispose: «Saccheggia la tua città, si spartisce le tue ricchezze». Ma Creso ribatté: «No, non sta saccheggiando la mia città né le mie ricchezze, perché queste cose non appartengono più a me; quelli si stanno portando via la roba tua».

Ciro fu molto colpito dalle parole di Creso; allontanò i presenti e gli chiese come interpretasse quanto stava succedendo; e Creso rispose: «Visto che gli dei mi hanno dato a te come schiavo, mi pare giusto, se vedo più in là di te, informartene. I Persiani, oltre a essere tracotanti per natura, sono poveri; se tu dunque permetti loro di rapinare e ammassare grandi ricchezze, attenditi pure che uno di loro, quello divenuto più ricco, si ribelli contro di te. Ecco dunque, se convieni con me su quello che ti dico, come dovresti agire: disponi a guardia di tutte le porte della città degli uomini fidati i quali, sequestrando il bottino a chi esce, dichiarino che è assolutamente indispensabile offrirne a Zeus la decima parte. Così non se la prenderanno con te se gli sottrai con la forza la preda di guerra e anzi, riconoscendo che ti comporti giustamente, vi rinunceranno volentieri».

Ciro fu quanto mai lieto di udire questo consiglio, che gli parve ottimo; lo approvò senz'altro e quando ebbe dato alle sue guardie le istruzioni suggerite da Creso, si rivolse ancora a lui e gli disse: «Creso, visto che sei disposto ad agire e a parlare con la nobiltà di un re, chiedimi pure un dono, quello che vuoi, subito». Creso replicò: «Signore, mi farai un grandissimo favore se mi permetti di mandare queste catene al dio dei Greci, il dio da me più onorato, e di chiedergli se è sua abitudine ingannare chi si comporta bene verso di lui». Ciro gli domandò il motivo di questa preghiera, che rimproveri avesse da muovere al dio, e Creso gli raccontò ogni cosa, risalendo al suo antico progetto e alle risposte degli oracoli: narrò in particolare delle proprie offerte votive e di come avesse mosso guerra ai Persiani spintovi dall'oracolo. Concluse il discorso pregando nuovamente che gli fosse concesso di rivolgere al dio il suo biasimo. Ciro scoppiò a ridere e disse: «Non solo questo tu otterrai da me, ma qualunque altra cosa di cui tu senta la necessità, in qualunque occasione». Udito ciò, Creso mandò a Delfi dei Lidi con l'ordine di posare le catene sulla soglia del tempio e di chiedere al dio se non si vergognasse di aver spinto Creso con i suoi responsi a muovere guerra ai Persiani con la promessa che avrebbe abbattuto l'impero di Ciro; dovevano poi mostrare le catene e dichiarare che erano le primizie ricavate da tale impero; e inoltre dovevano chiedere se è abitudine degli dei Greci essere ingrati.

Ai Lidi che, giunti a Delfi, la interrogavano secondo le istruzioni ricevute, si dice che la Pizia abbia risposto così: «Neppure un dio può sfuggire al destino stabilito. Creso ha scontato la colpa del suo quinto ascendente, che era una semplice guardia del corpo degli Eraclidi e che, rendendosi complice della macchinazione di una donna, uccise il proprio padrone e si appropriò della sua autorità, senza averne alcun diritto. Il Lossia ha fatto il possibile perché la caduta di Sardi avvenisse sotto i figli di Creso e non durante il suo regno, ma non è stato in grado di stornare le Moire; quanto esse gli hanno concesso, il Lossia lo ha compiuto come un dono per Creso: per tre anni ha differito la presa di Sardi; lo sappia, Creso, di essere stato imprigionato con tre anni di ritardo sul tempo stabilito; e un'altra volta lo ha soccorso quando già si trovava sul rogo. Quanto all'oracolo, Creso muove rimproveri ingiusti. Perché il Lossia gli aveva predetto che, se avesse marciato contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande dominio. Di fronte a questo responso se voleva prendere una decisione saggia doveva mandare a chiedere ancora se il dio intendeva il dominio suo o quello di Ciro. Non ha afferrato le parole del dio né chiesto ulteriori spiegazioni; dunque, consideri se stesso responsabile di quanto è accaduto. E infine consultando l'oracolo non comprese neppure le parole del dio sul mulo: questo mulo era proprio Ciro. Ciro è nato, infatti, da due persone di diversa nazionalità, di più nobile origine la madre, di condizioni più modeste il padre; lei della Media e figlia di Astiage, re dei Medi, lui Persiano, suddito dei Medi: benché le fosse in tutto inferiore, sposò la sua padrona». Questa fu la risposta della Pizia ai Lidi; essi la riportarono a Sardi e la riferirono a Creso, il quale, quando l'ebbe appresa, riconobbe che la colpa era sua e non del dio.

Questa è la storia del regno di Creso e del primo assoggettamento della Ionia. Esistono in Grecia anche molti altri doni di Creso, non solo quelli già elencati: a Tebe, in Beozia, un tripode d'oro, dedicato ad Apollo Ismenio, a Efeso le vacche d'oro e la maggior parte delle colonne, a Delfi, nel tempio di Atena Pronaa, un grande scudo d'oro. Questi doni si conservano ancora ai miei tempi, altri sono andati perduti. E sono venuto a sapere che gli oggetti dedicati da Creso nel santuario dei Branchidi di Mileto sono pari, per quantità e qualità, a quelli di Delfi. Le offerte a Delfi e al tempio di Anfiarao erano costituite da oggetti suoi personali, derivanti dal patrimonio paterno; tutte le altre provenivano dal patrimonio di un nemico, il quale, prima che Creso salisse al potere, gli si era opposto caldeggiando l'ascesa al trono di Pantaleonte. Pantaleonte era figlio di Aliatte e fratello di Creso, ma non per parte di madre: Creso era figlio di Aliatte e di una donna caria, Pantaleonte di una donna ionica. Creso, quando ottenne il potere per conferimento paterno, uccise il suo oppositore facendolo torturare a morte; i suoi beni poi in base a un voto precedente li dedicò nel modo che si è detto nei templi sopra indicati. E con questo sia chiuso il discorso sulle offerte votive di Creso.

A differenza di altri paesi, la Lidia non offre molte meraviglie da descrivere, ad eccezione delle pagliuzze d'oro che vengono trasportate giù dal monte Tmolo. Possiede un'unica costruzione veramente gigantesca, la più grande del mondo dopo i monumenti dell'Egitto e della Babilonia: vi si trova la tomba di Aliatte, padre di Creso, il cui basamento è costituito da enormi blocchi di pietra; il resto è un gran tumulo di terra. Contribuirono a erigerla i mercanti della città, gli artigiani e le ragazze con i proventi della prostituzione. Sulla sommità del sepolcro ancora ai miei tempi correvano cinque pilastrini sui quali erano state incise iscrizioni per ricordare il lavoro dovuto a ciascuna categoria: da una adeguata valutazione risultava chiaro che il contributo delle ragazze era il maggiore. Bisogna sapere che tutte le figlie del popolo dei Lidi esercitano la prostituzione, mettendo così insieme la propria dote, e lo fanno fino al momento di sposarsi: e sono loro stesse a procurarsi il marito. Il perimetro del sepolcro misura sei stadi e due pletri, mentre la sua larghezza è di tredici pletri. Immediatamente accanto all'edificio si stende un vasto lago detto Lago di Gige, che i Lidi sostengono essere perenne. E questo è quanto.

Le usanze dei Lidi sono molto simili a quelle dei Greci, se si eccettua il fatto che prostituiscono le figlie. Per quanto ne sappiamo furono i primi uomini a fare uso di monete d'oro e d'argento coniate e i primi anche a esercitare il commercio al minuto. Secondo i Lidi anche i giochi praticati oggi dai Greci e dai Lidi sarebbero una loro invenzione: sostengono di averli escogitati all'epoca in cui colonizzarono la Tirrenia; ma ecco in proposito la loro versione. Sotto il regno di Atis figlio di Mane si era abbattuta su tutta la Lidia una terribile carestia: per un po' i Lidi avevano resistito, ma poi, visto che la carestia non aveva fine, cercarono di ingannare la fame inventando una serie di espedienti. E appunto allora sarebbero stati ideati i dadi, gli astragali, la palla e tutti gli altri tipi di gioco, tranne i "sassolini"; solo l'invenzione dei "sassolini" non si attribuiscono i Lidi. Ed ecco come fronteggiavano la fame con le loro scoperte: un giorno lo trascorrevano interamente a giocare per non sentire il desiderio di mangiare, il successivo lasciavano perdere i divertimenti e si cibavano. Tirarono avanti con questo sistema di vita per ben diciotto anni. Ma poiché la carestia non terminava e anzi la situazione si faceva sempre più grave, allora il re dei Lidi divise in due parti l'intera popolazione e affidò al sorteggio di decidere quale dovesse restare e quale dovesse emigrare dal paese; alla parte cui sarebbe toccato restare assegnò se stesso come re e a quella che sarebbe partita suo figlio, che si chiamava Tirreno. I Lidi designati dalla sorte a emigrare scesero fino a Smirne, costruirono una flotta e su di essa caricarono quanto possedevano di valore: salparono poi alla ricerca di una terra che procurasse loro i mezzi per vivere; oltrepassarono numerosi paesi finché giunsero fra gli Umbri: qui fondarono delle città e qui abitano a tuttoggi. E cambiarono anche il loro nome assumendo quello del figlio del re, che li aveva guidati: da allora, dal suo nome si chiamarono Tirreni. I Lidi rimasti in patria caddero poi sotto il dominio dei Persiani.

A questo punto la narrazione esige che si indaghi sulla figura di Ciro, il re che rovesciò il dominio di Creso, e sui Persiani, per spiegare in che modo arrivarono alla conquista dell'Asia intera. Fonderò il mio resoconto sulla base di quanto raccontano alcuni Persiani, quelli che non intendono magnificare la storia di Ciro, ma semplicemente attenersi alla realtà dei fatti; volendo sarei in grado di riferire altre tre versioni su Ciro. Ormai da 520 anni gli Assiri dominavano sulla parte settentrionale dell'Asia, quando i Medi, per primi, cominciarono a ribellarsi; e in qualche modo essi, battendosi contro gli Assiri per l'indipendenza, si mostrarono ben valorosi: riuscirono a scrollarsi di dosso la schiavitù e a ottenere la libertà. Dopo di che altre popolazioni seguirono l'esempio dei Medi.

Ma quando tutti i popoli del continente furono indipendenti, caddero nuovamente sotto un unico dominio. Ed ecco come. Viveva tra i Medi un uomo molto saggio, che si chiamava Deioce e che era figlio di Fraorte. Questo Deioce fu preso dal desiderio del potere assoluto e agì come segue. I Medi risiedevano in villaggi sparsi; nel proprio villaggio Deioce si segnalò, più di quanto già non fosse stimato, praticando la giustizia con sempre maggiore impegno; e agiva così mentre in tutta la Media quasi non esisteva il rispetto delle leggi e benché sapesse che l'ingiusto è ostile a chi è giusto. I Medi di quel villaggio in considerazione della sua condotta lo scelsero come loro giudice. Lui per la verità era probo e giusto perché aspirava al potere. In questo modo ottenne una notevole stima da parte dei suoi concittadini, cosicché, quando negli altri villaggi si sparse la voce che Deioce era l'unico retto nell'amministrare la giustizia, tutti quanti, prima abituati ad avere a che fare con sentenze inique, appena intesero di Deioce, furono ben lieti di accorrere da lui per dirimere le loro questioni; alla fine non si rivolgevano più a nessun altro.

La folla cresceva col passare dei giorni perché si sapeva che i processi avevano l'esito dovuto; Deioce, resosi conto di tenere ormai in pugno l'intera situazione, rifiutò di sedersi sullo scranno dove sino ad allora si era installato per dirimere le cause; e dichiarò che non avrebbe più emesso sentenze: non era vantaggioso per i suoi affari occuparsi delle questioni altrui e fare il giudice per tutta la giornata. Così, quando ruberie e illegalità nei vari villaggi furono ancora più frequenti di prima, i Medi si riunirono in assemblea e discussero fra di loro, parlando della situazione presente (a parlare, io credo, furono soprattutto gli amici di Deioce): «Nelle condizioni attuali il nostro paese non è abitabile. Nominiamo re uno di noi; il paese sarà regolato da buone leggi e noi potremo dedicarci ai nostri affari senza i rischi dovuti al disordine pubblico». E con questi ragionamenti si convinsero a darsi un re.

Quando si trattò di proporre candidati per il trono, Deioce subito venne candidato e decantato da tutti, finché decisero di eleggerlo. Deioce pretese che gli edificassero un palazzo degno della sua condizione di re e che gli conferissero un potere effettivo assegnandogli una scorta. E i Medi obbedirono: gli costruirono una reggia grande e solida nel punto del paese da lui indicato e gli consentirono di scegliersi fra tutti i Medi un corpo di guardia. Una volta assunto il potere Deioce costrinse i Medi a costruire una città e a occuparsi soprattutto di quella trascurando gli altri villaggi. Anche allora i Medi obbedirono e innalzarono una grande e ben munita fortezza, che oggi si chiama Ecbatana, costituita da una serie di mura concentriche. Essa è studiata in modo tale che ogni giro di mura superi il precedente solo per l'altezza dei bastioni. In certo qual modo anche la natura del luogo, che è collinoso, contribuì a una simile realizzazione, ma molto di più agirono le precise intenzioni dei costruttori. In tutto le mura di cinta sono sette: l'ultima racchiude la reggia e i tesori; la più ampia si estende all'incirca quanto il perimetro di Atene. I bastioni del primo giro sono bianchi, quelli del secondo neri; sono rosso porpora al terzo, azzurri al quarto e rosso arancio al quinto; i bastioni delle prime cinque cerchie sono stati tinti con sostanze coloranti, invece le ultime due hanno bastioni rivestiti rispettivamente di argento e d'oro.

Queste opere murarie Deioce le faceva costruire per sé e intorno alla propria reggia; al resto del popolo ordinò di abitare all'esterno delle mura. Ultimati i lavori, Deioce stabilì, e fu il primo a farlo, il seguente regolamento: a nessuno era consentito presentarsi direttamente al re, ogni comunicazione doveva avvenire tramite araldi, il re non poteva essere visto da nessuno; inoltre era vietato a tutti, come atto indecoroso, anche ridere e sputare in sua presenza. Cercava di rendere solenne tutto ciò che lo circondava, affinché i suoi antichi compagni, cresciuti con lui e non certo a lui inferiori per capacità personali o per nobiltà di nascita, non finissero, vedendolo, per irritarsi contro di lui e non gli cospirassero contro; anzi non vedendolo lo avrebbero sempre considerato diverso da loro.

Dopo aver introdotto queste norme di comportamento ed essersi rafforzato con l'esercizio del potere, fu poi un inflessibile guardiano della giustizia. Gli facevano pervenire per iscritto i termini di una questione, all'interno della reggia, e Deioce da lì giudicava le cause che gli venivano sottoposte ed emetteva le sue sentenze. Così si regolava per i processi, ma prese anche altri provvedimenti: se veniva a sapere che qualcuno aveva violato le leggi, lo convocava e gli infliggeva una pena commisurata alla colpa commessa; a tale scopo aveva osservatori e informatori sparsi in tutta la regione da lui governata.

Deioce unificò e governò soltanto il popolo dei Medi, il quale si compone di varie tribù: Busi, Paretaceni, Strucati, Arizanti, Budi, Magi. Queste sono le tribù dei Medi.

Figlio di Deioce era Fraorte, il quale alla morte del padre (avvenuta dopo un regno durato 53 anni) ereditò il potere. Quando lo ebbe nelle sue mani non si accontentò di regnare soltanto sui Medi, anzi compì una spedizione militare contro i Persiani che furono i primi a subire il suo attacco e i primi a diventare sudditi dei Medi. In seguito, disponendo di queste due popolazioni, forti entrambe, intraprese la conquista dell'Asia intera, avanzando da una nazione all'altra, fino a che entrò in guerra con gli Assiri, o meglio con quelle genti assire che abitavano Ninive e che una volta avevano avuto il dominio su tutti: a quell'epoca invece erano isolate in seguito alla defezione dei loro alleati, ma godevano pur sempre di una ottima situazione interna. Nel corso di quella spedizione Fraorte perì, dopo 22 anni di regno, e con lui fu distrutta la maggior parte dell'esercito. |[continua]|

 

|[LIBRO I, 3]|

Deceduto Fraorte gli successe Ciassare, figlio suo e nipote di Deioce. Si racconta che Ciassare fosse ancor più valoroso, e molto, dei suoi antenati. Fu anche il primo a dividere in corpi le truppe dell'Asia e a schierare separatamente i soldati armati di lancia, quelli armati di arco e i cavalieri; prima di lui stavano tutti mescolati in grande confusione. Era lui quello che combatteva contro i Lidi quando durante la battaglia il giorno si oscurò per farsi notte e fu lui a unificare sotto il proprio scettro tutta l'Asia al di là del fiume Alis. Raccolse tutte le forze di cui era a capo e marciò contro Ninive con l'intenzione di vendicare il padre e di distruggere la città. Aveva sconfitto in battaglia gli Assiri e stava assediando Ninive quando sopraggiunse un grosso esercito di Sciti, guidato dal re degli Sciti Madie, figlio di Protothie; essi erano penetrati in Asia dopo aver scacciato dall'Europa i Cimmeri e si erano spinti fino alla regione dei Medi proprio inseguendo i Cimmeri in fuga.

Un corriere equipaggiato alla leggera impiega trenta giorni di cammino per arrivare dalla palude Meotide al fiume Fasi e alla Colchide; poi dalla Colchide non occorre molto tempo per trasferirsi nella terra dei Medi: solo una popolazione si frappone fra i due territori, i Saspiri, superati i quali si è subito nella Media. Comunque gli Sciti non penetrarono da quella parte, ma seguirono un percorso più settentrionale e assai più lungo, tenendosi sulla sinistra della catena del Caucaso. I Medi si scontrarono con gli Sciti, ma furono sconfitti in battaglia e persero la loro egemonia: gli Sciti occuparono tutta l'Asia.

Da lì si diressero verso l'Egitto, ma quando giunsero nella Siria Palestina il re d'Egitto Psammetico andò loro incontro e con donativi e suppliche li distolse dall'avanzare più oltre. Essi poi, durante la loro ritirata, toccarono la città di Ascalona, in Siria, e mentre la maggior parte di loro proseguì senza causare danni, alcuni, rimasti indietro, saccheggiarono il tempio di Afrodite Urania. Questo santuario, a quanto risulta dalle informazioni che ho ricevuto, è il più antico di tutti quelli dedicati ad Afrodite; anche il tempio di Cipro trasse origine da lì, come raccontano gli abitanti stessi dell'isola, e quello di Citera l'hanno costruito dei Fenici che erano per l'appunto nativi della Palestina. Sugli Sciti che saccheggiarono il tempio di Ascalona e sui loro discendenti la dea scatenò la 'malattia femminile': sono gli Sciti stessi a dare questa spiegazione per la loro malattia, e del resto chi si reca in Scizia può constatare in che stato si trovino coloro che gli Sciti chiamano «Enarei».

Gli Sciti furono padroni dell'Asia per 28 anni e ridussero tutto in uno stato disastroso con le loro violenze e la loro incuria. Da un lato esigevano dai singoli i tributi che avevano ad essi imposto, dall'altro, indipendentemente dai tributi, percorrevano il paese saccheggiando tutto quello che trovavano. Ciassare e i Medi riuscirono a eliminarne un gran numero ospitandoli e facendoli ubriacare; in tal modo i Medi riottennero il loro predominio, assoggettarono le stesse popolazioni di prima ed espugnarono Ninive (in che modo lo spiegherò in un'altra parte del mio racconto), sottomettendo tutta l'Assiria a eccezione del territorio di Babilonia. Più tardi Ciassare morì, dopo quaranta anni di regno, compresi quelli del predominio scita.

Nel regno gli succedette il figlio Astiage. Astiage ebbe una figlia che chiamò Mandane; e una volta sognò che Mandane orinava con tanta abbondanza da sommergere la sua città e inondare l'Asia intera. Sottopose questa visione all'attenzione di quei Magi che interpretano i sogni e si spaventò molto quando essi gli spiegarono ogni particolare. Più avanti, quando Mandane fu in età da marito, non volle concederla in moglie a nessun pretendente medo, per degno che fosse: per la paura, sempre viva in lui, di quel sogno, la diede a un Persiano, che si chiamava Cambise: lo trovava di buona casata, di carattere tranquillo e lo giudicava molto al di sotto di un Medo di normale condizione.

Durante il primo anno di matrimonio di Cambise e Mandane, Astiage ebbe una seconda visione: sognò che dal sesso della figlia nasceva una vite e che la vite copriva l'Asia intera. Dopo questa visione e consultati gli interpreti, fece venire dalla Persia sua figlia, che era vicina al momento del parto, e quando arrivò la mise sotto sorveglianza, intenzionato a eliminare il bambino che lei avrebbe partorito. Perché i Magi interpreti dei sogni gli avevano spiegato, in base alla visione, che il figlio di Mandane avrebbe regnato al posto suo. Perciò Astiage prese tutte le precauzioni e quando Ciro nacque chiamò Arpago, un parente, il più fedele dei Medi e suo uomo di fiducia in ogni circostanza, e gli disse: «Arpago, bada di eseguire con grande attenzione l'incarico che ora ti affido e di non ingannarmi; se abbracci la causa di altri col tempo te ne dovrai pentire. Prendi il bambino partorito da Mandane, portalo a casa tua e uccidilo; poi fa sparire il cadavere come preferisci». E Arpago rispose: «Mio re, tu non vedesti mai nulla in me, io credo, che non ti fosse gradito e anche in avvenire starò bene attento a non commettere mai alcuna mancanza nei tuoi confronti. E se ora vuoi che questo sia fatto, è mio dovere per quanto dipende da me, servirti pienamente».

Dopo questa risposta gli fu consegnato il bambino, già avvolto nei panni funebri; Arpago si avviò verso casa piangendo. Quando vi giunse riferì a sua moglie tutte le parole di Astiage, ed essa gli chiese: «E tu ora che cosa hai intenzione di fare?» Le rispose: «Non certo di obbedire agli ordini di Astiage, neppure se sragionerà o se impazzirà peggio di quanto già ora deliri: non mi associerò al suo disegno e non eseguirò per lui un simile delitto. Non ucciderò il bambino per molte ragioni, perché è mio parente e perché Astiage è vecchio e non ha figli maschi; se dopo la morte di questo bambino il potere passerà a Mandane, di cui ora lui fa uccidere il figlio servendosi di me, cos'altro dovrò aspettarmi se non il più grave dei pericoli? Per la mia incolumità è necessario che questo bambino muoia, ma a ucciderlo dovrà essere uno di Astiage e non uno dei miei».

Disse così e immediatamente inviò un messo a un mandriano di Astiage che a quanto sapeva si trovava nei pascoli più adatti al suo disegno, su montagne popolate da numerose bestie feroci: si chiamava Mitradate e viveva con una donna, sua compagna di schiavitù, che si chiamava Spaco e il cui nome in greco suonerebbe Cino, dato che i Medi chiamano «spaco» appunto il cane. Le falde dei monti su cui questo mandriano pascolava il suo bestiame si trovano a nord di Ecbatana in direzione del Ponto Eusino; infatti la Media in questa direzione, verso i Saspiri, è assai montuosa, elevata e coperta di boscaglie, mentre il resto del paese è tutto pianeggiante. Il bovaro, dunque, convocato, si presentò con sollecitudine e Arpago gli disse: «Astiage ti ordina di prendere questo bambino e di andarlo a esporre sul più solitario dei monti affinché muoia al più presto. E mi ha ordinato di avvisarti che se non lo uccidi e in qualche maniera lo risparmi ti farà morire tra i più terribili supplizi. Io ho il compito di controllare che il bambino venga esposto».

Udito ciò il mandriano prese il bambino, se ne tornò indietro per la stessa strada e giunse al suo casolare. Per l'appunto anche sua moglie era in attesa di partorire un figlio da un giorno all'altro e, forse per opera di un dio, lo diede alla luce durante il viaggio in città del marito. Erano preoccupati entrambi, l'uno per l'altro, lui in apprensione per il parto della moglie, e lei perché non era cosa abituale che Arpago mandasse a chiamare suo marito. Quando lui ritornò, fu la moglie, come se avesse disperato di rivederlo, a chiedergli per prima per quale ragione Arpago lo avesse chiamato con tanta fretta. E lui rispose: «Moglie mia, sono andato in città e ho visto e udito cose che vorrei non aver visto e che non fossero mai accadute ai nostri padroni: tutta la casa di Arpago era in preda al pianto e io vi entrai sconvolto. Appena dentro ti vedo un neonato, lì in terra, che si agita e piange con indosso un vestitino ricamato e ornamenti d'oro. Arpago come mi vede mi ordina di prendere il bambino, di portarlo via con me e di andarlo poi a esporre sulle montagne più infestate dalle fiere, dicendo che questi sono ordini di Astiage e aggiungendo molte minacce nel caso io non li esegua. E io l'ho preso con me credendo che fosse figlio di qualche servo. Non potevo immaginare da chi era nato. Ma mi sembravano un po' strani quegli ornamenti d'oro e quei tessuti preziosi e il pianto generale che regnava nella casa di Arpago. Più avanti lungo la strada vengo a sapere tutta la verità dal servo incaricato di accompagnarmi fuori le mura e di consegnarmi il neonato: è il bambino di Mandane, la figlia di Astiage, e di Cambise, figlio di Ciro, e Astiage ordina di ucciderlo! Ora eccolo qua».

Il mandriano diceva queste parole e intanto svolgeva il fagotto per mostrare il bambino. Quando lei vide il neonato così sano e bello, scoppiò a piangere e afferrando le ginocchia del marito lo scongiurava di non esporlo, in nessuna maniera. Ma lui sosteneva di non poter fare altrimenti; sarebbero venuti degli spioni di Arpago a controllare, e lui sarebbe stato condannato a una morte orribile se non avesse eseguito gli ordini. Non riuscendo a persuadere il marito la donna tentò una seconda strada e gli disse: «Visto che non riesco a persuaderti a non esporlo, tu almeno fai come ti dico io, se proprio è assolutamente inevitabile che la si veda esposta, questa creatura: devi sapere che anch'io ho partorito, ma ho dato alla luce un bambino morto; prendilo ed esponilo e noi invece alleviamoci il nipotino di Astiage come se fosse nostro. In questo modo non si accorgeranno della tua colpa verso i padroni e noi non avremo preso una brutta decisione: il nostro bambino morto avrà una sepoltura da re e l'altro non perderà la vita».

Al mandriano parve assai saggia in quella circostanza la proposta della moglie e immediatamente la mise in opera. Affidò alla moglie il bambino che aveva portato con sé per ucciderlo, quindi prese il cadaverino del proprio figlio e lo pose nel cesto dentro cui aveva trasportato l'altro; lo vestì con gli arredi regali, lo portò sul più solitario dei monti e ve lo lasciò. Due giorni dopo l'esposizione del bambino, il mandriano tornò in città dopo aver lasciato lassù di guardia uno dei suoi aiutanti; si recò in casa di Arpago e si dichiarò pronto a mostrare il corpo senza vita del neonato. Arpago mandò le più fedeli delle sue guardie del corpo a constatare per lui il fatto: ma quello che seppellirono fu il figlioletto del mandriano. E così mentre l'uno fu seppellito, la moglie del pastore tenne con sé l'altro, che più tardi fu chiamato Ciro e lo allevò, dandogli un altro nome e non quello di Ciro.

Quando il ragazzo aveva dieci anni si verificò un episodio che rivelò la sua identità: giocava nel villaggio dove erano anche gli stazzi del bestiame, giocava per strada con dei coetanei; e giocando i bambini lo avevano eletto loro re, lui che per tutti era «il figlio del mandriano». E lui distribuiva le mansioni: voi dovete costruirmi un palazzo, voi essere le mie guardie; tu sarai «l'occhio del re», a te tocca l'incarico di portare i messaggi: insomma a ognuno assegnava il suo compito. Ma uno dei bambini che giocavano con lui era il figlio di Artembare, uomo di grande prestigio fra i Medi, e non volle obbedire agli ordini di Ciro; allora Ciro comandò agli altri ragazzi di arrestarlo e, quando essi ebbero obbedito, punì assai duramente il ribelle facendolo fustigare. Appena lasciato libero, il ragazzo, ancora più infuriato al pensiero di aver subito un trattamento indegno della sua condizione, si recò in città a lamentarsi col padre dell'affronto ricevuto da Ciro, naturalmente non parlando di Ciro (non poteva essere questo il nome) ma del «figlio del mandriano» di Astiage. Artembare, adirato com'era, si recò da Astiage conducendo con sé il figlioletto e si lamentò di aver subito dei mostruosi oltraggi: «Signore, - disse - ecco la violenza insolente che abbiamo patito da parte di un tuo servo, dal figlio di un bovaro»; e mostrava la schiena del figlio.

Astiage udì e vide; e desiderando vendicare il bambino per riguardo ad Artembare, fece chiamare il mandriano e il suo ragazzo. Quando furono entrambi presenti, Astiage, guardando in faccia Ciro, disse: «Dunque tu, che sei figlio di un pover'uomo, hai osato trattare così ignominiosamente il figlio di un uomo che è il primo nella mia corte?» E il ragazzo rispose: «Signore, quello che gli ho fatto è stato secondo giustizia: i ragazzi del villaggio, lui compreso, mentre giocavamo mi elessero loro re ritenendomi il più adatto a questo titolo. Ora, tutti gli altri bambini eseguivano i miei ordini, lui invece non li voleva ascoltare e non ne teneva il minimo conto, fino a quando ha avuto la giusta punizione. Se dunque, per questo, mi merito un castigo, sono qui a tua disposizione».

Mentre il bambino dava questa risposta poco per volta Astiage lo riconosceva: gli pareva che i lineamenti del viso fossero molto simili ai propri, troppo libero il tono della risposta; e anche l'epoca dell'esposizione corrispondeva all'età del ragazzo. Impressionato da questi particolari, per un po' rimase senza parola; poi, ripresosi a stento, aprì bocca per congedare Artembare e per poter interrogare da solo a solo il mandriano: «Artembare - disse - agirò in maniera che tu e tuo figlio non possiate lamentarvi». Mandò via Artembare e diede ordine ai servi di condurre Ciro in un'altra stanza. Quando il mandriano rimase solo, Astiage gli chiese dove avesse trovato quel bambino e chi glielo avesse consegnato. Rispose che era figlio suo e che la donna che lo aveva dato alla luce viveva ancora con lui. Ma Astiage ribatté che non era una buona idea quella di candidarsi ad atroci supplizi, e intanto faceva cenno alle guardie di arrestarlo; mentre veniva condotto alla tortura confessò ogni cosa. A cominciare dall'inizio raccontò tutto per filo e per segno e giunse infine a pregare e a implorare il perdono.

Dopo che il mandriano gli ebbe rivelato la verità, Astiage non si curò più di lui: ormai era enormemente adirato con Arpago e ordinò alle sue guardie di andarlo a chiamare. Quando Arpago fu al suo cospetto, Astiage gli chiese: «Arpago, che sorte hai riservato al bambino che ti consegnai, e che era nato da mia figlia?» E Arpago, vedendo lì nella sala il mandriano, non tentò più la via della menzogna, per non correre il rischio di venire smentito e disse: «Mio re, appena ebbi in mano il bambino studiai come regolarmi secondo la tua volontà e nello stesso tempo non risultare colpevole verso di te, non essere un omicida agli occhi di tua figlia e ai tuoi. Decisi di agire così: chiamai il mandriano qui presente e gli consegnai il neonato, dicendogli che eri tu a ordinare di ucciderlo; e con queste parole io non mentivo perché proprio tu avevi dato quelle disposizioni. Glielo consegnai precisando che doveva esporlo su di un monte deserto e restare lì di guardia fino a quando fosse morto, e aggiunsi le più varie minacce nel caso che non eseguisse gli ordini. Quest'uomo eseguì quanto gli era stato comandato e il bambino morì, allora io mandai i più fedeli dei miei eunuchi e attraverso di loro constatai l'accaduto e feci seppellire il neonato. Ecco come andarono le cose, mio signore, e questa è la sorte che toccò al bambino».

Arpago quindi disse tutta la verità e Astiage, nascondendo la rabbia che lo divorava per quanto era successo, per prima cosa ripeté ad Arpago la versione dei fatti come l'aveva appresa dal mandriano; poi alla fine del racconto disse che il bambino era vivo e che era bene che tutto fosse finito così. «Ero molto addolorato - disse - al pensiero di ciò che avevo fatto a questo bambino e mi pesava il rancore di mia figlia. Ora visto che tutto è andato per il meglio, manda qui tuo figlio presso il ragazzo appena arrivato e poi, visto che ho intenzione di offrire un sacrificio di ringraziamento per l'avvenuta salvezza agli dei cui spetta questo onore, vieni a cena da me».

Udito ciò Arpago si prosternò e si avviò verso casa contento che la sua colpa avesse avuto un esito positivo e di essere stato invitato a cena con tanti buoni auspici. Appena entrò in casa si affrettò a inviare a corte il proprio unico figlio, che aveva circa tredici anni, ordinandogli di andare da Astiage e di fare tutto quello che lui comandasse. Poi, tutto lieto, andò a raccontare alla moglie quanto era accaduto. Ma Astiage, quando il figlio di Arpago fu da lui, lo uccise, lo squartò in tanti pezzi e ne fece cucinare le carni una parte lessate e una parte arrosto e le tenne pronte. Venne l'ora della cena: si presentarono tutti i convitati fra i quali Arpago. Davanti agli altri e allo stesso Astiage furono imbandite mense ricolme di carne di montone, invece ad Arpago furono servite tutte le carni del figlio, tranne la testa e le mani e i piedi, che stavano a parte celate in un canestro. Quando Arpago si sentì sazio di cibo, Astiage gli domandò se le portate erano state di suo gusto e Arpago rispose che gli erano piaciute molto; allora dei servi, precedentemente istruiti, gli misero davanti la testa, le mani e i piedi del ragazzo ancora coperte e standogli di fronte lo invitarono a scoperchiare il piatto e a servirsi liberamente. Arpago obbedì, scoperchiò il piatto, vide i resti del figlio: li vide, ma rimase impassibile e riuscì a dominarsi. Astiage gli chiese se riconosceva l'animale delle cui carni si era cibato e lui rispose che lo riconosceva e che per lui andava bene ogni cosa che il re facesse. Dopo aver così risposto, raccolse i resti delle carni e se ne tornò a casa. E lì, credo, li ricompose e seppellì.

E questa fu la punizione che Astiage inflisse ad Arpago. Nei confronti di Ciro, rifletté un po' e poi mandò a chiamare gli stessi Magi che a suo tempo gli avevano interpretato il sogno; quando furono davanti a lui, Astiage chiese loro di ripetergli la spiegazione della visione, ed essi ribadirono che il bambino era destinato a regnare se fosse rimasto in vita e non fosse morto prima. Il re ribatté: «Il bambino c'è ed è vivo e mentre viveva in campagna i bambini del suo villaggio lo hanno eletto re: lui si è comportato esattamente come un vero sovrano: ha creato guardie del corpo, custodi delle porte, messaggeri e tutto il resto, e ha regnato. E ora tutto questo, secondo voi, a che cosa porta?» I Magi risposero: «Se il ragazzo è vivo e ha regnato senza un disegno predisposto, allora per quanto lo riguarda puoi stare tranquillo e rallegrarti: non regnerà una seconda volta. Infatti è già successo che alcuni dei nostri vaticinii si siano risolti in poca cosa e che il contenuto dei sogni abbia perso ogni sua consistenza». E Astiage concluse: «Anch'io, Magi, sono quasi del tutto convinto che il sogno si è già realizzato: questo bambino ha già ricevuto il titolo di re, e dunque non rappresenta più per me un pericolo. Tuttavia esaminate per bene la questione e aiutatemi a prendere una decisione che garantisca la massima sicurezza per la mia casa e per voi stessi». Al che i Magi risposero: «Sovrano, anche per noi è molto importante che il potere rimanga ben saldo nelle tue mani, perché se passa a questo ragazzo, che è Persiano, cade nelle mani di un'altra nazione e noi che, siamo Medi, diventeremo schiavi e non godremo del minimo prestigio presso i Persiani, essendo stranieri. Se invece rimani re tu, che sei nostro concittadino, abbiamo anche noi la nostra parte di potere e riceviamo da te grandi onori. Perciò è assolutamente nostro interesse vegliare su di te e sul tuo regno; e ora, se vedessimo qualche motivo per avere paura, te ne avviseremmo senz'altro. Ma ora, poiché il sogno si è risolto in una cosa da nulla, da parte nostra abbiamo fiducia e ti consigliamo di fare altrettanto. Questo ragazzo mandalo lontano dai tuoi occhi, fra i Persiani, dai suoi genitori».

Astiage fu lieto di udire questo consiglio, fece chiamare Ciro e gli disse: «Ragazzo, io sono stato ingiusto con te a causa di un sogno risultato vano, e tu sei vivo perché così ha voluto il tuo destino. Ora sii contento di andare fra i Persiani; io ti farò scortare fino là. Là troverai un padre e una madre ben diversi da Mitradate, il bovaro, e da sua moglie».

Così disse e congedò Ciro. Ad accogliere Ciro di ritorno nella casa di Cambise c'erano i suoi genitori i quali, quando seppero chi era, lo salutarono con grande affetto, perché lo credevano morto subito a suo tempo; e continuavano a chiedergli come fosse riuscito a salvarsi. E lui raccontò che fino a poco prima era vissuto nell'errore ignorando ogni cosa e che solo lungo il viaggio era venuto a conoscenza di tutte le sue vicissitudini; si era sempre creduto figlio di un mandriano di Astiage, invece, dopo la partenza da Ecbatana, aveva appreso tutta la verità dai suoi accompagnatori. Raccontò di essere stato allevato dalla moglie del mandriano e non smetteva di profondersi in lodi nei suoi confronti: e in tutti i suoi discorsi non parlava che di Cino. I genitori tennero a mente questo nome e, per dare agli occhi dei Persiani una coloritura miracolosa alla avvenuta salvezza del fanciullo, misero in giro la voce che Ciro, esposto, era stato allevato da una cagna. Di qui ebbe origine questa leggenda.

Poi Ciro si fece adulto ed era il più coraggioso fra i suoi coetanei e il più benvoluto. Arpago faceva di tutto per ingraziarselo mandandogli doni, desideroso com'era di vendicarsi di Astiage: non vedeva come da solo, essendo un comune cittadino, avrebbe potuto vendicarsi, ma vedeva Ciro crescere e cercava di farselo alleato, paragonando i gravi torti da entrambi subiti. Già prima si era dato da fare in questo senso: sfruttando il comportamento odioso di Astiage nei confronti dei Medi, Arpago, avvicinando ciascuno dei maggiorenti medi, tentava di convincerli che occorreva deporre Astiage e offrire il regno a Ciro. Compiute queste manovre, quando si sentì pronto, Arpago volle esporre il suo piano a Ciro, il quale però viveva in Persia; le strade erano sotto controllo e perciò, in mancanza di altre soluzioni, ricorse a un espediente. Si servì di una lepre alla quale aprì il ventre senza rovinarne il pelo, ma lasciandolo intatto; nel ventre nascose un messaggio in cui descriveva il suo piano; ricucì il ventre della lepre che consegnò, insieme con una rete, come se fosse un cacciatore, al più fidato dei suoi servitori; lo inviò in Persia con l'ordine di consegnare la lepre a Ciro personalmente e di invitarlo a sventrare la bestia di sua mano e quando nessuno fosse presente.

Così dunque fu fatto e Ciro, avuta la lepre, la squarciò; vi trovò dentro la lettera, la prese e la lesse. Il contenuto del messaggio suonava così: «Figlio di Cambise, gli dei ti guardano con favore, altrimenti non saresti mai giunto a tanta fortuna; e allora vendicati di Astiage, il tuo assassino: se fosse dipeso dai suoi desideri tu saresti morto, se sei vivo lo devi agli dei e a me. Credo che tu sia a conoscenza ormai da un pezzo di quello che hanno fatto a te e di quello che ho subito io da parte di Astiage, per non averti ucciso ma consegnato al mandriano. Tu dunque, se mi darai ascolto, potrai regnare su tutta la terra su cui ora regna Astiage. Convinci i Persiani a ribellarsi e marcia contro la Media. E se io sarò nominato da Astiage generale in capo contro di te, tutto ciò che vorrai è già tuo. E così sarà pure se viene designato un altro dei Medi più illustri. Essi saranno i primi a ribellarsi ad Astiage e a passare dalla tua parte e faranno di tutto per abbatterlo. Considera che tutto qui è pronto e agisci, ma agisci in fretta».

Apprese queste notizie, Ciro pensò al modo più accorto per convincere i Persiani alla rivolta e riflettendo trovò il più opportuno e lo mise in opera: scrisse quanto serviva al suo scopo in una lettera e convocò una assemblea dei Persiani. Quindi aprì la lettera e scorrendola dichiarò che Astiage lo nominava capo dei Persiani: «Ora, Persiani, - disse - vi invito a presentarvi qui ciascuno con una falce». Proprio questo fu l'ordine di Ciro. Le tribù persiane sono numerose; Ciro convocò e indusse a ribellarsi ai Medi solo quelle a cui fanno capo poi tutti i Persiani: Pasargadi, Marafi e Maspi. Fra questi i più nobili sono i Pasargadi, ai quali appartiene anche la famiglia degli Achemenidi, da dove provengono i re discendenti di Perseo. Altri Persiani sono i Pantialei, i Derusiei, i Germani; si tratta di tribù tutte dedite all'agricoltura, le rimanenti invece sono nomadi: i Dai, i Mardi, i Dropici, i Sagarti.

Quando furono tutti presenti con in mano la falce, allora Ciro ordinò loro di andare a falciare prima di sera un terreno che si trovava lì in Persia, tutto coperto di sterpi ed esteso per un quadrato di 18 o 20 stadi di lato. I Persiani compirono la fatica ordinata e Ciro diede loro una seconda disposizione: dovevano presentarsi la mattina seguente dopo aver fatto il bagno. Nel frattempo Ciro radunò tutte le greggi di capre e di pecore e tutte le mandrie di suo padre, le fece macellare e cucinare, pronto ad ospitare la massa di Persiani, e vi aggiunse vino e cibarie, tra i più squisiti. La mattina dopo Ciro sistemò su di un prato i Persiani venuti e offrì loro un grande banchetto. Quando ebbero finito di mangiare Ciro domandò se preferivano il trattamento attuale o quello del giorno prima. Ed essi risposero che c'era una gran bella differenza: il giorno prima gli erano toccati solo guai, al presente invece solo cose belle. Ciro colse al volo queste parole e, manifestando la sua intenzione, disse: «Persiani, dipende proprio da voi: se volete darmi ascolto vi attendono questi e molti altri piaceri e non conoscerete più fatiche da schiavi; se invece non volete obbedirmi vi attendono innumerevoli fatiche pari a quella di ieri. Seguite me, dunque, e sarete liberi. Io credo di essere nato col divino soccorso della sorte per condurre con le mie mani questa impresa e ritengo che voi siate uomini per nulla inferiori ai Medi, né in guerra né in nessun altro campo. Questa è la realtà dei fatti e ora voi ribellatevi contro Astiage al più presto».

I Persiani, avendo trovato un capo, furono ben lieti di lottare per la libertà: già da tempo non tolleravano più di essere comandati dai Medi. Astiage, come seppe dei preparativi di Ciro, mandò un messaggero a convocarlo, ma Ciro ordinò al messaggero di riferire ad Astiage che sarebbe arrivato da lui prima di quando Astiage stesso avrebbe desiderato. Udita tale risposta, Astiage mise in armi tutti i Medi e nominò loro comandante Arpago, dimenticando, quasi fosse accecato da un dio, tutto il male che gli aveva fatto. Quando i Medi scesero in campo e si scontrarono con i Persiani, alcuni di loro combatterono, quanti non erano a parte della congiura, altri passarono dalla parte dei Persiani, i più scelsero la strada della viltà e si dispersero.

Non appena Astiage venne a sapere che l'esercito medo si era vergognosamente dissolto, esclamò con tono di minaccia per Ciro: «Nonostante tutto Ciro non potrà rallegrarsene!» Disse così e per prima cosa fece impalare quei Magi interpreti di sogni che gli avevano consigliato di risparmiare Ciro, poi armò tutti i Medi rimasti in città, giovani e vecchi. Li guidò fuori delle mura e con loro attaccò i Persiani, ma fu sconfitto: Astiage stesso fu catturato e perse i Medi che aveva fatto scendere in campo.

Allora Arpago piazzatosi di fronte ad Astiage, ormai prigioniero, lo derideva e lo beffeggiava, con parole che potessero ferirgli il cuore: in particolare, in cambio del banchetto che gli aveva offerto con le carni del figlio, gli chiedeva come trovasse la schiavitù dopo essere stato re. Astiage guardandolo in faccia gli domandò se considerava opera sua l'impresa di Ciro; al che Arpago rispose che era stato lui a scrivere a Ciro, e che quindi riteneva a ragione opera sua quell'impresa. Allora Astiage gli dimostrò a rigor di logica che era l'uomo più imbecille e più colpevole del mondo: il più imbecille perché potendo diventare re lui stesso, se tutto davvero era accaduto grazie a lui, aveva rimesso il potere nelle mani di un altro; e il più colpevole perché a causa di una cena aveva reso schiavi i Medi: se proprio doveva affidare a qualcun altro il regno e non tenerlo nelle proprie mani sarebbe stato più giusto trasmetterlo a un Medo e non a un Persiano; ora invece i Medi senza averne alcuna colpa da padroni erano diventati schiavi, mentre i Persiani, che prima erano schiavi dei Medi, erano diventati ora i loro padroni.

Astiage dunque fu spodestato dal trono dopo 35 anni di regno e i Medi, a causa della sua crudeltà, piegarono il capo davanti ai Persiani; essi avevano mantenuto per 128 anni la sovranità sui territori asiatici dell'alto corso dell'Alis meno il periodo del predominio scita. Molto più tardi si pentirono del loro antico comportamento e insorsero contro Dario; ma dopo essersi ribellati, conobbero la sconfitta sul campo e vennero nuovamente assoggettati. I Persiani e Ciro, sollevatisi contro i Medi al tempo di Astiage, furono da allora i padroni dell'Asia. Ciro non si accanì ulteriormente contro Astiage e lo tenne presso di sé fino a quando morì. Così Ciro nacque e fu allevato e così ottenne il regno: in seguito, come ho già raccontato, sottomise Creso, che aveva dato lui l'avvio alle ingiustizie; e quando lo ebbe sottomesso estese la propria egemonia su tutta l'Asia.

Io so per averlo constatato di persona che presso i Persiani sono in vigore le seguenti usanze: non è loro consuetudine erigere statue degli dei o templi o altari e anzi accusano di stoltezza quanti lo fanno; a mio parere ciò si spiega perché non hanno mai pensato, come i Greci, che gli dei abbiano figura umana. Essi di solito offrono sacrifici a Zeus salendo sulle montagne più alte; e chiamano Zeus l'intera volta del cielo. Sacrificano al sole, alla luna, alla terra, al fuoco, all'acqua e ai venti. Queste sono le sole divinità cui dedicano offerte fin dalle origini; più tardi hanno appreso dagli Assiri e dagli Arabi a compiere sacrifici anche a Urania. Gli Assiri chiamano questa dea Afrodite Militta, gli Arabi la chiamano Alilàt e i Persiani Mitra.

Ed ecco come si svolge presso i Persiani il rito di sacrificio agli dei or ora ricordati: quando devono fare la loro offerta non costruiscono altari e non accendono il fuoco; non praticano la libagione, non usano flauti, né bende sacre né grani d'orzo salati. Chi voglia compiere sacrifici a uno di quegli dei conduce la vittima in un luogo puro, si lega intorno alla tiara una coroncina, di mirto per lo più, e invoca il dio. Non è lecito pregando chiedere vantaggi per sé personalmente: chi invoca del bene lo fa per tutti i Persiani e per il re; lui stesso ovviamente risulta compreso fra tutti i Persiani. Quando poi ha tagliato a pezzetti le carni della vittima e le ha bollite, le depone tutte su un tappeto d'erba la più tenera possibile (per lo più trifoglio) da lui precedentemente preparato; dopo che le ha ben sistemate, un Mago lì presente canta una teogonia, come essi stessi definiscono la formula dell'invocazione; si noti che essi non compiono mai un sacrificio se non è presente un Mago. Il sacrificante si trattiene un po' di tempo: quindi si riporta via le carni che usa poi come meglio gli aggrada.

Fra tutti i giorni dell'anno è loro costume onorare particolarmente quello del compleanno: in questa circostanza ritengono giusto mangiare con più abbondanza che negli altri giorni: i più benestanti si fanno servire un vitello, un cavallo, un cammello e un asino cotti al forno tutti interi: i poveri, invece, si cucinano animali domestici di taglia minore. In generale non hanno molti piatti principali, ma usano molto i contorni, distribuiti per tutto il pasto; per questo i Persiani dicono che i Greci hanno ancora appetito quando smettono di mangiare, perché non si fanno servire dopo il pranzo nessuna leccornia: altrimenti, aggiungono, non smetterebbero di mangiare. Per il vino i Persiani hanno una vera passione. A loro è vietato vomitare e orinare di fronte ad altri; e rispettano accuratamente questa norma, ma hanno l'abitudine di discutere le questioni più serie in stato di ubriachezza; le decisioni eventualmente prese vengono riproposte il giorno seguente, da sobri, dal padrone della casa in cui si trovano a discutere: se le approvano anche da sobri le confermano altrimenti le lasciano cadere. Se la prima decisione avviene quando sono lucidi, la ridiscutono da ubriachi.

Quando due Persiani si incontrano per strada allora si può stabilire se sono di pari condizione: infatti in questo caso invece di salutarsi, si baciano sulla bocca; se però uno dei due è di condizione appena inferiore, si baciano sulle guance; se il divario di rango è notevole allora l'inferiore si getta ai piedi dell'altro e si prosterna. Dopo se stessi, fra tutti stimano in primo luogo i popoli insediati più vicini a loro, poi quelli subito oltre e così via, proporzionando la stima alla distanza: si considerano da ogni punto di vista gli uomini migliori, mentre gli altri, pensano, si attengono alla virtù in misura inversamente proporzionale: e perciò quelli che abitano più lontano da loro sarebbero i peggiori. All'epoca della sovranità dei Medi esisteva un criterio gerarchico fra le varie popolazioni: i Medi dominavano su tutti i popoli e in particolare sui più vicini; questi a loro volta sui propri confinanti e così via; è lo stesso criterio in base al quale i Persiani attribuiscono la loro stima: ogni popolazione prevaleva sull'altra dominandola ed esercitando su di essa un diritto di tutela.

Quello persiano è il popolo più di ogni altro disposto ad accogliere usanze straniere: tanto è vero che indossano vestiti medi, trovandoli più belli dei propri, e in guerra portano corazze egiziane. Quando vengono a sapere di qualche usanza piacevole, da qualunque parte provenga, subito la adottano: per esempio hanno imparato dai Greci a praticare l'amore con gli adolescenti. Ogni Persiano può sposare legalmente molte donne e ancora più numerose sono le concubine che si procura.

Dimostra una autentica virtù virile chi, oltre ad essere un buon combattente, mette al mondo molti figli. Annualmente il re invia un premio a chi ne ha messi al mondo di più; si ritiene che il numero sia forza. Ai loro bambini, da quando hanno cinque anni fino ai venti, insegnano tre sole cose: cavalcare, tirare con l'arco e dire la verità. Prima dei cinque anni il bambino non si presenta mai al cospetto del padre ma vive assieme alle donne. Fanno questo perché, se il bambino muore nel periodo dell'allevamento, il padre non ne debba soffrire.

Io approvo questa usanza e ne approvo anche un'altra: per una sola colpa neppure il re può mettere a morte qualcuno; e nessun altro Persiano può recare un danno irreparabile a uno dei suoi schiavi per una sola colpa; solo quando si è ben riflettuto e si è stabilito che i torti sono più numerosi e più rilevanti dei servigi, allora si lascia libero campo alla collera. Sostengono che nessuno ancora ha ucciso il proprio padre o la propria madre: esaminando tutti i casi di questo tipo già verificatisi, si giungerebbe inevitabilmente a concludere che gli assassini erano figli supposti o adulterini; essi ritengono inverosimile che un autentico genitore possa morire per mano del proprio figlio.

Presso i Persiani delle cose che non è lecito fare non è lecito neppure parlare. La cosa più vergognosa è considerata la menzogna; secondariamente avere debiti, e ciò per molte e svariate ragioni ma soprattutto perché chi ha un debito, dicono, necessariamente si troverà anche a mentire. Il cittadino colpito dalla lebbra o dal morbo bianco si tiene lontano dalla città ed evita il contatto con gli altri Persiani. Secondo loro soffre di queste malattie chi ha commesso una colpa nei confronti del Sole. Scacciano dal paese ogni straniero affetto da tali piaghe e molti pure le colombe bianche, adducendo la medesima ragione. Evitano di orinare e di sputare in un fiume e neppure vi si sciacquano le mani o permettono che un altro lo faccia; per i fiumi hanno un enorme rispetto religioso.

Ed ecco un'altra particolarità, sfuggita agli stessi Persiani ma non a noi: i loro nomi, che sono adeguati alle qualità fisiche e a una idea di magnificenza, finiscono tutti con la stessa lettera, quella chiamata «san» dai Dori e «sigma» dagli Ioni. Se si indaga in questo senso, si trova che i nomi dei Persiani terminano tutti nella stessa maniera, senza eccezioni.

Tutte queste notizie posso fornirle con assoluta sicurezza, perché mi derivano da personale esperienza. Invece quanto si dice circa il trattamento dei cadaveri è avvolto in un alone di mistero e non è certo: pare che il cadavere di un Persiano non venga seppellito prima di essere stato straziato da un cane o da un uccello; so con certezza che almeno i Magi si comportano così, perché lo fanno apertamente. Comunque i Persiani cospargono di cera il cadavere e lo inumano. I Magi sono molto diversi dagli altri uomini e in particolare dai sacerdoti egiziani; questi infatti ritengono empietà uccidere degli esseri viventi, tranne quelli destinati al sacrificio rituale, invece i Magi uccidono con le loro mani qualsiasi animale tranne il cane e l'uomo e lo fanno con grande impegno eliminando indistintamente formiche e serpenti e altri animali terrestri o volatili. Ma lasciamo pure questa usanza come stava quando ebbe origine e riprendiamo il filo del nostro racconto.

Gli Ioni e gli Eoli, non appena i Lidi furono sottomessi dai Persiani, mandarono a Sardi dei messaggeri, presso Ciro: desideravano essere sudditi di Ciro alle stesse condizioni di cui godevano sotto Creso. Ciro ascoltò le loro proposte; poi cominciò a raccontare un aneddoto: narrò di un suonatore di flauto che aveva visto in mare dei pesci e che suonava il suo flauto convinto di attirarli verso la terra ferma: deluso nelle sue speranze prese una rete, la lanciò, trascinò a riva una grande quantità di pesci; e guardandoli guizzare disse loro: «Smettetela di danzare: quando io suonavo il flauto non siete mica voluti uscir fuori a ballare!» Ciro raccontò questo aneddoto agli Ioni e agli Eoli perché gli Ioni, tempo prima, invitati da Ciro a ribellarsi contro Creso, non lo avevano ascoltato, mentre allora, a cose fatte, erano pronti a seguirlo. Chiaramente Ciro rispose in questo modo perché serbava rancore. Quando gli Ioni udirono la risposta riferita nelle varie città, tutti fortificarono le proprie mura e si riunirono a Panionio; tutti tranne i Milesi, i soli con cui Ciro aveva stipulato un accordo alle stesse condizioni di Creso. Gli altri decisero di comune accordo di mandare messaggeri a Sparta con una richiesta di soccorso.

Questi Ioni, quelli a cui appartiene il Panionio, di tutti gli uomini a nostra conoscenza sono quelli che hanno edificato le loro città nei luoghi migliori del mondo per bellezza di cielo e condizioni climatiche; a nord e a sud della Ionia , come a oriente e a occidente, la situazione è assai differente: più a nord c'è la morsa del freddo e della pioggia, più a sud del caldo e della siccità. Questi Ioni non parlano la stessa lingua, bensì quattro varietà di dialetto. Mileto è la città più meridionale, poi vengono Miunte e Priene: tutte si trovano nella Caria e adoperano lo stesso dialetto. In Lidia si trovano Efeso, Colofone, Lebedo, Teo, Clazomene e Focea, che non si servono dello stesso dialetto delle città sopra nominate, ma che usano fra loro la stessa parlata. Restano ancora tre città ioniche, di cui due situate su isole, Samo e Chio, e la terza, Eritre, sul continente. A Chio e a Eritre parlano lo stesso dialetto, i Sami invece ne usano uno proprio. Ed ecco quindi i quattro diversi caratteri linguistici.

Fra gli Ioni i Milesi non avevano motivo di preoccupazione grazie all'accordo stipulato con Ciro e quelli delle isole stavano tranquilli perché i Fenici non erano sudditi dei Persiani e perché i Persiani non erano marinai. Gli Ioni d'Asia si separarono dagli altri Ioni per una semplice ragione; se già tutta la gente greca era in una condizione di debolezza, gli Ioni costituivano, fra tutti, il gruppo più debole e il meno importante: e infatti, se si esclude Atene, non c'era nessuna città degna di nota. Perciò gli altri di quel ceppo e gli Ateniesi non gradivano l'appellativo di Ioni e cercavano di evitarlo; e mi pare che ancora adesso molti di loro si vergognino di tale denominazione. Invece queste dodici città ne erano orgogliose e si costruirono un santuario riservato a loro che chiamarono Pan-Ionio; e decisero di non consentire l'accesso al tempio a nessuna altra gente ionica (del resto mai nessuno chiese di accedervi, ad eccezione degli abitanti di Smirne).

Allo stesso modo i Dori dell'attuale territorio della Pentapoli, lo stesso che una volta si chiamava Esapoli, si guardano bene dall'accettare nel loro santuario Triopico gli altri Dori confinanti, anzi da sempre escludono da ogni partecipazione al tempio anche quelli di loro che ne abbiano violato le regole. Ai giochi in onore di Apollo Triopio avevano posto anticamente come premio per i vincitori dei tripodi di bronzo, che però non potevano essere portati via da chi se li fosse guadagnati, ma dovevano essere dedicati al dio, lì sul posto. Una volta accadde che un uomo di Alicarnasso, di nome Agasicle, dopo aver vinto non rispettò la norma: si portò via il tripode e lo fissò al muro di casa sua. Per questa ragione le cinque città, cioè Lindo, Ialiso, Camiro, Cos, e Cnido, vietarono l'accesso al tempio a tutti gli abitanti di Alicarnasso, sesta città dell'Esapoli. Tale fu il castigo che imposero loro.

A mio parere gli Ioni formarono dodici città e non vollero aggiungerne altre perché anche prima, quando vivevano nel Peloponneso, erano divisi in dodici regioni, esattamente come adesso il territorio degli Achei, che a suo tempo scacciarono gli Ioni, è suddiviso in dodici parti: Pellene è la prima, a partire da Sicione, poi Egira ed Ege, in cui scorre il Crati, dal flusso perenne e dal quale ha preso nome l'omonimo fiume italiano, poi Bura ed Elice, in cui ripararono gli Ioni sconfitti in battaglia dagli Achei; poi ancora Egio, Ripe, Patre, Fare, Oleno, in cui scorre il grande fiume Piro, nonché Dime e Tritea, l'unica città situata nell'interno.

Questi sono i dodici distretti degli Achei, che una volta appartenevano agli Ioni. Ed ecco perché anche gli Ioni d'Asia costruirono dodici città: è una grande sciocchezza definire costoro più Ioni degli altri Ioni o di nascita più elevata: una parte non piccola di loro sono Abanti, provenienti dall'Eubea, che non hanno niente a che vedere con gli Ioni, neppure per il nome; e inoltre a loro si sono mescolati dei Mini di Orcomeno, dei Cadmei, dei Driopi, dei Focesi dissidenti; e Molossi, Pelasgi d'Arcadia, Dori di Epidauro e molte altre popolazioni. Quelli partiti dal Pritaneo di Atene, che ritenevano di essere i più nobili fra gli Ioni, non portarono con sé le donne nella nuova colonia, ma si procurarono mogli in Caria, uccidendone i padri. A causa di questo delitto tali donne si imposero come regola con tanto di giuramento, e la trasmisero alle figlie, di non mangiare mai in compagnia dei mariti e di non chiamarli mai per nome; e ciò perché avevano ucciso i loro padri e mariti e figli e, dopo, se le erano sposate. Questo è quanto avvenne a Mileto.

Come re una parte degli Ioni d'Asia si scelse i Lici discendenti di Glauco figlio di Ippoloco, una parte i Cauconi di Pilo discendenti di Codro figlio di Melanto, e altri si scelsero re di entrambe le stirpi. E visto che sono tanto affezionati al loro nome, più di tutti gli altri Ioni, consideriamoli dunque gli Ioni puri. In realtà sono Ioni tutti quelli che vengono da Atene e che celebrano la festa delle Apaturie; la celebrano tutti tranne gli abitanti di Efeso e di Colofone, gli unici a non celebrarla col pretesto di un omicidio.

Il Panionio è un luogo sacro di Micale, rivolto verso nord e dedicato per comune accordo dagli Ioni a Posidone Eliconio. Micale è un promontorio del continente che si stende verso occidente in direzione dell'isola di Samo, sul quale gli Ioni delle varie città si radunavano per celebrare la loro festa, chiamata Panionie. Non solo le feste degli Ioni, ma proprio tutte le feste della Grecia intera hanno un nome terminante con la medesima lettera, come succede per i nomi dei Persiani.

Queste sono le città ioniche; le eoliche sono Cuma, detta anche Friconide, Larissa, Neontichos, Temno, Cilla, Nozio, Egiroessa, Pitane, Egee, Mirina, Grinia: ecco le undici antiche città eoliche; un'altra loro città, Smirne, fu staccata ad opera degli Ioni; infatti erano dodici anche gli insediamenti eolici sul continente. Gli Eoli si trovarono a colonizzare una regione ancora più fertile di quella degli Ioni, ma che quanto a clima non regge il paragone.

Gli Eoli persero Smirne così. Avevano accolto a Smirne dei cittadini di Colofone sconfitti in una lotta intestina e perciò messi al bando dalla patria. Più tardi i profughi di Colofone aspettarono che gli abitanti di Smirne celebrassero fuori delle mura una festa in onore di Dioniso e, chiudendone le porte, si impadronirono della città. Poiché tutti gli Eoli erano accorsi a difendere gli interessi degli abitanti di Smirne, vennero a un accordo: gli Eoli avrebbero abbandonato la città se gli Ioni avessero restituito almeno le loro masserizie. Così fu fatto: le altre undici città si divisero gli ex abitanti di Smirne, conferendo loro la piena cittadinanza.

Queste insomma sono le città eoliche continentali, eccetto quelle situate sull'Ida, che vanno considerate a parte. Di quante si trovano nelle isole cinque si dividono il territorio di Lesbo (la sesta città abitata di Lesbo, Arisba, la ridussero in schiavitù i Metimni, benché fossero del medesimo sangue); a Tenedo vi è una sola città, una sola anche nelle cosiddette Cento Isole. Gli abitanti di Lesbo e di Tenedo non avevano nulla da temere, esattamente come le popolazioni ioniche delle isole. Alle altre città eoliche piacque di seguire la sorte degli Ioni, dovunque questi le avessero condotte.

I messi degli Ioni e degli Eoli quando giunsero a Sparta (tutto fu fatto in gran fretta) scelsero a parlare per tutti il rappresentante di Focea, il cui nome era Pitermo. Costui indossò una veste di porpora affinché gli Spartiati, informati del particolare, accorressero in numero maggiore; davanti a loro parlò a lungo, chiedendo aiuto per gli Ioni. Ma gli Spartani non gli diedero retta e decisero di non inviare soccorsi agli Ioni. I messaggeri degli Ioni si ritirarono. Gli Spartani, dopo averli allontanati, inviarono tuttavia degli uomini, su di una pentecontere, immagino come osservatori delle vicende di Ciro e della Ionia. Arrivati a Focea, da lì questi uomini inviarono a Sardi il più stimato di loro, che si chiamava Lacrine, perché riferisse a Ciro un messaggio degli Spartani: Ciro non doveva toccare nessuna città della Grecia, perché essi non l'avrebbero tollerato.

Si dice che quando l'araldo ebbe riferito il suo messaggio Ciro chiese ai Greci che erano presenti che uomini fossero e quanti questi Spartani per mandargli un simile avvertimento; ottenuta risposta, si rivolse all'ambasciatore degli Spartiati: «Io non ho mai avuto paura di gente che nella propria città, al centro, ha riservato uno spazio, in cui riunirsi per ingannarsi a vicenda con dei giuramenti. Questa gente, se resto vivo e in buona salute, non avrà da ciarlare delle disgrazie degli Ioni, ma delle proprie». Ciro pronunciò queste parole sprezzanti nei confronti di tutti i Greci perché essi compiono i loro acquisti e le loro vendite sulla piazza principale adibita a mercato; invece i Persiani non hanno l'abitudine di servirsi di piazze per il mercato, anzi non hanno mercati del tutto. In seguito Ciro affidò Sardi al Persiano Tabalo, e al Lido Pattia il compito di trasportare l'oro di Creso e dei Lidi; poi partì alla volta di Ecbatana, portando con sé Creso e quasi senza più tener conto, inizialmente, dell'esistenza degli Ioni. Aveva problemi con Babilonia, i Battri, i Saci e gli Egiziani: contro costoro decise di guidare personalmente l'esercito, contro gli Ioni invece di inviare un altro generale.

Appena Ciro si fu allontanato da Sardi, Pattia sollevò i Lidi contro Tabalo e contro di lui: scese verso il mare e, visto che disponeva di tutto l'oro di Sardi, assoldò mercenari e convinse le popolazioni della costa a schierarsi con lui. Poi mosse il suo esercito contro Sardi e strinse d'assedio Tabalo che si asserragliò sull'acropoli.

Ciro apprese questi fatti mentre era in viaggio e disse a Creso: «Creso, come andranno a finire tutte queste faccende? I Lidi a quanto pare non smetteranno di procurarmi e di procurarsi dei problemi. Mi chiedo se non sarebbe molto meglio ridurli definitivamente in schiavitù: io ho l'impressione di essermi comportato come uno che abbia ucciso il padre e risparmiato i figli. Perché ho catturato e mi porto via te, che sei più che un padre per i Lidi, e la città l'ho rimessa nelle loro stesse mani; e poi mi meraviglio se mi si ribellano». Ciro diceva quanto pensava e Creso, temendo che volesse distruggere Sardi, gli rispose: «Sire, il tuo discorso è logico, però non abbandonarti assolutamente all'ira, non distruggere una antica città che non ha alcuna colpa delle vicende passate e presenti; tutto quanto è accaduto in passato fu opera mia e con la mia persona ne sconto la pena. Ciò che accade ora è colpa di Pattia, a cui tu hai affidato Sardi, e sia lui, allora, a pagarne le conseguenze. Perdona i Lidi e fai in modo che non possano più ribellarsi e costituire un pericolo per te. Mandagli l'ordine di non tenere armi da guerra, imponigli di indossare tuniche sotto le vesti normali e di calzare coturni; invitali a insegnare ai loro figli a suonare la cetra e gli altri strumenti musicali e a fare i mercanti. In questo modo, Signore, tu li vedrai presto trasformati da uomini in donne e non dovrai più temere una loro ribellione».

Creso suggeriva queste misure perché le trovava per i Lidi preferibili al rischio di essere venduti come schiavi; sapeva bene che senza proporre un valido rimedio non avrebbe dissuaso Ciro dalla sua idea; e aveva paura che i Lidi, quand'anche l'avessero scampata per il momento, prima o poi segnassero la propria condanna ribellandosi ai Persiani. Ciro soddisfatto dei suggerimenti lasciò cadere la sua ira e disse a Creso che lo aveva convinto. Convocò il Medo Mazare e lo incaricò di ordinare ai Lidi quanto gli aveva indicato Creso: e in più gli ingiunse di ridurre in schiavitù quanti altri avevano marciato su Sardi con i Lidi e di condurre davanti a lui Pattia, a ogni costo, e vivo.

Ciro diede queste disposizioni mentre era in viaggio; quindi ripartì verso le sedi persiane; Pattia, informato che non lontano c'era un esercito in marcia contro di lui, atterrito, corse a rifugiarsi a Cuma. Mazare il Medo spinse contro Sardi tutta la parte dell'esercito di Ciro di cui disponeva e, non trovandovi più gli uomini di Pattia, per prima cosa costrinse i Lidi a eseguire gli ordini di Ciro; e fu proprio in seguito a queste imposizioni che i Lidi cambiarono completamente il loro sistema di vita. Poi Mazare inviò messaggeri a Cuma con l'ordine di consegnare Pattia; i cittadini di Cuma stabilirono di rimettersi, per consiglio, al dio dei Branchidi; là esisteva da lungo tempo un oracolo al quale tutti gli Ioni e gli Eoli erano soliti ricorrere: questo luogo si trova nel territorio di Mileto sopra il porto di Panormo.

Gli abitanti di Cuma mandarono i loro incaricati presso i Branchidi e chiesero come avrebbero dovuto regolarsi nei confronti di Pattia per fare cosa gradita agli dei; questo chiedevano, e il responso fu di consegnare Pattia ai Persiani. Quando la risposta del dio fu riferita ai Cumani, essi si apprestarono alla estradizione. Già il popolo si era deciso in tal senso, quando uno dei più ragguardevoli cittadini, Aristodico figlio di Eraclide, non credendo al responso e convinto che gli incaricati non dicessero la verità, trattenne i Cumani dal farlo fino a quando altri messi, tra cui lo stesso Aristodico, non fossero andati una seconda volta a consultare il dio sulla sorte di Pattia.

Quando poi questa delegazione giunse presso i Branchidi, fu Aristarco fra tutti a interrogare l'oracolo, dicendo: «Signore, presso di noi venne il lido Pattia, come supplice, fuggendo la morte violenta che gli riservavano i Persiani; ora essi lo reclamano ordinando ai Cumani di consegnarlo. E noi, pur temendo la potenza persiana, non abbiamo osato consegnarlo fino a quando non fosse fermamente chiaro il tuo responso su ciò che dobbiamo fare». Questa fu la sua domanda; e il dio diede nuovamente la stessa risposta, esortandoli a consegnare Pattia ai Persiani. Di fronte a queste parole Aristodico agì come aveva premeditato: girando intorno al tempio, scacciò i passeri e tutte le altre specie di uccelli che vi avevano nidificato. E mentre lui faceva così dai penetrali del tempio, si dice, si levò una voce all'indirizzo di Aristodico: «Come osi fare questo, - diceva - maledetto sacrilego? Scacci i miei supplici dal mio tempio?» Aristodico, per nulla turbato, rispose: «Signore, e così tu assicuri il tuo aiuto ai supplici tuoi, e poi ordini ai Cumani di consegnare il loro?» E l'oracolo ribatté: «Sì lo ordino, perché voi, comportandovi da empi, possiate andare in rovina più presto: così non verrete più qui in futuro a chiedere all'oracolo se sia il caso di consegnare dei supplici».

Questa risposta fu riportata ai Cumani; quando la conobbero, essi decisero di mandare Pattia a Mitilene, non volendo né riconsegnarlo, e quindi rovinarsi, né tenerlo presso di loro, e quindi subire un assedio. Mazare mandò dei messaggi agli abitanti di Mitilene, i quali si dichiararono pronti a consegnare Pattia in cambio di un adeguato riscatto; non so precisarne con esattezza l'entità, perché poi la cosa andò in fumo. Infatti, appena i Cumani appresero le intenzioni dei Mitilenesi, mandarono subito una imbarcazione a Lesbo e trasferirono Pattia a Chio. Là a consegnarlo furono gli abitanti dell'isola che lo strapparono via dal tempio di Atena protettrice della città: ottennero in compenso il territorio di Atarneo, che si trova nella Misia, di fronte a Lesbo. I Persiani, dopo aver ricevuto Pattia, lo tenevano sotto sorveglianza con il proposito di consegnarlo a Ciro. Per un periodo di tempo non breve nessun cittadino di Chio offrì ad alcun dio grani d'orzo di Atarneo né preparò focacce col frumento proveniente da là: tutti i prodotti di quella regione erano esclusi da qualsiasi sacro rito.

E così i Chii consegnarono Pattia; Mazare più tardi marciò contro le popolazioni che avevano partecipato all'assedio di Tabalo: ridusse in schiavitù la cittadinanza di Priene e percorse l'intera pianura del Meandro abbandonandola ai saccheggi del suo esercito, e lo stesso fece con Magnesia. Subito dopo cadde ammalato e morì.

Gli succedette alla guida dell'esercito Arpago, anche lui Medo, quello stesso Arpago che il re dei Medi Astiage aveva invitato all'orribile banchetto e che poi aveva aiutato Ciro a impadronirsi del regno. Costui, nominato da Ciro comandante dell'esercito, quando arrivò nella Ionia, cominciò a espugnare le città servendosi di terrapieni: ogni volta, infatti, costringeva i nemici dentro le loro mura, faceva ammassare enormi quantitativi di terra contro gli spalti e poi li assaltava.

La prima città della Ionia di cui si impadronì fu Focea. Questi Focei furono i primi Greci a compiere lunghe navigazioni: furono loro a scoprire l'Adriatico, la Tirrenia, l'Iberia e la regione di Tartesso: non navigavano con grandi navi da carico ma con delle penteconteri. Giunti a Tartesso strinsero amicizia con il re locale, che si chiamava Argantonio e che fu signore di Tartesso per ottanta anni, vivendo in tutto per 120 anni. I Focesi divennero così amici suoi che egli li invitò prima ad abbandonare la Ionia e a stabilirsi nel suo paese, ovunque volessero; in seguito, non essendo riuscito a convincerli e avendo saputo com'era cresciuta la potenza dei Medi, regalò denaro ai Focesi perché potessero munire di fortificazioni la loro città; e il regalo fu molto generoso, tanto è vero che il perimetro delle mura di Focea si sviluppa per non pochi stadi; ed esse sono tutte costituite da grandi blocchi di pietra ben connessi tra loro.

Fu così che i Focei costruirono le loro mura; Arpago fece avanzare il suo esercito e pose l'assedio; ma gli sarebbe bastato, proclamò, che i Focei abbattessero anche uno soltanto dei bastioni del muro e consacrassero anche una sola casa. I Focei, non tollerando la schiavitù, dissero che volevano discutere tra loro per un giorno; poi avrebbero dato la risposta; per l'intanto invitarono Arpago a ritirare l'esercito da sotto le mura per il periodo di tempo in cui deliberavano. Arpago rispose di sapere bene quanto stavano per fare: tuttavia avrebbe permesso loro di consultarsi. E dunque mentre Arpago portava il suo esercito lontano dalle mura, i Focesi misero in mare delle penteconteri, vi imbarcarono le donne, i bambini e tutte le loro masserizie e vi aggiunsero le statue e le offerte votive che poterono trarre dai templi: a eccezione degli oggetti in bronzo e in pietra e dei dipinti caricarono tutto il resto, si imbarcarono sulle navi e fecero rotta alla volta di Chio. I Persiani occuparono una Focea completamente deserta.

I Focei pensavano di acquistare le isole chiamate Enusse ma i Chii non gliele vollero vendere per paura che diventassero un emporio e che la loro isola venisse tagliata fuori dai commerci; di conseguenza si diressero a Cirno. Nell'isola di Cirno venti anni prima in base ad un oracolo avevano fondato una città chiamata Alalia. A quell'epoca ormai Argantonio era morto. Nel dirigersi verso Cirno, in un primo momento, fecero una puntata fino a Focea dove uccisero la guarnigione persiana a cui Arpago aveva affidato il presidio della città; poi, compiuta questa impresa, pronunciarono durissime maledizioni contro chi di loro avesse abbandonato la spedizione. Inoltre gettarono in mare un blocco rovente di ferro e giurarono che non avrebbero fatto ritorno a Focea prima che questo blocco di ferro fosse riemerso a galla. Ma mentre puntavano su Cirno più di metà di loro fu presa dalla nostalgia e dal rimpianto della città e delle abitudini del loro paese; e così violarono i giuramenti e tornarono indietro voltando la prua verso Focea. Quelli che rispettarono il giuramento proseguirono il viaggio prendendo il largo dalle isole Enusse.

Giunti a Cirno, per cinque anni coabitarono con le genti che vi erano arrivate prima di loro e vi edificarono dei templi. Ma visto che derubavano e depredavano tutte le popolazioni limitrofe, Tirreni e Cartaginesi di comune accordo mossero contro di loro, entrambi con una flotta di sessanta navi. Anche i Focesi equipaggiarono delle imbarcazioni, in numero di sessanta, e affrontarono la flotta avversaria nelle acque del mare chiamato di Sardegna. Si scontrarono in una battaglia navale e ai Focesi toccò una vittoria cadmea; infatti delle loro navi quaranta furono affondate e le restanti venti risultarono inutilizzabili, avendo i rostri torti all'indietro. Allora navigarono fino ad Alalia, imbarcarono le donne, i bambini e tutto ciò che le navi potevano trasportare e abbandonarono Cirno dirigendosi verso Reggio. |[continua]|

 

|[LIBRO I, 4]|

I Cartaginesi e i Tirreni si spartirono gli uomini delle navi affondate: gli abitanti di Agilla, ai quali toccò il gruppo più numeroso, li condussero fuori città e li lapidarono. Più tardi ad Agilla ogni essere che passava accanto al luogo in cui giacevano i Focei lapidati diventava deforme, storpio o paralitico, fossero pecore o bestie da soma o uomini, senza distinzione. Allora gli Agillei, desiderosi di rimediare alla propria colpa, si rivolsero all'oracolo di Delfi. E la Pizia impose loro un obbligo che adempiono ancora oggi: infatti offrono imponenti sacrifici e bandiscono giochi ginnici ed equestri in onore dei morti. Ed ecco cosa toccò a questi Focei; quelli invece fuggiti verso Reggio, muovendo di là si impadronirono di una città nella terra di Enotria, città oggi chiamata Iela; essi la colonizzarono dopo aver appreso da un uomo di Posidonia che la Pizia ordinando loro di «edificare a Cirno» non intendeva riferirsi all'isola, bensì all'eroe. Così dunque andarono le cose riguardo la città ionica di Focea.

Vicende molto simili toccarono anche agli abitanti di Teo. Infatti, quando Arpago espugnò le mura di Teo col sistema del terrapieno, si imbarcarono tutti sulle loro navi e si allontanarono facendo rotta verso la Tracia; qui colonizzarono la città di Abdera. Prima di loro Abdera era stata colonizzata da Timesio di Clazomene, ma senza trarne vantaggi perché i Traci lo avevano cacciato: ora è onorato come eroe dai cittadini di Teo stanziatisi ad Abdera.

Focei e Tei furono i soli fra gli Ioni ad abbandonare la loro patria non potendo tollerare la schiavitù; gli altri Ioni, eccetto gli abitanti di Mileto, combatterono contro Arpago, come gli Ioni poi emigrati, e dimostrarono il loro valore battendosi ciascuno per la propria patria; ma, sconfitti e catturati, restarono ciascuno nel proprio paese obbedendo agli ordini che ricevevano. Invece i Milesi, come ho già ricordato, avevano stretto un patto giurato con Ciro e vissero in pace. Così, per la seconda volta, la Ionia fu asservita. Non appena Arpago si fu impadronito della Ionia continentale, gli Ioni delle isole, terrorizzati da quegli avvenimenti, si consegnarono nelle mani di Ciro.

Nonostante le loro avversità gli Ioni si radunavano ugualmente al Panionio e io so che una volta Biante di Priene espose a tutti un vantaggiosissimo progetto, che avrebbe consentito loro, se lo avessero seguito, di raggiungere il più alto grado di benessere fra i Greci: li esortava a salpare, tutti uniti in un'unica flotta, via dalla Ionia, a raggiungere la Sardegna e a fondarvi un'unica città di tutti gli Ioni; in questo modo, liberati dalla schiavitù, avrebbero vissuto felicemente, insediati nella più grande di tutte le isole e dominando su altre popolazioni. Invece, se fossero rimasti nella Ionia, non vedeva più - diceva - speranza di libertà. Questa fu l'idea di Biante di Priene anche se esposta agli Ioni ormai dopo la loro disfatta. Ma prima della disfatta, sarebbe risultata utile anche l'idea di Talete di Mileto, la cui famiglia era di antica origine fenicia: aveva suggerito di istituire un Consiglio della Ionia, di dargli sede a Teo (visto che Teo si trova nel centro della Ionia), e che le altre città, pur restando abitate, venissero considerate alla stregua di demi.

Tali progetti Biante e Talete esposero agli Ioni. Arpago dopo aver sottomesso la Ionia compì una spedizione contro la Caria, la Caunia e la Licia, conducendo con sé anche Ioni ed Eoli. Di questi popoli i Cari erano giunti in continente provenienti dalle isole: anticamente erano stati sudditi di Minosse e col nome di Lelegi avevano abitato le isole: non erano costretti a pagare alcun tributo, per quanto indietro nel tempo io possa risalire con le mie informazioni; però, ogni volta che Minosse lo richiedeva, gli fornivano gli equipaggi per le navi. E dal momento che Minosse aveva sottomesso una regione assai ampia e aveva fortuna in guerra, il popolo dei Cari era quello tenuto, allora, in maggior prestigio fra tutti. Ai Cari vanno attribuite tre invenzioni di cui poi si servirono i Greci: per primi insegnarono a fissare dei pennacchi sugli elmi, scolpirono figure sui loro scudi e applicarono all'interno di questi delle imbracciature. Fino ad allora i soldati che abitualmente si armavano di scudo lo reggevano senza imbracciature, muovendolo per mezzo di cinghie di cuoio portate intorno al collo e alla spalla sinistra. In seguito, molto tempo dopo, i Cari furono scacciati dalle isole ad opera dei Dori e degli Ioni e così giunsero nel continente. Questo è quanto dei Cari raccontano i Cretesi; ma dal canto loro i Cari non sono d'accordo in proposito: essi ritengono di essere originari del continente e di avere avuto sempre il medesimo nome di adesso. Esibiscono come prova l'antico tempio di Zeus Cario a Milasa che appartiene anche ai Misi e ai Lidi, in quanto parenti dei Cari; perché Lido e Miso, dicono, erano fratelli di Caro. Misi e Lidi accedono a questo santuario mentre tutte le popolazioni d'altra origine etnica, pur avendo adottato la lingua dei Cari, ne sono escluse.

A me pare che autoctone siano le popolazioni della Caunia, le quali invece sostengono di provenire da Creta. I Cauni assunsero la lingua dei Cari (o i Cari quella dei Cauni, non saprei dirlo con esattezza), ma le loro usanze sono assai diverse da quelle degli altri popoli, Cari compresi. Il loro massimo divertimento consiste nell'andare a bere in compagnia: lo fanno a gruppi secondo l'età e l'amicizia, uomini, donne, bambini. Poiché avevano edificato santuari di divinità straniere, più tardi, quando cambiarono parere e decisero di venerare soltanto gli dei dei loro padri, tutti i Cauni adulti si armarono e si diressero in corteo sino ai confini di Calinda, percuotendo l'aria con le lance e dicendo che stavano scacciando gli dei stranieri.

Queste sono le loro usanze; quanto ai Lici, essi sono nativi di Creta; anticamente l'intera isola di Creta era occupata da popolazioni barbare. A Creta scoppiò una contesa per il regno fra Sarpedonte e Minosse, figli di Europa; qundo riuscì a prevalere nella lotta per il potere Minosse scacciò Sarpedonte e i suoi partigiani. Allontanati dal loro paese essi giunsero in Asia nella regione Miliade: infatti la regione ora abitata dai Lici anticamente era la Miliade, e i suoi abitanti a quell'epoca si chiamavano Solimi. Fino a quando Sarpedonte fu il loro re essi conservarono l'antico nome di Termili, col quale tuttora i Lici vengono chiamati dalle popolazioni confinanti. Ma quando da Atene giunse fra i Termili, presso Sarpedonte, Lico figlio di Pandione, scacciato anche lui dal fratello Egeo, col tempo, dal nome di Lico, essi furono detti Lici. Hanno usanze in parte cretesi in parte carie; ce n'è una sola tipicamente loro e che non ha assolutamente uguali presso altri popoli: derivano il nome dalla madre e non dal padre: quando uno chiede a un altro come si chiami, quello si qualifica col matronimico e precisa la sua genealogia secondo la linea materna. E se una donna con piena cittadinanza s'unisce a uno schiavo, i suoi figli sono considerati di alto lignaggio. Se invece è un uomo ad avere una moglie straniera o una concubina, fosse pure il più illustre dei cittadini, i suoi figli non godono del minimo diritto.

I Cari furono asserviti da Arpago senza aver compiuto alcuna impresa significativa, né i Cari, dico, né tutti quei Greci che abitano nel loro paese. In effetti anche altre popolazioni vi sono insediate, per esempio i coloni spartani di Cnido: il loro paese, che si chiama Triopio, si protende tutto sul mare a partire dal Chersoneso Bibassio: l'intero territorio, eccetto una piccola parte, è circondato dalle acque ed è compreso tra il golfo Ceramico a nord e il mare di Sime e di Rodi a sud: in quel tratto, che misura in larghezza circa cinque stadi, i cittadini di Cnido volevano scavare un canale al tempo in cui Arpago sottometteva la Ionia; l'intenzione era di trasformare in isola il loro paese, tutto compreso al di qua dell'istmo: infatti l'istmo che volevano tagliare segna proprio la linea di confine tra la Cnidia e il continente. Gli Cnidi lavoravano con grande impiego di braccia, ma visto che rompendo la roccia gli operai si ferivano più del normale (e quindi forse per opera di un dio) in tutte le parti del corpo e specialmente agli occhi, inviarono degli incaricati a Delfi per chiedere cosa li avversava. E la Pizia, come essi raccontano, vaticinò come segue in trimetri giambici:

Non fortificate l'istmo e non scavate un canale.

Zeus avrebbe fatto un'isola se l'avesse voluto.

Considerato il responso della Pizia, gli Cnidi interruppero lo scavo e senza colpo ferire si consegnarono nelle mani di Arpago, che stava avanzando in forze contro di loro.

Sopra Alicarnasso, nell'interno, abitavano i Pedasei, alla cui sacerdotessa di Atena cresce una lunghissima barba ogni volta che a loro o ai loro confinanti sta per accadere qualcosa di spiacevole: tre volte questo fenomeno si è già verificato. Unici in tutto il territorio della Caria essi si opposero ad Arpago per qualche tempo e lo misero in grave difficoltà fortificando il monte chiamato Lide.

Col tempo i Pedasei furono spazzati via. I Lici, quando Arpago spinse il suo esercito nella pianura di Xanto, gli uscirono incontro e pur combattendo in netta inferiorità numerica compirono prodigi di valore; sconfitti, si asserragliarono nella loro città, radunarono sull'acropoli le mogli, i figli, i loro beni, i servi e vi appiccarono il fuoco perché bruciasse tutta. Dopo di che si vincolarono con un giuramento terribile, e uscirono dalla città lanciandosi contro i nemici: gli Xanti morirono tutti con le armi in pugno. La maggior parte degli attuali abitanti di Xanto che ora sostengono di essere Lici sono in realtà forestieri, tranne ottanta famiglie; queste ottanta famiglie in quella circostanza erano casualmente lontane dalla città e poterono salvarsi. Fu così che Arpago occupò Xanto; e in maniera molto simile occupò anche Cauno, visto che anche i Cauni seguirono per lo più l'esempio dei Lici.

Le regioni costiere dell'Asia le mise a ferro e fuoco Arpago; le regioni più interne invece fu Ciro in persona a devastarle, sottomettendo ogni popolazione, nessuna esclusa. Noi ne trascureremo la maggior parte per ricordare soltanto quelle che gli diedero più filo da torcere e che sono le più degne di memoria.

Ciro, una volta impadronitosi di tutto il continente, si rivolse contro gli Assiri. Nell'Assiria ci sono certamente molte grandi città, ma la più rinomata e insieme la più potente, quella dove era stata stabilita la reggia dopo la caduta di Ninive, era Babilonia; Babilonia è così fatta: giace in una grande pianura e ha forma quadrangolare e ogni lato è lungo 120 stadi cosicché il perimetro della città misura in tutto 480 stadi. E se tale è già l'estensione di Babilonia, la sua bella struttura, poi, non ha rivali tra le altre città a noi note. Tanto per cominciare la circonda un fossato largo e profondo, colmo d'acqua, e il muro di cinta, poi, è spesso cinquanta cubiti reali e alto duecento. Il cubito reale è tre dita più lungo del cubito ordinario.

A tutto ciò bisogna poi aggiungere quale uso fu fatto della terra scavata dal fossato e in che modo fu realizzato il muro. Con la terra estratta dallo scavo fabbricarono mattoni, che, appena furono in numero sufficiente, fecero cuocere nelle fornaci; usando bitume caldo come malta e inserendo dei graticci di canne ogni trenta file di mattoni costruirono prima gli argini del fossato e poi il muro stesso, con la medesima tecnica. Sulla sommità del muro, lungo gli spalti, alzarono costruzioni a un solo piano, rivolte l'una verso l'altra; fra di esse lasciarono uno spazio sufficiente al passaggio di un carro trainato da quattro cavalli. Nel giro del muro sono inserite cento porte, interamente di bronzo, stipiti e architravi compresi. A otto giorni di viaggio da Babilonia c'è un'altra città, chiamata Is e attraversata da un fiume non grande, esso pure chiamato Is, e affluente dell'Eufrate. L'Is insieme con le acque trascina dei grumi di bitume; da lì fu portato a Babilonia il bitume per le mura.

E così fu fortificata Babilonia. La città è divisa in due settori separati da un fiume, l'Eufrate; l'Eufrate discende dai monti Armeni, ampio, profondo, rapido e va poi a sfociare nel mare Eritreo. Dalle due parti i bracci del muro si spingono fino al fiume: a questa altezza si piegano a gomito e procedono lungo la corrente formando su entrambe le rive dell'Eufrate argini di mattoni cotti. La città in sé, ricca di case a tre o quattro piani, è attraversata da strade rettilinee, tutte, comprese le trasversali che portano al fiume; all'altezza di ciascuna strada nell'argine che costeggia il fiume aprirono delle porticine, in numero pari alle viuzze. Anche queste porte erano di bronzo e immettevano direttamente sul fiume.

Questo muro è una specie di corazza: al suo interno se ne trova un secondo, poco meno robusto del precedente, ma alquanto più stretto. Al centro dei due settori della città furono eretti due edifici fortificati: da una parte la reggia munita di un ampio e robusto muro di cinta, dall'altra il santuario di Zeus Belo con le porte di bronzo, di forma quadrata con ogni lato pari a due stadi, esistente ancora ai miei tempi. Al centro del santuario si trova una solida torre, lunga e larga uno stadio: sulla prima torre ne è stata alzata una seconda, sulla seconda una terza e così via fino a un totale di otto torri; per accedere alle torri è stata costruita una scala a chiocciola che corre tutto intorno all'esterno dell'edificio. A metà della scala c'è un pianerottolo con dei sedili per riposarsi, sui quali quanti salgono possono sedersi a riprendere fiato. Sopra l'ultima torre si trova un grande tempio; al suo interno è collocato un ampio letto ben fornito di cuscini con accanto una tavola d'oro. Dentro non c'è assolutamente alcuna statua; e nessun essere umano vi passa la notte se non una sola donna babilonese che il dio abbia scelto fra tutte, come dicono i Caldei, cioè i sacerdoti di questa divinità.

Sempre costoro aggiungono, ma io non ci credo, che il dio in persona viene nel tempio a riposarsi su quel letto; tutto accadrebbe esattamente come a Tebe d'Egitto, secondo quanto asseriscono gli Egiziani (anche là infatti una donna dorme nel tempio di Zeus Tebano; e anche di costei come della donna babilonese si dice che non ha rapporti con alcun uomo) e così farebbe pure la profetessa del dio a Patara in Licia, quando c'è: lì l'oracolo non è sempre attivo, ma quando c'è allora di notte la sacerdotessa viene chiusa col dio nel tempio.

Nel grande santuario di Babilonia, in basso, si trova un altro tempio, in cui sono collocate una grande statua di Zeus assiso, in oro, e accanto una grande tavola d'oro; e d'oro sono altresì il basamento e il trono. A sentire i Caldei per la loro fabbricazione sarebbero stati impiegati 800 talenti d'oro. All'esterno di questo tempio c'è un altare d'oro: e c'è anche un secondo altare, grande, sul quale vengono offerte in sacrificio le vittime adulte: infatti sull'altare d'oro è consentito sacrificare esclusivamente animali da latte; sempre sull'altare più grande i Caldei bruciano ogni anno mille talenti d'incenso, quando celebrano la festa del dio. Nell'area del santuario a quell'epoca si trovava anche una statua d'oro massiccio alta dodici cubiti; io personalmente non l'ho vista, riferisco quanto affermano i Caldei. Dario figlio di Istaspe che pure l'avrebbe voluta, non si sentì di portarsi via questa statua: fu suo figlio Serse ad asportarla, arrivando a uccidere il sacerdote che cercava di proibirgliene la rimozione. E questo è l'arredamento del santuario; dentro poi vi sono anche molte offerte di privati.

Molti, credo, furono i sovrani di Babilonia (e di essi farò menzione nei miei Racconti Assiri) che attesero alla edificazione delle mura e del santuario, e fra essi anche due donne; una si chiamava Semiramide e visse cinque generazioni prima della successiva: costei fece erigere nella pianura argini che meritano di essere visti; prima regolarmente il fiume allagava le campagne.

La seconda delle due regine si chiamava Nitocri: dotata di maggior lungimiranza della sovrana che l'aveva preceduta sul trono, lasciò sì i monumenti che descriverò più avanti, ma in più, vedendo la potenza dei Medi ormai grande e inquieta, forte delle città già annesse, tra cui anche Ninive, prendeva contro di loro tutte le precauzioni in suo potere. Cominciò occupandosi dell'Eufrate, il fiume che attraversa Babilonia; aveva andamento rettilineo, ma lei, facendo scavare dei canali lungo tutto il suo corso, lo rese tanto tortuoso che ora esso tocca addirittura tre volte un villaggio dell'Assiria. Questo villaggio si chiama Ardericca: quanti viaggiano dal nostro mare verso Babilonia discendendo l'Eufrate, costeggiano Ardericca per ben tre volte nell'arco di tre giorni. Nitocri dunque attuò quest'opera grandiosa; inoltre fece costruire su entrambe le sponde del fiume degli argini che lasciano stupefatti tanto sono spessi e alti. Abbastanza a monte di Babilonia, poi, fece scavare l'invaso per un lago, non molto discosto dal fiume, scendendo in profondità fino a trovare l'acqua e ampliandolo in estensione per un perimetro di 420 stadi; utilizzò il materiale estratto dallo scavo ammucchiandolo lungo le rive del fiume. Quando il bacino fu pronto vi costruì intorno un parapetto con pietre precedentemente trasportate sul luogo. Realizzò tutto questo, la tortuosa canalizzazione del fiume e la trasformazione dell'invaso in palude, affinché il fiume, deviato in molti meandri, scorresse più lentamente, la navigazione verso Babilonia risultasse tortuosa e una volta finita la navigazione si dovesse ancora percorrere il lungo perimetro della palude. Eseguì tali lavori nella parte del paese dove c'erano le vie d'accesso e le strade più brevi provenienti dalla Media, per impedire ai Medi di fre

quentare Babilonia e di ottenere informazioni sulla sua situazione.

Con le opere di scavo realizzò queste costruzioni; e ne ricavò un vantaggio ulteriore. Dal momento che la città è divisa in due settori separati dal fiume, all'epoca dei re precedenti chi voleva recarsi da un settore all'altro della città era costretto ad attraversare il fiume con una imbarcazione, una cosa, mi pare, assai fastidiosa. Nitocri vi pose rimedio e approfittando dello scavo per il bacino poté trasmettere ai posteri un altro grande ricordo del proprio operato: fece tagliare immense lastre di pietra che furono pronte quando anche il bacino era stato ultimato; allora deviò l'intera corrente del fiume nell'invaso preparato, e mentre questo si riempiva e quindi l'antico letto si prosciugava, rivestì di mattoni cotti, con la stessa tecnica usata per le mura, le sponde del fiume all'interno della città e il fondo delle strade che dalle porticine conducono al fiume; poi quasi esattamente nel centro della città con le pietre di riporto dello scavo costruì un ponte, legando le pietre con barre di ferro e di piombo. Di giorno vi faceva stendere sopra una passerella di tronchi di legno squadrati, su cui i Babilonesi transitavano; di notte la passerella veniva tolta, perché non andassero in giro a derubarsi da una parte all'altra. Quando l'invaso colmato dalle acque del fiume era ormai diventato uno stagno e i lavori intorno al ponte erano terminati, ricondusse l'Eufrate dalla palude nel suo antico alveo; in questo modo lo scavo, divenuto palude, apparve in tutta la sua utilità e intanto i cittadini ebbero un ponte.

Questa stessa regina escogitò anche un bell'inganno: ordinò che si allestisse la sua tomba a mezz'aria, cioè sopra la porta più frequentata della città; e su di essa fece incidere una iscrizione che diceva: «Se uno dei re di Babilonia miei successori, si troverà a corto di denaro, apra la tomba e prenda tutte le ricchezze che vuole: la apra soltanto se ha davvero bisogno di denaro, e per nessuna altra ragione, o non ne avrà alcun vantaggio». Questa tomba rimase intatta finché il regno non venne nelle mani di Dario; a Dario sembrava assurdo non potersi servire di quella porta e non toccare le ricchezze ivi giacenti quando persino l'iscrizione invitava a prenderle. Non si serviva della porta perché se l'avesse attraversata si sarebbe trovato il cadavere sopra la testa. Dario fece aprire la tomba ma ricchezze non ne trovò, solo il cadavere e una scritta che diceva: «se tu non fossi insaziabile di denaro e ignobilmente avido, non violeresti le tombe dei defunti». Ecco, come si narra, che genere di donna fu questa regina.

Ciro combatté contro il figlio di Nitocri, che portava lo stesso nome di suo padre, Labineto, e regnava sull'Assiria. Il grande re persiano compì la sua spedizione militare ben fornito di vettovaglie e di bestiame persiano; tra l'altro aveva con sé persino acqua del Coaspe, il fiume che scorre vicino a Susa: un re persiano beve solo acqua di questo fiume e di nessun altro. Perciò molti carri a quattro ruote trainati da mule seguono sempre il re, dovunque vada, carichi di acqua bollita del Coaspe contenuta in recipienti d'argento.

Ciro nella sua marcia verso Babilonia giunse a un certo momento al fiume Ginde. Il Ginde ha le sue sorgenti sui monti dei Matieni, attraversa il paese dei Dardani e poi va ad affluire in un altro fiume, il Tigri, il quale a sua volta scorre presso la città di Opis e sfocia nel Mare Eritreo. Dunque, mentre Ciro tentava di attraversare il Ginde, che è navigabile, uno dei suoi sacri cavalli bianchi entrò impetuosamente nel fiume tentando di guadarlo, ma la corrente lo travolse sott'acqua e lo trascinò via. Ciro si infuriò nei confronti del fiume, autore di un simile oltraggio, lo minacciò di renderlo tanto debole che in seguito anche le donne avrebbero potuto guadarlo facilmente, senza bagnarsi neppure le ginocchia. Pronunciata la minaccia trascurò la spedizione contro Babilonia e divise il suo esercito in due parti: su ciascun lato del Ginde disegnò con delle corde tese in linea retta il tracciato di 180 canali rivolti in ogni direzione, distribuì i suoi uomini sulle due rive del fiume e ordinò di cominciare lo scavo. Poiché la manodopera era assai numerosa l'impresa fu condotta a termine, tuttavia passarono l'estate intera a scavare in quella zona.

Consumata la sua vendetta disperdendo il corso del Ginde in 360 canali, Ciro al sorgere della primavera successiva si spinse contro Babilonia. I Babilonesi lo attesero schierati fuori della città; quando nella sua marcia fu vicino a Babilonia, lo assalirono, ma poi, sconfitti nella battaglia, ripiegarono dentro la rocca. Poiché da tempo sapevano che Ciro non era tipo da starsene tranquillo e anzi lo vedevano aggredire senza distinzioni qualunque popolo, si erano premuniti raccogliendo viveri per molti anni. Così non si preoccupavano minimamente dell'assedio, mentre Ciro era in grave difficoltà: il tempo passava senza che la situazione registrasse per lui alcun progresso.

Infine, vuoi che qualcuno lo avesse consigliato in tal senso, vedendolo in difficoltà, vuoi che lui stesso si fosse reso conto del da farsi, prese una decisione: schierò il suo esercito all'imboccatura del fiume, cioè nel punto in cui esso entra in Babilonia e dispose altri uomini al capo opposto della città, dove il fiume esce dal centro abitato e ordinò ai soldati di attendere che la corrente fosse divenuta guadabile e poi di entrare in città per quella via. Dopo aver schierato le sue truppe e impartiti i relativi ordini, condusse via con sé gli uomini meno adatti al combattimento. Giunse fino al bacino artificiale e lì ripeté l'operazione compiuta a suo tempo dalla regina Nitocri per il fiume e lo stagno: per mezzo di un canale deviò il fiume nella palude; in tal modo al ritirarsi delle acque il letto del fiume divenne percorribile. Quando ciò accadde i Persiani che erano stati opportunamente schierati lungo il corso dell'Eufrate poterono penetrare in città per questa via: il livello del fiume si era abbassato al punto che l'acqua arrivava appena a metà coscia. Se i Babilonesi avessero avuto notizia delle manovre di Ciro o se ne fossero accorti, avrebbero consentito ai Persiani di penetrare in città per poi massacrarli; infatti, sbarrando tutte le porte che danno sul fiume e salendo sugli spalti che corrono lungo le rive, li avrebbero presi come in una nassa. E invece i Persiani piombarono loro addosso all'improvviso. A causa dell'estensione di Babilonia, come raccontano i suoi stessi abitanti, quando già i quartieri periferici della città erano stati espugnati, ancora i Babilonesi residenti nel centro non se ne erano accorti; e anzi, dato che per combinazione era un giorno di festa, in quel momento erano dediti a danze e divertimenti; fino a quando, naturalmente, non si resero conto esattamente della situazione. In tal modo Babilonia fu espugnata, allora, per la prima volta.

Mostrerò con molti argomenti quanto siano immense le risorse della Babilonia e già con una semplice considerazione. Il grande re ha suddiviso l'intero territorio del suo dominio in varie zone che provvedono a turno, indipendentemente dai tributi annuali, al mantenimento suo e del suo esercito. Ebbene, per quattro mesi, sui dodici che compongono un anno, è la Babilonia a provvedere, per gli altri otto tutto il resto dell'Asia; ciò vuol dire che l'Assiria assomma la terza parte delle risorse dell'Asia intera. E il governatorato di questa regione, o satrapia, come lo chiamano i Persiani, è fra tutti di gran lunga il più potente; tanto è vero che a Tritantecme figlio di Artabazo, che aveva ricevuto dal re questo territorio, affluiva una rendita quotidiana di una artaba di argento (l'artaba è l'unità di misura persiana, corrispondente a un medimno e tre chenici attici); e possedeva privatamente, senza tener conto dei cavalli da guerra, 800 stalloni e 16.000 femmine per la riproduzione, poiché ogni stallone montava venti cavalle. Inoltre allevava un tale numero di cani d'India che quattro grandi villaggi della pianura erano incaricati del loro mantenimento, e non pagavano altro tributo che questo. Tale era l'appannaggio del governatore di Babilonia.

Però la terra degli Assiri riceve poca pioggia, appena sufficiente a far spuntare la radice del frumento; è poi grazie alla irrigazione che le messi crescono e il grano giunge a maturazione, non però come avviene in Egitto, dove il fiume stesso straripa nelle campagne, bensì grazie al lavoro manuale e all'uso di mazzacavalli. In effetti la Babilonia, come l'Egitto, è interamente attraversata da canali, il più grande dei quali, navigabile, si sviluppa in direzione sud-est a partire dall'Eufrate immettendosi nell'altro fiume, il Tigri; lungo il Tigri sorgeva la città di Ninive. Fra tutte le regioni a nostra conoscenza questa è certamente la più indicata per la produzione del frutto di Demetra, tanto è vero che non si tenta nemmeno di far crescere altri tipi di piante, né fichi, né viti, né olivi; è talmente adatta alla coltura dei cereali che in media frutta 200 se si semina 1 e quando rende al massimo delle proprie possibilità frutta persino 300. In quella terra le foglie del grano e dell'orzo raggiungono tranquillamente una larghezza di quattro dita. Quanto all'altezza raggiunta dalle piante del miglio e del sesamo, anche se la conosco eviterò di segnalarla: so bene che a chi non è mai stato nella Babilonia sembrano del tutto incredibili anche i dati che ho esposto sui cereali. Non usano olio di oliva ma estraggono olio dal sesamo. In tutta la pianura crescono spontaneamente le palme, quasi tutte fruttifere; da esse ricavano cibi solidi, vino e miele; curano queste palme come si fa con i fichi, in particolare quelle che i Greci chiamarebbero «maschio»: ne legano i frutti intorno alle palme da datteri affinché lo pseno penetrando nei datteri li porti a maturazione e il frutto della palma non vada perduto; infatti le palme «maschio» portano nei loro datteri lo pseno esattamente come i fichi selvatici.

Ma ora parlerò di quella che a mio parere costituisce la meraviglia più grande di Babilonia, dopo la città naturalmente: possiedono imbarcazioni, di forma circolare e interamente di cuoio, che arrivano fino a Babilonia scendendo lungo la corrente del fiume. Nella regione d'Armenia, a nord dell'Assiria, essi fabbricano lo scafo con vimini tagliati opportunamente e vi distendono intorno delle pelli per ricoprirle, come un impiantito; non differenziano la poppa e non modellano una prua più stretta: le fanno invece rotonde come uno scudo; poi ricoprono di canne tutta l'imbarcazione, la riempiono di mercanzie e lasciano che sia il fiume a portarla; per lo più imbarcano recipienti fenici colmi di vino. Con due pertiche due uomini in piedi ne governano la direzione: mentre uno tira verso di sé la pertica l'altro la spinge in fuori. Imbarcazioni di questo tipo ne costruiscono di molto grandi e di piccole: le più grandi hanno una stazza di 5000 talenti. Su ogni battello viaggia un asino vivo, sulle barche più grandi ve n'è più d'uno; una volta arrivati a Babilonia scendendo lungo la corrente e, smerciato il carico, vendono lo scafo e tutte le canne al miglior offerente; le pelli invece le caricano sull'asino e se ne ritornano in Armenia. Infatti in nessun modo è possibile risalire il fiume in battello per via della corrente troppo forte; e questo è anche il motivo per cui non costruiscono imbarcazioni di legno bensì di pelli. Quando con i loro asini sono nuovamente tornati in Armenia si costruiscono altre imbarcazioni nella stessa maniera.

Tali sono i loro mezzi per la navigazione fluviale. Come indumenti adoperano una tunica di lino lunga fino ai piedi sulla quale indossano un'altra tunica di lana e una mantellina bianca, gettata intorno alle spalle. Ai piedi portano calzature locali simili ai sandali che si usano in Beozia. Portano capelli lunghi e se li legano con nastri; si profumano tutto il corpo. Ciascuno di loro ha un anello con sigillo e un bastone lavorato a mano; il pomo di ciascun bastone è scolpito in forma di mela, di rosa, di giglio, di aquila o d'altro; non è loro abitudine portare un bastone senza un contrassegno. Questo per quanto riguarda l'abbigliamento. Veniamo adesso alle loro leggi.

Ecco secondo me la più saggia (in uso, a quanto apprendo, anche fra i Veneti di Illiria). Una volta all'anno, in ogni villaggio si faceva così: conducevano in un unico luogo, allo scopo di riunirle tutte, le ragazze che si trovassero in età da marito e intorno ad esse si radunava una folla di uomini. Poi un araldo le faceva alzare in piedi, una per una, e le vendeva: cominciava dalla più bella, poi, quando questa aveva trovato un generoso compratore, metteva all'asta la seconda per bellezza. La vendita si faceva a scopo matrimoniale. I Babilonesi benestanti in età da prendere moglie superandosi a vicenda con le offerte si acquistavano le più graziose; invece gli aspiranti mariti del popolo, che non badavano all'estetica, si prendevano le ragazze più brutte e una somma di denaro. Infatti quando il banditore aveva terminato di vendere le più belle, faceva alzare la più brutta oppure una storpia, se c'era, e la offriva a chi accettasse di sposarla con il compenso più basso; finché la ragazza veniva aggiudicata a chi s'accontentava della somma minore. Il denaro derivava dalla vendita delle ragazze avvenenti: in questo modo erano le belle ad accasare le brutte e le menomate. Nessuno aveva il diritto di dare la propria figlia in moglie a chi volesse lui e senza garanzie non era possibile portarsi via la ragazza comprata; l'acquirente doveva prima fornire garanzie che avrebbe sposato effettivamente la ragazza, poi poteva condurla con sé; se poi non andavano d'accordo, il denaro doveva per legge essere restituito. Chiunque volesse partecipare all'asta poteva farlo, anche venendo da un altro villaggio. Questa era dunque la loro tradizione più bella; ora però non è più in vigore e hanno studiato un nuovo sistema [per non danneggiare le loro donne e per impedire che vengano condotte in un altro paese]. Da quando la conquista di Babilonia ha ridotto male e rovinato i suoi abitanti, tutti i popolani, che non hanno di che vivere, prostituiscono le figlie.

Ed ecco l'usanza in vigore presso di loro seconda per saggezza: non avendo medici portano sulla pubblica piazza i loro infermi. Chi si avvicina al malato esprime un parere sulla sua malattia, se per caso ha avuto gli stessi sintomi o se ha saputo di qualcuno che li abbia avuti. Dunque si accostano per dar consigli e ciascuno esorta a fare ciò che lui stesso ha fatto o visto fare a un altro per guarire da una analoga affezione. Non è consentito passare oltre in silenzio senza chiedere all'infermo di quale malattia soffra.

Seppelliscono i morti nel miele; i lamenti funebri sono assai simili a quelli in uso in Egitto. Ogni volta che un Babilonese ha fatto l'amore con la propria moglie, brucia delle sostanze aromatiche e si siede accanto al fumo; la stessa cosa, separatamente, fa anche la donna. All'alba entrambi provvedono a lavarsi e non toccano nessun vaso se prima non si sono lavati. Identica cosa fanno anche gli Arabi.

Ed ecco la peggiore delle usanze babilonesi. Ogni donna di quel paese deve sedere nel tempio di Afrodite una volta nella sua vita e fare l'amore con uno straniero. Molte, sentendosi superiori per la loro ricchezza, sdegnano di mescolarsi con le altre e si fanno trasportare sopra un carro coperto fino al tempio e lì si fermano, con un gran seguito di servitù. La maggior parte invece si comporta come segue: nel recinto sacro di Afrodite siedono in molte con una corona di corda intorno alla testa, alcune arrivano, altre se ne vanno; con delle funi tese fra le donne si ottengono dei corridoi rivolti in tutte le direzioni: gli stranieri passano attraverso di essi e fanno la loro scelta. Una donna che si sia lì seduta non se ne torna a casa se prima uno straniero qualsiasi non le ha gettato in grembo del denaro e non ha fatto l'amore con lei all'interno del tempio; gettando il denaro deve pronunciare una formula: «Invoco la dea Militta». Con il nome di Militta gli Assiri chiamano Afrodite. L'ammontare pecuniario è quello che è e non sarà rifiutato: non è lecito perché tale denaro diventa sacro. La donna segue il primo che glielo getti e non respinge nessuno. Dopo aver fatto l'amore, e aver soddisfatto così la dea, fa ritorno a casa e da questo momento non le si potrà offrire tanto da poterla possedere. Le donne avvenenti e di alta statura se ne vanno rapidamente, ma quelle brutte rimangono lì molto tempo senza poter adempiere l'usanza; e alcune rimangono ad aspettare persino per tre o quattro anni. Una usanza assai simile esiste anche in qualche parte dell'isola di Cipro.

E questi sono i costumi dei Babilonesi. Fra loro vi sono tre tribù che si nutrono esclusivamente di pesce, opportunamente seccato al sole dopo la pesca, preparandolo così: lo gettano in un mortaio, lo sminuzzano con il pestello e lo passano al setaccio; poi lo mangiano preparandolo come pastone o cuocendolo al forno, come fosse pane, secondo i gusti.

Quando Ciro ebbe sottomesso anche questo popolo, fu preso dal desiderio di ridurre in suo potere i Massageti. I Massageti hanno fama di essere un popolo grande e valoroso: le loro sedi si trovano a est, dove sorge il sole, al di là del fiume Arasse, di fronte agli Issedoni; c'è chi sostiene che questo popolo sia di razza scita.

Quanto all'Arasse ora lo si dice più grande ora più piccolo dell'Istro. Si racconta anche che in mezzo al fiume ci sono numerose isole estese quasi quanto Lesbo: su di esse vivrebbero uomini che d'estate si cibano di radici di ogni tipo estraendole dalla terra e d'inverno di frutti staccati dagli alberi e messi in serbo nel periodo della maturazione; e pare che essi abbiano trovato altre piante il cui frutto possiede strane proprietà: quando si riuniscono in gruppi in uno stesso luogo e accendono i falò, vi siedono attorno e gettano nel fuoco questi frutti, aspirando i vapori che se ne sprigionano; con tali effluvi si ubriacano esattamente come i Greci con il vino: e più frutti gettano nel fuoco più si inebriano, fino al punto di alzarsi per danzare e di mettersi a cantare. Tale sarebbe, a quanto si racconta, il loro modo di vivere. Il fiume Arasse scorre dal paese dei Matieni, come pure il Ginde (quello disperso da Ciro in 360 canali), e riversa poi le sue acque in quaranta ramificazioni, le quali tutte, tranne una, sfociano in stagni e paludi; qui vivono, a quanto si dice, uomini che si cibano di pesci crudi e che si vestono normalmente con pelli di foca. L'unico ramo dell'Arasse a scorrere libero e aperto sfocia nel Mar Caspio.

Il Caspio è un mare a sé senza alcuna comunicazione con l"altro mare'; effettivamente le acque percorse dalle navi greche, quelle situate al di là delle colonne d'Ercole, dette Atlantico, e il Mare Eritreo, formano un unico mare. Le acque del Caspio formano un secondo mare a parte, lungo quindici giorni di navigazione a remi e largo otto, nel tratto di maggiore larghezza. Sulla riva occidentale si stende il Caucaso, il complesso montuoso più vasto e più elevato del mondo. Nella zona del Caucaso abitano numerose popolazioni di tutte le razze, che vivono per lo più di frutti selvatici. Da quelle parti, si dice, esisterebbero piante dalle cui foglie triturate e mescolate con acqua ottengono una tintura per disegnare figure sulle loro vesti; e queste figure non sbiadiscono affatto, si consumano con il resto della stoffa come se vi fossero state intessute fin dall'origine. Pare che fra queste genti gli accoppiamenti avvengano davanti a tutti come fra gli animali.

Dicevamo che il Caucaso delimita la parte occidentale del mare Caspio; invece procedendo verso est, verso il sorgere del sole, si estende una pianura immensa, a perdita d'occhio; una parte non piccola di questa sconfinata pianura è abitata dai Massageti, contro i quali appunto Ciro era ansioso di marciare. Molte e importanti ragioni lo spingevano e lo sollecitavano in tal senso: prima di tutto la sua nascita, la convinzione di essere qualcosa di più che un uomo, in secondo luogo la sua buona sorte, quale si era rivelata nelle guerre precedenti: dovunque infatti avesse diretto le sue truppe, nessuna popolazione era riuscita a trovare scampo.

Sui Massageti, da quando le era morto il marito, regnava una donna, di nome Tomiri. Ciro le mandò un messaggio in cui la chiedeva in matrimonio dicendo di volerla per moglie; ma Tomiri, comprendendo che lui non aspirava tanto alla sua mano quanto al regno dei Massageti, rifiutò i suoi approcci. Allora Ciro, visto che con l'astuzia non aveva ottenuto alcun risultato, si spinse fino all'Arasse e dichiarò apertamente guerra ai Massageti; gettò dei ponti fra le due rive del fiume per il passaggio dell'esercito e costruì torri di difesa sulle imbarcazioni che attraversavano il fiume.

Mentre era impegnato in questi lavori, la regina Tomiri gli inviò un araldo con il seguente messaggio: «O re dei Medi, smettila con gli sforzi che stai compiendo: tu non sai se l'impresa ti riuscirà felice. Desisti, regna sui tuoi territori e lascia che noi regniamo sui nostri sudditi. Ma so già che non vorrai accettare i miei suggerimenti e anzi tutto vorrai fuorché startene in pace. Perciò, se davvero aspiri tanto a misurarti con i Massageti, lascia perdere il ponte sul fiume, che ti costa tanta fatica; passa pure nel nostro territorio, le nostre truppe si ritireranno a tre giorni di cammino dal fiume. Se invece preferisci essere tu ad accogliere noi nel vostro paese, allora fai tu le stesse cose». Sentita questa proposta, Ciro convocò i Persiani più autorevoli e quando li ebbe radunati espose i termini della questione, chiedendo consiglio sul da farsi. E i pareri di tutti concordemente lo esortarono a ricevere Tomiri e il suo esercito sul suolo persiano.

Ma Creso il Lido, presente alla discussione, criticò questo parere ed espose la sua opinione, che era esattamente opposta: «Signore, - disse - già altre volte ti ho promesso, poiché Zeus mi ha dato nelle tue mani, che mi sarei impegnato a fondo per scongiurare qualunque sciagura io vedessi incombere sulla tua casa. Le mie sventure personali, così spiacevoli, mi hanno insegnato molto. Ora, se tu credi di essere immortale e di comandare a un esercito immortale, non ha senso che io ti esponga il mio parere; ma se riconosci di essere un uomo anche tu e di comandare ad altri uomini, sappi prima di tutto che le vicende umane sono una ruota, che gira e non permette che siano sempre gli stessi a godere di buona fortuna. Circa la presente questione io la penso al contrario di costoro: se decideremo di ricevere i nemici in territorio persiano tu corri un bel rischio: se rimani sconfitto perdi tutto il tuo regno perché è chiaro che i Massageti, vincendo, non torneranno più indietro ma avanzeranno contro i tuoi domini. Invece se li batti, non vinci tanto quanto vinceresti se trovandoti già in casa loro potessi inseguire i Massageti in fuga. La conseguenza infatti sarebbe uguale ma contraria alla precedente: se sconfiggi tu i nemici, sarai tu a puntare dritto sul dominio di Tomiri. Inoltre, indipendentemente da quanto ti ho già esposto, mi pare vergognoso e intollerabile che Ciro, il figlio di Cambise, ceda a una donna e si ritiri. Pertanto il mio parere è di passare il fiume e avanzare di quanto i nemici arretreranno; e là tentare di sconfiggerli con la seguente tattica. A quanto mi risulta i Massageti non hanno mai gustato i piaceri persiani e non hanno mai provato grandi delizie. Per uomini così dunque facciamo a pezzi bestiame in abbondanza, cuciniamolo e prepariamo un banchetto nel nostro campo: e aggiungiamo generosamente grandi orci di vino puro e cibarie d'ogni sorta; dopo di che si lascino sul posto i contingenti meno validi e gli altri si ritirino nuovamente verso il fiume. E vedrai, se non mi inganno, che i Massageti a vedere tutto quel ben di dio vi si getteranno sopra e a quel punto a noi non resterà che compiere notevoli gesta».

Questi furono gli opposti pareri; Ciro trascurò il primo e accettò il suggerimento di Creso: avvisò la regina Tomiri di ritirare le sue truppe, perché sarebbe stato lui ad attraversare il fiume. Ed essa si ritirò come aveva promesso. Ciro affidò Creso nelle mani di suo figlio Cambise, erede designato del regno, con molte esortazioni a onorarlo e a trattarlo degnamente, nel caso la spedizione contro i Massageti non avesse buon esito. Con queste raccomandazioni li rimandò in Persia, poi passò il fiume con il suo esercito.

La notte successiva al passaggio dell'Arasse, mentre dormiva nella terra dei Massageti, ebbe un sogno: nel sonno gli parve che il figlio maggiore di Istaspe avesse due ali sulle spalle: con una gettava ombra sull'Asia, con l'altra sull'Europa. Il maggiore dei figli di Istaspe, figlio di Arsame, della famiglia degli Achemenidi, era Dario, che allora aveva circa vent'anni e per questo, non avendo l'età per combattere, era stato lasciato in Persia. Ciro si svegliò, e rifletteva sul sogno; e poiché gli sembrava una visione importante, mandò a chiamare Istaspe, lo prese da parte e gli disse: «Istaspe, tuo figlio è stato sorpreso a complottare contro di me e il mio potere. Come mai lo so con certezza, ora te lo spiego. Gli dei hanno cura di me e mi preannunciano tutto ciò che mi minaccia; ebbene la notte scorsa dormendo ho visto in sogno il maggiore dei tuoi figli avere sulle spalle due ali e con una gettare ombra sull'Asia, con l'altra sull'Europa. Non c'è altra spiegazione per questo sogno, se non che tuo figlio sta tramando contro di me. Pertanto ti ordino di rientrare immediatamente in Persia; e bada di sottoporre tuo figlio al mio giudizio, quando avrò assoggettata questa terra e sarò di ritorno in Persia».

Ciro parlò così convinto che Dario stesse cospirando contro di lui, mentre il dio voleva soltanto rivelargli che doveva morire lì, in quel paese, e che il suo potere sarebbe finito nelle mani di Dario. Istaspe gli rispose: «O re, io mi auguro che non sia nato un Persiano che complotta contro di te, ma se esiste, allora muoia al più presto! Tu, da schiavi che eravamo, ci hai resi liberi, tu ci hai reso da servi signori. Se un sogno ti annuncia che mio figlio sta preparando una ribellione contro di te, sarò io stesso a consegnarlo nelle tue mani, perché tu ne faccia quello che vorrai». Dopo questa risposta Istaspe riattraversò l'Arasse e tornò in Persia per tenere suo figlio Dario a disposizione di Ciro.

Ciro avanzò oltre il fiume per circa una giornata di cammino e mise in pratica i suggerimenti di Creso. Poi indietreggiò verso l'Arasse con le truppe più valide lasciando sul posto i meno adatti a combattere. Allora un terzo dell'esercito massageta sopraggiunse e sterminò, nonostante la loro resistenza, i soldati lasciati sul posto da Ciro; ma, come videro le mense imbandite, appena spazzati via i nemici, si sdraiarono a banchettare: infine, rimpinzati di cibo e di vino si addormentarono. Sopraggiunsero i Persiani e uccisero molti di loro, e ancor più ne presero prigionieri incluso il figlio della regina Tomiri, che comandava l'esercito dei Massageti e si chiamava Spargapise.

Quando la regina seppe quanto era accaduto all'esercito e a suo figlio, mandò un araldo a Ciro col seguente messaggio: «Ciro, insaziabile di sangue, non esaltarti per ciò che è avvenuto, se col frutto della vite, riempiendovi del quale anche voi impazzite, fino al punto che il vino scendendo nel vostro corpo vi fa salire alla bocca sconce parole, non esaltarti se con l'inganno di questo veleno hai sconfitto mio figlio, e non in battaglia misurando le vostre forze. Io ora ti do un buon consiglio e tu seguilo: restituiscimi mio figlio e potrai andartene dal mio paese senza pagare per l'oltraggio inflitto a un terzo del mio esercito; altrimenti, lo giuro sul sole, signore dei Massageti, benché tu ne sia avido, ti sazierò di sangue!»

Queste parole furono riferite a Ciro, ma lui non le prese in considerazione. Il figlio della regina Tomiri, Spargapise, quando svanirono i fumi del vino e si rese conto della sua sciagurata situazione, pregò Ciro di essere liberato dalle catene e l'ottenne, ma come fu sciolto e padrone delle sue mani si suicidò.

Così morì Spargapise. E Tomiri, poiché Ciro non le aveva prestato ascolto, raccolse tutte le sue truppe e lo attaccò. Io ritengo questa battaglia la più dura di quante i barbari abbiano mai combattuto fra loro. Ed ecco come si svolse secondo le mie informazioni. In un primo momento si tennero a distanza e si lanciarono frecce, poi, terminate le frecce, si gettarono gli uni contro gli altri brandendo lance e spade. Per lungo tempo si protrasse lo scontro senza che una delle due parti accennasse a fuggire; infine prevalsero i Massageti. La maggior parte dell'esercito persiano fu distrutto e sul campo cadde Ciro stesso. Aveva regnato complessivamente per 29 anni. Tomiri riempì un otre di sangue umano e fece cercare fra i cadaveri dei Persiani il cadavere di Ciro; quando lo trovò immerse la sua testa nell'otre e mentre così infieriva su di lui, disse: «Tu hai ucciso me, anche se sono viva e ti ho sconfitto, sopprimendo con l'inganno mio figlio; ora io ti sazierò di sangue, esattamente come ti avevo minacciato». Fra le tante versioni correnti sulla morte di Ciro questa che ho raccontato mi pare la più degna di fede.

I Massageti hanno un modo di vestire e un regime di vita simili a quelli degli Sciti. Combattono a cavallo o a piedi (sono esperti in entrambi i campi), sono arcieri e lancieri; abitualmente hanno pure una scure bipenne. Per ogni cosa adoperano oro e bronzo: usano il bronzo per le punte delle lance e delle frecce e per le bipenni, mentre si ornano d'oro l'elmo, la cintura e le tracolle; allo stesso modo corazzano con il bronzo il petto dei cavalli mentre ne rivestono di oro le briglie, il morso e le borchie. Non si servono assolutamente di ferro e di argento perché nel loro paese non se ne trova. Mentre abbondano l'oro e il bronzo.

Ed ecco le loro usanze: ciascuno sposa una donna ma le donne poi sono in comune per tutti. I Greci sostengono che sono gli Sciti a comportarsi così, ma non è vero: non sono gli Sciti bensì i Massageti; ogni Massageta che desideri una donna appende una faretra al suo carro e fa tranquillamente l'amore con lei. Essi non hanno prefissato un limite alla loro vita, però quando uno è divenuto assai vecchio, tutti i suoi parenti si riuniscono, lo uccidono insieme con altri animali domestici, ne fanno cuocere le carni e se lo mangiano. E questa è considerata da loro la fine più bella; non si cibano invece di chi muore per malattia, anzi lo seppelliscono, considerando una disgrazia che non sia giunto all'età di essere sacrificato. Non praticano l'agricoltura ma vivono di allevamento e di pesca, pesci ne trovano tanti nel fiume Arasse. Sono bevitori di latte. Venerano il sole quale unico dio e gli sacrificano cavalli in base alla seguente considerazione: al più veloce di tutti gli dei offrono il più veloce degli esseri mortali.

 

LIBRO II

 

 

Alla morte di Ciro Cambise ereditò il regno: era figlio di Ciro e Cassandane, figlia di Farnaspe; per Cassandane, morta ancora prima del marito, Ciro aveva osservato un lutto molto stretto e lo aveva imposto anche a tutti i suoi sudditi. Figlio di questa donna e di Ciro, Cambise considerava gli Ioni e gli Eoli come schiavi appartenenti al patrimonio familiare; quando mosse guerra all'Egitto prese con sé truppe dalle varie popolazioni del suo dominio, compresi i Greci su cui comandava.

Gli Egiziani, prima del regno di Psammetico, ritenevano di essere stati i primi uomini a venire al mondo; ma da quando Psammetico, salito al trono, volle sapere con certezza quale popolo avesse avuto origine per primo, da allora ritengono i Frigi più antichi di loro, e loro stessi, poi, più antichi di tutti gli altri. Nonostante le molte ricerche Psammetico non riusciva a scoprire quali uomini fossero nati per primi; allora escogitò il seguente espediente: prese due neonati, figli di persone qualsiasi, e li affidò a un pastore perché li allevasse presso le sue greggi; al pastore diede le seguenti istruzioni: che nessuno pronunciasse una sola parola davanti a quei bambini; essi dovevano starsene da soli in una capanna abbandonata; a ore stabilite il pastore doveva condurre da loro delle capre, sfamarli col latte e sbrigare le altre incombenze. Psammetico faceva e ordinava tutto questo con l'intenzione di ascoltare poi quale parola i bambini avrebbero pronunciata per prima quando avessero smesso di emettere vagiti senza senso. Come appunto accadde: ormai da due anni il pastore si comportava in quel modo, quando un bel giorno, mentre apriva la porta per entrare, i bambini gli andarono incontro tendendo le braccia e gridando «bekos». La prima volta il pastore li udì e non lo disse a nessuno; ma dato che si recava spesso dai bambini per provvedere alle loro necessità ed essi varie volte gli ripeterono quella parola, segnalò la cosa al suo padrone, che gli ordinò di portare i bambini al suo cospetto. Quando ebbe ascoltato personalmente i bambini, Psammetico cercò di sapere quali uomini chiamassero qualcosa «bekos» e ricercando scoprì che i Frigi chiamano così il pane. Pertanto, sulla base di questo esperimento gli Egiziani riconobbero che i Frigi erano più antichi di loro. Questo è quanto ho appreso dai sacerdoti del tempio di Efesto a Menfi. I Greci dicono invece molte altre sciocchezze, tra cui che Psammetico fece tagliare la lingua ad alcune donne e affidò loro i bambini da allevare.

Così mi raccontavano i sacerdoti di Efesto sui due neonati e sul loro allevamento. Ma anche altre cose ho appreso a Menfi nei miei colloqui con questi sacerdoti; e per raccogliere informazioni mi recai anche a Tebe e a Eliopoli, desideroso di verificare se le versioni locali concordassero con quella di Menfi; perché i sacerdoti di Eliopoli hanno fama di essere i più dotti fra gli Egiziani. Ciò che mi dissero sugli dei, tranne appunto i nomi dei medesimi, non sono dell'idea di riferirlo perché ritengo che gli uomini in questo campo ne sappiano più o meno tutti lo stesso; se mi capiterà di farne menzione è perché le necessità del racconto mi ci costringeranno.

Riguardo invece alle cose umane, sostenevano concordemente che gli Egiziani per primi al mondo scoprirono l'anno, avendo suddiviso le stagioni in dodici parti per formarlo, scoperta che facevano risalire alla osservazione degli astri. A mio parere il loro sistema di computo è più oculato di quello greco: i Greci ogni due anni inseriscono un mese intercalare nel loro calendario a causa delle stagioni; gli Egiziani invece calcolano dodici mesi di trenta giorni e aggiungono ogni anno cinque giorni soprannumerari, e così il loro ciclo delle stagioni viene sempre a cadere nelle stesse date. Secondo loro gli Egiziani furono i primi a designare i dodici dei con nomi caratteristici (e i Greci da essi derivarono tale usanza), i primi a dedicare altari e templi alle varie divinità e a scolpire sulla pietra figure di animali; e quasi sempre i sacerdoti comprovavano in modo tangibile la verità delle loro asserzioni. Sostennero tra l'altro che il primo uomo a regnare sull'Egitto fu Mina; a quell'epoca l'intero Egitto, tranne il territorio di Tebe, era una palude, dalla quale non emergeva alcuna delle terre ora esistenti a nord del lago Meride; il lago dista dal mare sette giorni di navigazione contro corrente.

E mi pare che queste informazioni sul paese siano esatte. Infatti qualunque persona dotata di intelligenza, senza avere saputo mai nulla dell'Egitto, comprende con tutta evidenza, solo a vederlo, che il territorio egiziano a cui arrivano le navi greche è per gli Egiziani una terra acquisita, un dono del fiume; e lo stesso vale per le regioni situate a sud del lago Meride, fino a tre giorni di navigazione, anche se i sacerdoti, su di esse, non mi dicevano ancora niente del genere. La natura del paese in Egitto è tale che gettando lo scandaglio quando la nave è ancora a un giorno di distanza da terra, si tira già su del fango; e lì l'acqua è profonda undici orgie; e ciò dimostra che sin là si trova terreno alluvionale.

L'Egitto raggiunge lungo la costa una estensione di sessanta scheni, se, come facciamo noi, se ne stabiliscono per confini il golfo di Plintina e il lago Serbonide, presso il quale si erge il monte Casio. Misurando a partire da quel lago si hanno i sessanta scheni. I popoli che possiedono poca terra, la misurano a orgie, a stadi quelli che ne possiedono un po' di più, a parasanghe quelli che ne hanno molta; quelli che ne hanno in grande abbondanza la misurano a scheni. Una parasanga corrisponde a trenta stadi, uno scheno, misura egiziana, a sessanta stadi. In questo modo le coste dell'Egitto equivarrebbero a 3600 stadi.

La regione compresa fra la costa e Eliopoli è assai ampia, tutta pianeggiante, ricca d'acqua e di fango. Il tragitto dal mare fino a Eliopoli risalendo il fiume è pressoché pari in lunghezza a quello che porta da Atene, dall'altare dei dodici dei, fino al tempio di Zeus Olimpio a Pisa; a confrontare proprio con esattezza i due percorsi si troverebbe che una piccola differenza c'è e che le due distanze non sono proprio identiche, ma lo scarto non supera i quindici stadi. Infatti la strada da Atene a Pisa non raggiunge per soli quindici stadi i 1500, là dove la distanza fra il mare ed Eliopoli completa esattamente questa cifra.

Continuando a risalire il fiume da Eliopoli l'Egitto si fa stretto; da un lato si stende la catena dell'Arabia, che è orientata da nord a sud e si prolunga verso l'interno e verso il mare detto Eritreo; in questi monti si trovano le cave di pietra da dove furono estratti i blocchi adoperati per le piramidi di Menfi. Qui la catena si arresta e piega verso la direzione su menzionata: nel suo punto più largo questa catena, così m'hanno detto, raggiunge una estensione di due mesi di cammino, in direzione est-ovest, e nel suo settore più orientale è assai ricca di incenso. Ecco come sono i monti dell'Arabia; in direzione della Libia l'Egitto è attraversato da un'altra montagna pietrosa, proprio dove si innalzano le piramidi, tutta coperta di sabbia e protesa verso meridione alla stessa maniera della catena d'Arabia. Insomma a partire da Eliopoli non c'è più molto territorio a paragone del resto del paese: per una estensione di quattordici giorni di navigazione l'Egitto vi è ridotto a una sottile striscia. La parte pianeggiante intermedia fra le suddette montagne non mi pareva misurare, nel suo punto più stretto, più di 200 stadi dalla catena d'Arabia fino al massiccio denominato Libico. Più avanti l'Egitto si fa di nuovo largo.

Tale è la configurazione naturale dell'Egitto. Da Eliopoli a Tebe ci sono nove giorni di navigazione pari a 4860 stadi ovvero 81 scheni. Riassumendo, le dimensioni dell'Egitto sono: 3600 stadi di sviluppo costiero, come ho già precedentemente chiarito, e, lo preciso ora, 6120 stadi dal mare verso l'interno fino a Tebe, 1800 stadi da Tebe alla città chiamata Elefantina.

La maggior parte della terra di cui s'è parlato è parsa anche a me essere, per gli Egiziani, una «acquisizione», come sostenevano i sacerdoti. Infatti mi fu abbastanza chiaro che tutta la parte mediana fra le montagne prima citate, a sud della città di Menfi, costituiva un tempo una ampia insenatura del mare, come la zona circostante Ilio o Teutrania o Efeso o come la piana del Meandro, sempre che sia lecito confrontare il piccolo con il grande; in effetti nessuno dei fiumi che hanno originato coi loro sedimenti questi territori è abbastanza grande da essere paragonato degnamente anche solo a uno dei rami del Nilo; e di rami così il Nilo ne ha cinque. Esistono altri fiumi, non della stessa portata del Nilo, che possono vantarsi autori di una imponente opera naturale: potrei citarne molti, l'Acheloo per esempio, che scorre attraverso l'Acarnania: sfociando in mare ha già trasformato in terra ferma una buona metà delle isole Echinadi.

Nel paese d'Arabia, non lontano dall'Egitto, c'è un golfo che dal Mare Eritreo penetra nell'interno, lungo e stretto quanto mi accingo a precisare: in lunghezza, per arrivare dal suo punto più interno al mare aperto, occorrono quaranta giorni di navigazione a remi; in ampiezza, dove è più largo, misura mezza giornata di viaggio. In quel braccio di mare ogni giorno si verifica un moto di flusso e di riflusso. Io credo che anche l'Egitto fosse una volta un golfo di questo tipo: dal mare settentrionale, penetrava in direzione dell'Etiopia, mentre il golfo d'Arabia da sud si volge verso la Siria; i due golfi avevano quasi comunicanti le loro parti più interne divise soltanto da una sottile striscia di terra ferma. Ora, se il Nilo per caso volesse deviare il proprio corso verso il golfo d'Arabia, che cosa gli impedirebbe di interrarlo completamente nel giro di 20.000 anni? Io credo anzi che potrebbe riempirlo in 10.000 anni soltanto. E allora in tutto il tempo passato prima che io nascessi non avrebbe potuto interrarsi anche un golfo molto più ampio, ad opera di un fiume così immenso e così attivo?

Pertanto non solo credo a quanti descrivono così la formazione dell'Egitto, ma io stesso sono convinto che quella è la giusta spiegazione. Io ho visto che l'Egitto si inoltra nel mare più delle terre circostanti, che sulle montagne si trovano conchiglie e che a tratti il sale affiora fino al punto di corrodere le piramidi, che le uniche montagne che hanno sabbia si trovano a sud di Menfi; e inoltre che il suolo dell'Egitto non somiglia né a quello dell'Arabia, con cui confina, né a quello della Libia e neppure a quello della Siria (la zona costiera dell'Arabia è abitata da Siri): ma è terra nera e friabile, perché composta di fango e detriti che il fiume ha trasportato dall'Etiopia. Noi sappiamo che il suolo della Libia è più rossastro e sabbioso, mentre in Arabia e in Siria è più argilloso e ricco di pietrisco.

I sacerdoti mi hanno fornito una ulteriore prova sulla natura di questo terreno, raccontandomi che al tempo del re Meride ogni volta che il fiume superava una altezza di otto cubiti inondava tutta la parte dell'Egitto a nord di Menfi; e quando io udivo questi racconti dei sacerdoti, non erano ancora trascorsi 900 anni dalla morte di Meride. Ora invece, se il livello del fiume non sale almeno a quindici o a sedici cubiti, non straripa nelle campagne. Secondo me gli Egiziani residenti a nord del lago di Meride e in particolare nel cosiddetto Delta, se l'Egitto continuerà a sollevarsi e ad allungarsi con lo stesso ritmo, visto che il Nilo non romperebbe più gli argini, dovranno soffrire per tutto il tempo a venire la stessa sorte che una volta mi prospettarono per i Greci. In effetti una volta, apprendendo che tutto il territorio dei Greci non è irrigato da fiumi come il loro, ma è bagnato soltanto dalle piogge, mi dissero che i Greci avrebbero prima o poi sofferto di qualche carestia non appena la loro grande speranza fosse andata delusa. In altre parole, se il dio non volesse mandare la pioggia, ma far perdurare la siccità, i Greci sarebbero in preda alla fame, non avendo risorse d'acqua diverse dalla pioggia mandata da Zeus.

Il ragionamento degli Egiziani sulla situazione dei Greci è corretto. Ma applichiamolo ora alla situazione egiziana. Se, come dicevo prima, la parte a nord di Menfi (quella in espansione) dovesse continuare a crescere allo stesso ritmo che in passato, i suoi abitanti non soffrirebbero forse la fame quando, privi di piogge, non avessero nemmeno più il fiume a irrigare le campagne? Attualmente fra tutti i popoli del mondo compresi i restanti Egiziani sono loro a faticare meno per trarre frutto dal suolo: non devono sudare a scavare solchi con l'aratro né a zappare né a compiere alcuno di quei lavori faticosi che gli altri uomini dedicano alla coltivazione. Dopo che il fiume spontaneamente tracima, irriga i campi e poi si ritira, spargono le semenze ciascuno nel proprio terreno e vi spingono sopra i maiali, i quali fanno penetrare i semi nella terra; poi aspettano l'epoca della mietitura, battono il grano ancora servendosi dei maiali e in tal modo il raccolto è bell'e fatto.

Se volessimo adottare l'opinione degli Ioni e sostenere che soltanto il Delta è Egitto, limitandone lo sviluppo costiero fra la cosiddetta torre di Perseo e le Tarichee di Pelusio, per una estensione di quaranta scheni, e la lunghezza dal mare verso l'interno solo fino alla città di Cercasoro, dove il Nilo si divide scorrendo verso Pelusio e verso Canobo (mentre le restanti parti dell'Egitto apparterrebbero all'Arabia e alla Libia), adottando, dicevo, questa opinione arriveremmo a dimostrare che gli Egiziani anticamente non avevano un paese. Il fatto è che il Delta, come dichiarano gli Egiziani stessi e come pare anche a me, è una terra alluvionale e, se così si può dire, apparsa di recente. Ora, se davvero essi non avevano alcun paese, perché mai si affannavano tanto a credersi i primi uomini venuti alla luce? E non avrebbe avuto senso spingersi all'esperimento dei bambini per vedere in quale lingua per prima si sarebbero espressi. Io non credo affatto che gli Egiziani siano nati insieme con il Delta (come lo chiamano gli Ioni), credo che siano sempre esistiti, da quando esiste l'uomo, e che con l'avanzare della terra sul mare alcuni di loro rimasero indietro, nell'interno, mentre altri discesero a poco a poco lungo il corso del fiume. E così anticamente si chiamava Egitto la regione di Tebe, il cui perimetro misura 6120 stadi.

Se dunque la nostra idea è giusta, gli Ioni non ragionano bene sull'Egitto; se invece è esatta l'opinione degli Ioni allora io posso dimostrare che i Greci in generale e gli Ioni in particolare non sanno fare di conto, quando sostengono che il mondo abitato è diviso in tre parti, Europa, Asia e Libia. Essi dovrebbero aggiungere, al quarto posto, il Delta d'Egitto, se non appartiene né all'Asia né alla Libia; perché in base a tale ragionamento non è il Nilo a segnare il confine tra l'Asia e la Libia: al vertice del Delta il Nilo si divide creando una zona intermedia fra la Libia e l'Asia.

Ma noi lasciamo perdere l'opinione degli Ioni ed esponiamo al riguardo il nostro parere: è Egitto l'intero territorio abitato dagli Egiziani, così come Cilicia e Assiria sono i territori abitati dai Cilici e dagli Assiri; e non conosciamo alcuna linea di demarcazione tra Asia e Libia, a dire il vero, se non i confini dell'Egitto. Adottando la teoria dei Greci siamo obbligati a ritenere che l'intero Egitto, a partire dalle Cateratte e dalla città di Elefantina, sia diviso in due e cada sotto entrambe le denominazioni, sia cioè in parte Libia e in parte Asia. Infatti il Nilo dalle Cateratte fluisce verso il mare dividendo a metà l'Egitto: fino a Cercasoro scorre compatto, a partire da questa città si divide in tre rami. Uno si dirige verso oriente e si chiama Pelusico, un altro verso occidente e si chiama Canobico; il ramo del Nilo che procede rettilineo proviene dall'interno del paese e raggiunge il vertice del Delta da dove poi si getta in mare tagliando a metà il Delta stesso: si chiama Sebennitico e oltre a essere il più conosciuto presenta anche la maggiore portata d'acqua. Dal Sebennitico si biforcano e vanno a sfociare in mare altre due bocche, dette Saitica e Mendesia. Il Bolbitinico e il Bucolico non sono rami naturali bensì canali artificiali.

Una conferma alla mia convinzione che l'Egitto sia esteso quanto vado mostrando nel mio discorso la fornisce anche un oracolo di Ammone, di cui peraltro ebbi notizia quando ormai la mia opinione me l'ero formata. Una volta gli abitanti delle città di Marea e di Api, ai confini fra l'Egitto e la Libia, ritenendo di non essere egiziani bensì libici, irritati dai rituali del culto (desideravano sottrarsi alla proibizione delle carni di mucca), mandarono una delegazione presso il santuario di Ammone, per protestare che essi non avevano nulla in comune con gli Egiziani: abitavano fuori del Delta, e non concordavano in niente con loro; reclamavano dunque il diritto di gustare qualsiasi vivanda. Ma il dio non glielo permise dichiarando che l'Egitto comprende tutti i territori irrigati dal Nilo con le sue piene, e che quanti abitano a nord di Elefantina e bevono l'acqua di questo fiume sono Egiziani. Così si pronunciò l'oracolo.

Il Nilo quando è in piena non inonda solo il Delta ma anche il cosiddetto territorio libico e in qualche luogo anche quello arabico fino a una distanza, da entrambe le sponde, di due giorni di viaggio in media. Sulla natura del fiume non mi è riuscito di ottenere informazioni né dai sacerdoti né da nessun altro. Avrei molto desiderato che mi spiegassero per quale motivo il Nilo scorre in piena per cento giorni a cominciare dal solstizio d'estate, e poi, una volta vicino lo scadere di questo periodo, si ritira abbassando il livello delle proprie acque, tanto da restare in regime di magra per tutto l'inverno e fino al successivo solstizio d'estate; ma in proposito non ho potuto apprendere nulla dagli Egiziani. Io chiedevo loro in base a quale sua proprietà il Nilo abbia un regime contrario a quello degli altri fiumi. Questa era la domanda che rivolgevo a loro nel mio desiderio di imparare e chiedevo anche perché il Nilo è l'unico fiume dal quale non soffiano brezze.

Alcuni Greci, desiderosi di segnalarsi per sapienza, hanno proposto a spiegazione del fenomeno dell'acqua tre diverse teorie, due delle quali non mi sembrano degne di nota al di là di una semplice menzione. La prima attribuisce le piene del Nilo all'azione dei venti etesii, che impedirebbero al fiume di sfociare nel mare; però spesso accade che il Nilo si comporti nell'identico modo senza che i venti etesii abbiano soffiato: inoltre, se la causa risalisse ai venti etesii, anche gli altri fiumi che scorrono in senso contrario alla direzione di quei venti sarebbero soggetti a un identico fenomeno, anzi maggiormente soggetti, in quanto essendo più poveri d'acqua presentano correnti più deboli. Invece esistono molti fiumi in Siria, e molti in Libia, che non si comportano affatto come il Nilo.

La seconda teoria è meno scientifica della precedente ma più affascinante da esporre: essa afferma che il Nilo si comporta in maniera innaturale perché trae origine dall'Oceano, e l'Oceano è quel fiume che circonderebbe tutta la terra.

La terza teoria, di gran lunga la più plausibile, è la più menzognera. In effetti non spiega nulla affermando che il Nilo è alimentato dallo scioglimento delle nevi. Ora, il Nilo proviene dalla Libia, scorre attraverso l'Etiopia e sfocia in Egitto; come dunque potrebbe originarsi dalle nevi se fluisce dalle regioni più calde del mondo in direzione di regioni in gran parte più temperate? Per chiunque sia in grado di fare uso della ragione su simili argomenti la prima e principale prova che l'origine del Nilo dallo scioglimento delle nevi non è una spiegazione logica è già nel fatto che i venti che spirano dalle regioni in questione sono venti caldi. Una seconda prova è l'assenza di precipitazioni e di ghiacci in tutto il paese e per tutto l'anno: ora, entro cinque giorni dopo una nevicata, sempre, inevitabilmente comincia a piovere, cosicché, se in queste regioni cadesse la neve, dovrebbe cadervi pure la pioggia. Terza prova, gli uomini hanno la pelle scura a causa del caldo. Nibbi e rondini, poi, vi trascorrono l'intero anno senza migrare, mentre le gru, quando fuggono l'inverno della Scizia, si trasferiscono sempre in quei paesi per trascorrervi la stagione fredda. Ora, nessuno di questi fatti si verificherebbe se nevicasse anche solo un po' lungo il corso del Nilo, sia nel paese in cui scorre sia nella zona delle sorgenti: questa è una prova inequivocabile.

Chi ha parlato dell'Oceano non teme smentita perché ha tirato in ballo l'ignoto; io non ho mai saputo dell'esistenza dell'Oceano, anzi credo che quel nome sia un'invenzione poetica di Omero o di qualcuno dei primi cantori.

Se però, dopo aver criticato le opinioni sin qui esposte, devo proprio fornire una mia interpretazione di fatti così oscuri, dirò perché, a mio parere, il Nilo va in piena nel periodo estivo. Nella stagione invernale il sole si allontana dal suo originario percorso a causa delle tempeste e si porta sopra le regioni più interne della Libia; e questo è già sufficiente se ci si limita ad una spiegazione minimale: è naturale che il paese più da vicino sorvolato dal dio sole sia il più povero di acqua e che si prosciughi il corso dei suoi fiumi.

Volendo dare una spiegazione più ampia si deve parlare, le cose stanno così, dell'azione del sole quando attraversa le contrade interne della Libia. Dato che in queste zone l'atmosfera è sempre serena in ogni momento dell'anno e il clima è sempre torrido, privo di venti freschi, il sole attraversandole opera esattamente come da noi in estate quando passa nel mezzo del cielo: attira verso di sé l'elemento umido e quindi lo spinge verso le regioni più interne; lì poi i venti se ne impadroniscono, lo disperdono e lo fanno svaporare. Ed è perciò naturale che i venti provenienti da quella parte del mondo, il noto e il libeccio, siano in assoluto i più piovosi. Però io credo che il sole non si liberi completamente dell'acqua attirata ogni anno dal Nilo, ma che ne trattenga un po' attorno a sé. Col mitigarsi dell'inverno il sole ritorna nella parte mediana del cielo e da allora ormai attira a sé ugualmente acqua da tutti i fiumi. Fino ad allora i fiumi, se attraversano paesi bagnati dalla pioggia o solcati da torrenti, scorrono in piena grazie al consistente apporto di acqua piovana, d'estate invece per l'assenza di piogge e per l'attrazione del sole, sono in magra. Al contrario il Nilo, che non riceve mai piogge ma è attratto dal sole, è l'unico fiume ad essere, per ragioni del tutto naturali, più povero d'acqua in inverno che in estate: d'estate come tutti i fiumi risente del processo di evaporazione, d'inverno invece è l'unico a subirlo. Così io ritengo il sole all'origine dei fenomeni in questione.

E secondo me, sempre il sole fa sì che l'aria sia lì asciutta, perché attraversandola la brucia: in tal modo nelle zone interne della Libia è sempre estate. Se si verificasse una rivoluzione delle stagioni e nella parte di cielo in cui ora si trovano il vento borea e l'inverno si trovassero il noto e il mezzogiorno e viceversa dov'è il noto soffiasse borea, se le cose stessero così, il sole, scacciato dalla parte mediana del cielo dall'inverno e da borea, si porterebbe sulle zone settentrionali dell'Europa, esattamente come ora sorvola la Libia; e io mi attenderei che attraversando l'Europa intera influisse sul corso dell'Istro come ora influisce su quello del Nilo.

Quanto all'assenza di brezze lungo il corso del fiume, non ritengo per niente naturale che da regioni calde provengano correnti d'aria; l'aria solitamente soffia da qualche luogo freddo.

Ma tutti questi fenomeni stiano pure come sono e come furono fin dall'origine. Quanto alle sorgenti del Nilo nessun Egiziano, Libico o Greco venuto a colloquio con me sostenne mai di conoscerle, tranne lo scriba del sacro tesoro di Atena, nella città di Sais, in Egitto; ma quando costui mi disse di conoscerle con certezza, ebbi l'impressione che mi stesse prendendo in giro. Parlava infatti di due monti dalle cime aguzze situati fra le città di Siene nella Tebaide e di Elefantina, detti Crofi e Mofi; le sorgenti del Nilo, che sono inesplorabili, scaturirebbero appunto in mezzo a questi due monti: metà dell'acqua si riverserebbe a nord, verso l'Egitto, l'altra metà a sud, verso l'Etiopia. A stabilire che le sorgenti del Nilo sono inesplorabili sarebbe giunto il re d'Egitto Psammetico; costui, fatta intrecciare una corda lunga molte migliaia di orgie, l'avrebbe calata lì senza riuscire a raggiungere il fondo. Questo scriba, ammesso che raccontasse cose realmente avvenute, dimostrava soltanto, per quanto posso capire, che esistevano nelle sorgenti dei gorghi violenti, un rigurgito, e che lo scandaglio non poteva raggiungere il fondo per via del cozzare dell'acqua contro le rocce.

Da nessun altro ho potuto ottenere informazioni. Ma ecco altre notizie, le più complete che ho potuto mettere insieme; fino a Elefantina mi sono spinto di persona, come osservatore; da questo luogo in poi possiedo solo opinioni altrui, raccolte interrogando la gente. Ebbene oltre la città di Elefantina il paese si fa scosceso; a questo punto è indispensabile procedere assicurando l'imbarcazione con delle funi su entrambe le rive, come si fa con i buoi; e se la corda si strappa il battello viene trascinato via dalla violenza della corrente. Si procede così via fiume per quattro giorni; qui il Nilo è tortuoso come il Meandro. Sono dodici gli scheni da percorrere navigando così, dopo di che arrivi in una pianura uniforme nella quale il Nilo scorre intorno ad un'isola chiamata Tacompso. La regione a sud di Elefantina è abitata dagli Etiopi, l'isola invece è per metà abitata da Etiopi e per metà da Egiziani. Contiguo all'isola è un grande lago intorno al quale vivono popolazioni etiopiche nomadi; lo attraversi e ritorni nel corso del Nilo, immissario del lago. Poi devi scendere a terra e risalire lungo il fiume a piedi per quaranta giorni: qui nel Nilo affiorano scogli aguzzi e ci sono molte rocce che non consentono la navigazione. In quaranta giorni superi questo tratto e t'imbarchi su un altro battello; dopo altri dodici giorni di navigazione arrivi finalmente a una grande città chiamata Meroe. Meroe, si dice, è la metropoli di tutti gli altri Etiopi. I suoi abitanti venerano fra gli dei solamente Zeus e Dioniso: li onorano in sommo grado e hanno persino un oracolo di Zeus: fanno guerra solo quando questo dio glielo ordina per mezzo di vaticini, e solo contro i paesi da lui indicati.

Risalendo il fiume da Meroe, in un tempo pari a quello necessario per arrivare da Elefantina alla città madre degli Etiopi, si raggiungono i «disertori». Questi «disertori» si chiamano «Asmach» termine che tradotto in greco significa «quelli che stanno alla sinistra del re»: si tratta di 240.000 guerrieri egiziani rifugiatisi in questa parte dell'Etiopia per la ragione che ora vi narro. Sotto il regno di Psammetico erano state dislocate guarnigioni in varie città: a Elefantina per difendersi dagli Etiopi, a Dafne Pelusica contro Arabi e Siri, e a Marea contro i Libici. Ancora ai miei tempi sotto i Persiani i corpi di guardia sussistono dove si trovavano all'epoca di Psammetico: guarnigioni persiane sono appunto di stanza a Elefantina e a Dafne. Ebbene quegli Egiziani, visto che dopo tre anni di presidio nessuno veniva a sollevarli dall'incarico, si consigliarono fra loro e di comune accordo defezionarono in blocco da Psammetico per passare in Etiopia. Psammetico, informatone, li inseguì e quando li ebbe raggiunti li pregò a lungo, esortandoli fra l'altro a non abbandonare gli dei della loro patria, i figli e le mogli; ma uno di loro, sembra, mostrando al re i genitali rispose che dovunque ci fossero quelli avrebbero avuto e figli e mogli. Essi poi, giunti in Etiopia, si consegnarono al re degli Etiopi, il quale li ricompensò invitandoli a scacciare alcuni gruppi di Etiopi ribelli e a occuparne i territori. Da quando questi «disertori» si insediarono in Etiopia, gli Etiopi si sono fatti più civili avendo imparato alcune abitudini egiziane.

Insomma il Nilo, escluso il suo tratto egiziano, si conosce fino ad una distanza di quattro mesi di navigazione e di cammino; tanti infatti risultano, a calcolarli, i mesi necessari a un viaggiatore per recarsi da Elefantina fino presso i «disertori»; il fiume proviene da ovest, dalle regioni del tramonto. Che cosa vi sia oltre nessuno è in grado di dirlo con precisione: quella regione è disabitata per via del clima torrido.

Però io ho parlato con dei Cirenei che raccontavano di una loro visita all'oracolo di Ammone: mentre conversavano con Etearco, re degli Ammoni, il discorso era caduto fra l'altro sul Nilo, sul fatto che nessuno ne conosce le sorgenti; allora Etearco raccontò di aver ricevuto una volta la visita di alcuni Nasamoni (si tratta di una popolazione libica che abita la Sirte e una piccola porzione di territorio a est della Sirte). Quando arrivarono da lui, dunque, il re chiese a questi Nasamoni se potevano aggiungere qualche notizia a quanto già sapeva sui deserti della Libia; essi gli risposero che c'era stato fra i Nasamoni un gruppo di giovani temerari, figli di notabili, i quali, divenuti adulti, fra le altre straordinarie imprese escogitate, avevano tratto a sorte cinque di loro che andassero a esplorare i deserti della Libia, per tentare di vedere qualcosa di più di quelli che avevano visto i luoghi più lontani. La fascia costiera settentrionale della Libia, a partire dall'Egitto fino al promontorio Solunte, dove la Libia termina, è abitata interamente da Libici, divisi in molte e varie popolazioni, a eccezione dei territori occupati da Greci e Fenici. A sud della zona costiera e di quanti vi abitano la Libia è popolata da bestie feroci; oltre ancora si estende un deserto di sabbia terribilmente arido e completamente disabitato. I giovani inviati dai loro coetanei partirono con buone provviste di viveri e d'acqua: subito attraversarono la fascia abitata, poi, superatala, raggiunsero la zona popolata da fiere; da qui si spinsero attraverso il deserto avanzando sempre in direzione ovest. Dopo aver superato un vasto tratto sabbioso, in capo a molti giorni videro degli alberi cresciuti in una landa pianeggiante; si avvicinarono e presero a staccare i frutti prodotti da quegli alberi, ma mentre li staccavano sopraggiunsero uomini piccoli, di statura inferiore alla media umana, che li catturarono e li condussero via; i Nasamoni non conoscevano la loro lingua e quelli non conoscevano la lingua dei Nasamoni. Li condussero attraverso immense distese paludose; terminate le paludi giunsero a una città i cui abitanti erano tutti alti quanto gli uomini che li conducevano e avevano tutti la pelle scura. Lungo la città scorreva un grande fiume, proveniente da ovest e diretto a est, dentro al quale si vedevano dei coccodrilli.

E per quanto ci riguarda, il racconto dell'Ammonio Etearco si fermi pure qui; si aggiunga solo che, secondo il racconto dei Cirenei, i Nasamoni fecero ritorno, e che gli uomini presso cui essi erano arrivati erano tutti degli stregoni. Quanto al fiume che scorreva nei pressi della città, anche Etearco conveniva trattarsi del Nilo, e lo esige il ragionamento: il Nilo in effetti proviene dalla Libia e la taglia a metà; e per quanto posso indovinare, congetturando le cose ignote dalle cose visibili, direi che il Nilo raggiunge la stessa lunghezza dell'Istro. Il fiume Istro ha origine nelle regioni celtiche presso la città di Pirene e col suo corso divide in due l'Europa. I Celti dimorano al di là delle colonne d'Eracle e confinano con i Cinesii, il più occidentale di tutti i popoli insediati nell'Europa. L'Istro, dopo aver attraversato l'Europa, termina sfociando nel Ponto Eusino, all'altezza di Istria, città abitata da coloni di Mileto.

Insomma scorrendo attraverso territori ben popolati l'Istro è ben conosciuto da molti; nessuno invece è in grado di parlare delle sorgenti del Nilo, perché la Libia, attraverso cui fluisce, è disabitata e deserta: sul suo corso ho detto tutto ciò che mi è stato possibile apprendere con le mie ricerche. Sbocca in Egitto e l'Egitto è situato all'incirca di fronte alla montuosa Cilicia; dalla Cilicia a Sinope sul Ponto Eusino un corriere equipaggiato alla leggera impiega cinque giorni di viaggio in linea retta; e Sinope è situata proprio di fronte alle foci dell'Istro. Perciò io credo che la lunghezza del Nilo, che attraversa tutta la Libia, sia pari a quella dell'Istro. E questo concluda il discorso sul Nilo.

Passo invece a parlare diffusamente dell'Egitto perché, rispetto a ogni altro paese, è quello che racchiude in sé più meraviglie e che presenta più opere di una grandiosità indescrivibile: ecco perché se ne discorrerà più a lungo. Gli Egiziani oltre a vivere in un clima diverso dal nostro e ad avere un fiume di natura differente da tutti gli altri fiumi, possiedono anche usanze e leggi quasi sempre opposte a quelle degli altri popoli: presso di loro sono le donne a frequentare i mercati e a praticare la compravendita, mentre gli uomini restano a casa a lavorare al telaio; e se in tutto il resto del mondo per tessere si spinge la trama verso l'alto, gli Egiziani la spingono verso il basso. Gli uomini portano i pesi sulla testa, le donne li reggono sulle spalle. Le donne orinano d'in piedi, gli uomini accovacciati; inoltre fanno i loro bisogni dentro casa e consumano i pasti per la strada, sostenendo che alle necessità sconvenienti bisogna provvedere in luoghi appartati, a quelle che non lo sono, invece, davanti a tutti. Nessuna donna svolge funzioni sacerdotali né per divinità maschili né per divinità femminili: per gli uni e per le altre il compito spetta agli uomini. I figli maschi non hanno alcun obbligo di mantenere i genitori se non lo desiderano, ma per le figlie l'obbligo è ineludibile anche se non vogliono.

Negli altri paesi i sacerdoti degli dei portano i capelli lunghi, invece in Egitto se li radono. E se presso gli altri popoli, in caso di lutto, i più colpiti, di regola, si radono il capo, gli Egiziani, quando qualcuno muore, si lasciano crescere i capelli e la barba che prima si radevano. Gli altri uomini vivono ben separati dagli animali, in Egitto si abita insieme con loro. Gli altri si nutrono di grano e orzo, in Egitto chi si nutre di questi prodotti si attira il massimo biasimo: essi si preparano cibi a base di «olira», che alcuni chiamano «zeia». Impastano la farina con i piedi mentre lavorano il fango con le mani [e ammucchiano il letame]. Gli Egiziani si fanno circoncidere, mentre le altre genti, a eccezione di quanti hanno appreso da loro tale pratica, lasciano i propri genitali come sono. Ogni uomo possiede due vestiti; le donne ne possiedono uno solo. Gli altri legano gli anelli delle vele e le sartie all'esterno, gli Egiziani all'interno. I Greci scrivono e fanno di conto coi sassolini da sinistra a destra, gli Egiziani da destra a sinistra, e ciò facendo sostengono di procedere nel verso giusto, mentre i Greci scriverebbero a rovescio. Possiedono due sistemi di scrittura che chiamano «sacra» e «popolare».

Sono straordinariamente devoti, più di tutti gli uomini e si attengono alle seguenti prescrizioni: bevono in tazze di bronzo, che sfregano ben bene ogni giorno, tutti, senza eccezioni; indossano vesti di lino sempre lavate di fresco, e nel lavarle mettono molta cura. E si circoncidono per ragioni igieniche, anteponendo l'igiene al decoro personale. Ogni due giorni i sacerdoti si radono tutto il corpo per non avere addosso pidocchi o sudiciume di qualunque genere mentre servono gli dei: i sacerdoti portano solo vesti di lino e calzano solo sandali di papiro: non possono portare indumenti o calzari di materiale diverso. Si lavano con acqua fredda due volte al giorno e due volte ogni notte e si attengono a vari altri cerimoniali: ne hanno a migliaia, si fa per dire. Ma la loro condizione comporta anche privilegi non indifferenti; per esempio non consumano e non spendono il loro patrimonio privato: gli vengono cotti pani sacri e quotidianamente ricevono ciascuno una grande quantità di carni bovine e di oca; e gli si offre anche vino d'uva; di pesci però non possono cibarsi. Gli Egiziani non seminano assolutamente fave nel loro paese, e quelle che crescono spontaneamente non le mangiano né crude né cotte: i sacerdoti non ne tollerano neppure la vista considerandole un legume impuro. Non c'è un solo sacerdote per ciascuna divinità, ma molti e uno di loro funge da sommo sacerdote; e quando ne muore uno gli succede il figlio.

Considerano sacri ad Epafo i buoi e perciò li selezionano con cura: se vedono in un bue anche un solo pelo nero lo ritengono impuro. Uno dei sacerdoti è preposto a compiere questa ispezione: esamina l'animale facendolo stare in piedi e steso sul dorso e gli osserva anche la lingua accertandone la purezza sulla base di certi indizi prestabiliti di cui parlerò in un'altra occasione; esamina anche i peli della coda per vedere se sono cresciuti normalmente. Se il bue risulta completamente privo di impurità, il sacerdote lo contrassegna legandogli un foglio di papiro intorno alle corna; sul papiro applica creta da sigilli; vi appone il marchio e l'animale viene portato via. Per chiunque sacrifichi un bue privo di marchio è prevista la morte come punizione.

Questo per quanto riguarda la cernita del bestiame; il sacrificio poi si svolge così: conducono la bestia marchiata presso l'altare designato per il rito e accendono il fuoco; versano quindi libagioni di vino sulla vittima e la sgozzano sull'altare invocando il dio, e dopo averla sgozzata le tagliano la testa. Il corpo lo scuoiano, la testa invece, dopo averle scagliato contro numerose maledizioni, la portano via: dove c'è un mercato e tra la popolazione si trovino commercianti greci, allora la portano al mercato e la vendono, dove non ci sono Greci la gettano nel fiume. Nel maledire le teste di bue pregano che se una sciagura sta per sopravvenire sui sacrificanti o sull'Egitto intero, si scarichi invece su quella testa. Quanto alle teste degli animali sacrificati e alla libagione di vino tutti gli Egiziani osservano lo stesso rituale, identico, per tutti i sacrifici; in conseguenza proprio di tale usanza, nessun Egiziano si ciberebbe mai della testa di alcun animale.

Invece l'estrazione delle viscere della vittima e il modo di bruciarle differiscono a seconda dei sacrifici. E ora vengo a parlare della dea che essi considerano più importante, in onore della quale celebrano la festa più importante. Dopo aver scuoiato il bue, pronunciano le preghiere rituali e lo sventrano togliendo tutti gli intestini ma lasciando nella carcassa i visceri e il grasso; tagliano poi le zampe, la punta dei lombi, le spalle e il collo. Quindi riempiono ciò che resta del bue con pani di farina pura, miele, uva secca, fichi, incenso, mirra e altre sostanze aromatiche, e così riempito lo bruciano in sacrificio versandovi sopra olio in abbondanza. Prima del sacrificio osservano il digiuno; e mentre le vittime bruciano tutti si battono il petto; quando hanno smesso di battersi il petto, si preparano un banchetto con le parti rimaste della vittima.

Tutti gli Egiziani sacrificano i buoi maschi e i vitelli che risultano puri, ma non possono toccare le mucche in quanto sacre a Iside. E infatti la statua di Iside rappresenta una donna con corna bovine, proprio come i Greci raffigurano Io; assolutamente non c'è animale domestico venerato dagli Egiziani più delle femmine dei bovini. Per questo motivo mai nessun Egiziano, uomo o donna, accetterebbe di baciare un Greco sulla bocca, né mai userebbe il coltello, lo spiedo o la pentola di un Greco, e neppure assaggerebbe la carne di un bue puro tagliato con un coltello greco. Quando un bovino muore, gli danno sepoltura nel modo seguente: le mucche le gettano nel fiume, i buoi li seppelliscono ciascuno nel proprio sobborgo, lasciando spuntare dal suolo a mo' di indicazione un corno della bestia o anche entrambi. Si attende che l'animale si sia decomposto e al momento stabilito in ogni città arriva una barca dall'isola chiamata Prosopitide. L'isola si trova nel Delta: nel suo perimetro, di nove scheni, si trovano varie altre città, ma quella da cui vengono le imbarcazioni a caricare le ossa dei buoi si chiama Atarbechi; qui ha sede un tempio sacro ad Afrodite. Da Atarbechi partono in molti verso differenti città: dissotterrano le ossa, le portano via e le seppelliscono in un unico luogo. E così seppelliscono anche gli altri animali che muoiono; anche per essi vige l'identica legge: non li possono uccidere.

Quanti hanno eretto un tempio a Zeus Tebano, o sono del distretto di Tebe, sacrificano capre evitando di toccare le pecore. In effetti gli Egiziani non venerano tutti ugualmente gli stessi dei, tranne Iside e Osiride, che dicono corrispondere a Dioniso: queste due divinità le venerano proprio tutti. Quanti hanno un santuario di Mendes o fanno parte del distretto Mendesio si astengono dal sacrificare caprini e uccidono solo ovini. I Tebani e chi ha appreso da loro ad astenersi dalle pecore dicono che tale regola venne imposta loro per la seguente ragione. Eracle, raccontano, fu preso da un gran desiderio di vedere Zeus, ma Zeus non voleva essere visto da lui; poiché Eracle insisteva Zeus dovette ricorrere ad un artificio: scuoiò un montone e gli tagliò la testa; poi si mostrò a Eracle tenendo la testa del montone davanti alla propria e indossandone la pelle. Ecco perché gli Egiziani rappresentano Zeus nelle statue con la testa di montone; e come gli Egiziani fanno gli Ammoni, che sono coloni egiziani ed etiopici e la cui lingua è una via di mezzo tra l'egiziano e l'etiope. A mio parere gli Ammoni derivarono dal dio egizio anche il loro nome, dato che gli Egiziani chiamano Ammone Zeus. Dunque per questo motivo i Tebani non sacrificano i montoni, anzi li ritengono animali sacri. Però c'è un giorno, nell'anno, durante la festa di Zeus, in cui uccidono un montone, lo scuoiano e con la sua pelle rivestono nella stessa maniera la statua di Zeus; accanto ad essa trasportano una statua di Eracle; dopodiché tutti gli addetti al tempio si battono il petto in segno di lutto per il montone e lo seppelliscono in una fossa consacrata.

A proposito di Eracle ho sentito raccontare che è una delle dodici divinità. Dell'altro Eracle, quello conosciuto dai Greci, in nessuna parte dell'Egitto ho potuto avere notizie. Che non siano stati gli Egiziani a prendere il nome di Eracle dai Greci, ma piuttosto i Greci dagli Egiziani, e precisamente quei Greci che chiamarono Eracle il figlio di Anfitrione, molti indizi me lo provano e il seguente in particolare: Anfitrione e Alcmena, i genitori dell'Eracle greco, avevano antenati originari dell'Egitto. Del resto gli Egiziani dichiarano di non conoscere i nomi né di Posidone né dei Dioscuri, e non li annoverano fra le restanti divinità. Ora, se gli Egiziani avessero adottato dai Greci un personaggio divino, si sarebbero ricordati di questi in misura non minore, ma maggiore, se è vero che anche allora erano dediti alla navigazione ed esistevano dei marinai Greci; così almeno mi aspetterei e questo il mio ragionamento richiede. Insomma non Eracle bensì queste altre figure divine gli Egiziani avrebbero dovuto derivare dai Greci. L'Eracle egiziano è certamente un dio antico; come essi stessi raccontano fra il regno di Amasi e l'epoca in cui gli originari otto dei diventarono dodici (Eracle secondo loro era uno di questi dodici) son passati 17.000 anni.

Io poi, volendo conoscere le cose con chiarezza da chi era in grado di dirmele, mi recai per mare fino a Tiro, in Fenicia; avevo saputo che là si trovava un tempio sacro a Eracle, e lo vidi, riccamente adorno di molti e vari doni votivi; e fra l'altro c'erano due colonnine, una d'oro puro, l'altra di smeraldo che nella notte riluceva grandemente. Conversando con i sacerdoti del dio domandai da quanto tempo fosse stato costruito il tempio, e così constatai che neanche nel caso loro c'era concordanza con i Greci: mi risposero infatti che il tempio risaliva all'epoca della fondazione di Tiro, e che Tiro era abitata da 2300 anni. A Tiro vidi anche un altro tempio di Eracle, detto di Eracle Tasio, perciò visitai anche Taso e vi trovai un santuario di Eracle edificato dai Fenici che, andando per mare alla ricerca di Europa, fondarono Taso; e tutto ciò era accaduto almeno cinque generazioni prima che in Grecia nascesse l'Eracle figlio di Anfitrione. Le indagini dimostrano dunque, con evidenza, che Eracle è un dio molto antico. Per conto mio l'atteggiamento più corretto lo mostrano quei Greci che hanno edificato santuari dedicati a due Eracle, a uno sotto l'appellativo di Olimpio offrendo sacrifici come a un dio immortale, all'altro rendendo onori come a un eroe.

Sono molte e varie le cose che i Greci raccontano con assoluta superficialità, fra le quali una sciocca storia riguardante un viaggio di Eracle in Egitto; qui gli Egiziani dopo avergli legato intorno alla testa le sacre bende lo avrebbero condotto in processione per immolarlo a Zeus; lui per un po' sarebbe rimasto tranquillo, ma poi, quando cominciarono presso l'altare i riti per il suo olocausto, fece ricorso alla forza e uccise tutti gli Egiziani. A me pare che i Greci narrando questa favoletta dimostrino di ignorare assolutamente l'indole e le usanze egiziane. Infatti, gente per cui costituisce empietà persino immolare animali, tranne ovini, buoi, vitelli, e purché siano puri, e oche, come potrebbe, gente così, compiere sacrifici umani? E come avrebbe potuto Eracle, da solo, e per di più da semplice mortale, a sentir loro, uccidere decine di migliaia di Egiziani? A noi che abbiamo speso così tante parole su tali argomenti gli dei e gli eroi concedano il loro favore.

Ma ecco perché i Mendesi, Egiziani da noi già nominati, non sacrificano né i maschi né le femmine delle capre: essi annoverano Pan fra le otto divinità, e dicono che queste otto divinità esistevano prima dei dodici dei, e gli artisti nelle loro pitture e nelle loro sculture rappresentano Pan come fanno i Greci, con volto di capra e zampe di capro; non perché lo credano fatto così, anzi lo ritengono simile agli altri dei, ma per una ragione che ora non mi fa piacere riferire. I Mendesi venerano tutti i caprini, gli esemplari femmina e ancora di più i maschi, i cui guardiani ricevono onori maggiori; tra gli animali ce n'è uno particolarmente venerato alla cui morte nel nomo di Mendes si proclama un lutto generale. Tra l'altro capro e Pan, in egiziano si dicono «mendes». E ai miei tempi in questo distretto avvenne un fatto straordinario: pubblicamente una donna si accoppiava con un capro, alla luce del sole, dico, davanti a tutti.

Gli Egiziani considerano il maiale un animale immondo; già uno, se fa tanto di sfiorare un maiale passandogli accanto, va subito a immergersi nel fiume, così com'è, con tutti i vestiti indosso; i guardiani di maiali, poi, anche se egiziani di nascita, sono gli unici a non poter entrare in alcun santuario egiziano; e nessuno desidera concedere per sposa sua figlia a uno di loro, o prendere in moglie la figlia di un porcaro, tanto che i porcari finiscono per celebrare matrimoni solo all'interno del gruppo. Gli Egiziani non ritengono lecito offrire suini a dei che non siano Selene e Dioniso; a tali divinità sacrificano maiali, nello stesso periodo, nello stesso plenilunio, e ne mangiano le carni. Sul motivo per cui nelle altre feste si astengono con orrore dai maiali, e in questa invece ne sacrificano, gli Egiziani narrano una leggenda: io la conosco ma non mi sembra molto decorosa da riferire. L'offerta del maiale alla dea Selene avviene nel modo seguente: una volta ucciso l'animale, si prendono insieme la punta della coda, la milza e l'omento, li si ricopre per bene col grasso ventrale della vittima e li si brucia; delle altre carni ci si ciba nel giorno di plenilunio, lo stesso in cui il rito ha luogo: in giorni diversi non le si assaggerebbe nemmeno. I poveri, non avendo altre risorse, impastano focacce in forma di maiale, le fanno cuocere e poi le «sacrificano».

Invece in onore di Dioniso, la vigilia della festa, ciascuno sgozza un porcellino davanti alla propria porta e lo consegna allo stesso porcaro che glielo aveva venduto perché se lo porti via. Per il resto, a parte l'assenza di cori, la festa dedicata dagli Egiziani a Dioniso è pressoché identica a quella dei Greci. Al posto dei falli hanno inventato statuette mosse da fili, alte circa un cubito che le donne portano in giro per i villaggi; ogni marionetta è fornita di un pene oscillante, lungo quasi quanto il resto del corpo. In testa alla processione va un suonatore di flauto, le donne lo seguono inneggiando a Dioniso. Una leggenda sacra spiega per quale ragione il fallo è così sproporzionato e perché nelle statuette è l'unica parte dotata di movimento.

A me pare che già Melampo figlio di Amitaone non ignorasse questo rito sacrificale, anzi ne avesse esperienza diretta. Effettivamente fu Melampo a introdurre fra i Greci la divinità di Dioniso, i sacrifici relativi, e la processione dei falli; o meglio, egli non rivelò tutto in una volta tale culto: i sapienti venuti dopo di lui ampliarono le sue rivelazioni. Fu però Melampo a introdurre la processione del fallo in onore di Dioniso, ed è dopo averlo appreso da lui che i Greci fanno quello che fanno. Io dico insomma che Melampo, certamente persona di grande sapienza, si procurò capacità divinatorie e introdusse in Grecia parecchi culti conosciuti in Egitto, tra cui in particolare quello di Dioniso, operando in essi poche modifiche. Non posso ammettere che il rito egiziano coincida fortuitamente con quello greco: in questo caso il rito greco sarebbe conforme ai costumi greci e non di recente introduzione; né posso ammettere che gli Egiziani abbiano derivato dai Greci questa o altre usanze. A me pare altamente probabile che Melampo abbia appreso il culto di Dioniso da Cadmo di Tiro e dai suoi compagni, giunti dalla Fenicia nel paese oggi chiamato Beozia.

Dall'Egitto vennero in Grecia quasi tutte le divinità. Di una loro origine barbara io sono convinto perché così risulta dalle mie ricerche; e penso a una provenienza soprattutto egiziana. Infatti a eccezione di Posidone e dei Dioscuri, come ho già avuto modo di dire, nonché di Era, di Estia, di Temi, delle Cariti e delle Nereidi, le altre divinità sono tutte presenti da sempre in quel paese, fra gli Egiziani: riporto quanto essi stessi dichiarano. Quanto alle divinità che sostengono di non conoscere io credo che tutte siano espressione dei Pelasgi, tranne Posidone. Conobbero questo dio dai Libici; infatti nessun popolo conosce Posidone fin dalle origini tranne i Libici, che da sempre lo onorano. Quanto al culto degli Eroi, esso è del tutto estraneo alle consuetudini egiziane.

Tutto questo dunque i Greci accolsero dagli Egiziani, e altro ancora che dirò più avanti; ma l'uso di fabbricare le statue di Ermes con il pene ritto non deriva dagli Egiziani bensì dai Pelasgi: i primi ad adottarlo fra i Greci furono gli Ateniesi, e da loro lo impararono gli altri. Infatti, quando ormai gli Ateniesi si erano del tutto ellenizzati, nel loro paese vennero ad abitare dei Pelasgi; che è anche la ragione per cui costoro cominciarono a essere considerati Greci. Chi è iniziato ai misteri dei Cabiri, misteri che i Samotraci celebrano dopo averli acquisiti dai Pelasgi, sa ciò che dico. In effetti i Pelasgi venuti a coabitare con gli Ateniesi si stanziarono poi in Samotracia e da loro i Samotraci appresero tali misteri. Insomma gli Ateniesi furono i primi Greci a raffigurare nelle statue Ermes con il membro ritto perché lo avevano imparato dai Pelasgi. In proposito i Pelasgi composero un sacro racconto divulgato durante i misteri di Samotracia. |[continua]|

 

|[LIBRO II, 2]|

Un tempo i Pelasgi, come io stesso so avendolo udito a Dodona, compivano tutti i sacrifici e invocavano gli dei senza usare un nome personale o un appellativo: ancora non conoscevano nulla del genere. Li chiamarono «dei» ($èåïß$) in quanto avevano stabilito ($èÝíôåò$) l'ordine dell'universo e quindi regolavano la ripartizione di ogni cosa. Molto tempo dopo appresero i nomi di tutti gli altri dei, originari dell'Egitto, tranne quelli di Dioniso che appresero molto più tardi; dopo un certo tempo interrogarono l'oracolo di Dodona a proposito di tali nomi; l'oracolo di Dodona è considerato il più antico della Grecia intera e a quell'epoca era anche l'unico. Dunque i Pelasgi chiesero a Dodona se dovevano accogliere le divinità provenienti da genti barbare e l'oracolo rispose di accoglierle pure. Da allora nei loro sacrifici adoperarono gli appellativi divini. Tale uso passò più tardi dai Pelasgi ai Greci.

Da chi sia nato ciascuno degli dei, oppure se siano sempre esistiti tutti e quale aspetto avessero, non era noto fino a poco tempo fa, fino a ieri, se così si può dire. Io credo che Omero ed Esiodo siano più vecchi di me di 400 anni e non oltre: e furono proprio questi poeti a fissare per i Greci la teogonia, ad assegnare i nomi agli dei, a distribuire prerogative e attività, a dare chiare indicazioni sul loro aspetto; i poeti che hanno fama di essere vissuti prima di loro io li credo invece posteriori. Di quanto qui sopra esposto, le prime informazioni provengono dalle sacerdotesse di Dodona, ciò che si riferisce a Omero e a Esiodo è opinione mia.

A proposito dei due oracoli, quello greco di Dodona e quello libico di Zeus Ammone, gli Egiziani narrano una storia. I sacerdoti di Zeus Tebano mi raccontarono di due donne, due sacerdotesse, rapite da Tebe ad opera di Fenici: una di loro, come avevano appreso più tardi, era stata venduta in Libia, l'altra in Grecia; a queste donne risalirebbe la fondazione degli oracoli esistenti fra i suddetti popoli. Io domandai ai sacerdoti da dove attingessero notizie così precise sugli avvenimenti ed essi mi risposero che avevano cercato a lungo quelle donne senza riuscire a trovarle; solo più tardi, aggiunsero, avevano ottenuto su di loro le informazioni a me riferite.

Questo è quanto seppi dai sacerdoti di Tebe. La versione delle indovine di Dodona è differente: secondo loro due colombe nere volarono via da Tebe d'Egitto e giunsero l'una in Libia, l'altra a Dodona. Quest'ultima, appollaiata su di una quercia, con voce umana avrebbe proclamato che si doveva fondare in quel luogo un oracolo di Zeus; la gente di Dodona, ritenendo di origine divina un simile annuncio, si comportò di conseguenza. La colomba direttasi in Libia, narrano, avrebbe ordinato ai Libici di fondare l'oracolo di Ammone, che è anch'esso di Zeus. Questo mi raccontarono le sacerdotesse di Dodona, che si chiamavano Promenia, la più anziana, Timarete, la seconda, e Nicandre, la più giovane; e con la loro versione concordano anche gli altri abitanti di Dodona addetti al santuario.

La mia opinione al riguardo è la seguente: se veramente i Fenici rapirono le sacerdotesse e le vendettero, l'una in Libia e la seconda in Grecia, io credo che quest'ultima fu venduta nel paese dei Tesproti, nell'attuale Grecia, che allora si chiamava Pelasgia; lì visse come schiava, poi, sotto una quercia cresciuta spontaneamente, fondò un santuario di Zeus; era logico che lei, già sacerdotessa di Zeus a Tebe, volesse perpetuarne il ricordo anche là dov'era giunta. Più avanti, quando imparò la lingua greca, diede inizio alle attività dell'oracolo. Fu lei a raccontare di una sua sorella venduta in Libia dagli stessi Fenici che avevano venduto lei.

A mio avviso i Dodonesi hanno chiamato colombe le due donne perché erano barbare e perciò a loro sembravano emettere suoni simili al canto degli uccelli, e aggiungono che la colomba prese a parlare con favella umana col passare del tempo, cioè quando la donna cominciò a esprimersi in maniera comprensibile: finché si serviva di un idioma barbaro sembrava a tutti che emettesse una specie di verso da uccello; come avrebbe potuto una colomba parlare con voce umana? Descrivendo poi la colomba come nera di colore, indicano che la donna proveniva dall'Egitto. Guarda caso l'arte mantica praticata a Tebe d'Egitto e quella praticata a Dodona sono assai simili fra loro. E anche la divinazione mediante l'esame delle vittime sacrificate proviene dall'Egitto.

Gli Egiziani sono stati i primi al mondo a istituire feste collettive, processioni e cortei religiosi; i Greci hanno imparato da loro e ne abbiamo una prova: le solennità egiziane risultano celebrate da molto tempo, quelle greche hanno avuto inizio di recente.

Le feste collettive gli Egiziani non le celebrano una sola volta all'anno, ma in continuazione: la principale, e seguita con maggiore partecipazione, è dedicata ad Artemide, nella città di Bubasti; la seconda ha luogo a Busiride ed è dedicata a Iside; in questa città, situata in Egitto nel bel mezzo del Delta, si trova un grandissimo santuario di Iside, la dea che in greco si chiama Demetra. La terza festa è per Atena, nella città di Sais, la quarta a Eliopoli, per il dio Elio, la quinta a Buto in onore di Leto; la sesta è dedicata ad Ares e ha luogo nella città di Papremi.

Ecco che cosa fanno quando si recano a Bubasti: viaggiano sul fiume, uomini e donne insieme, una gran folla di entrambi i sessi sopra ogni imbarcazione; alcune donne hanno dei crotali e li fanno risuonare, alcuni uomini suonano il flauto per tutto il tragitto; gli altri, uomini e donne, cantano e battono le mani; quando giungono all'altezza di un'altra città, accostano a riva e si comportano così: alcune continuano a fare ciò che ho detto, altre a gran voce dileggiano le donne del posto, altre danzano, altre ancora si alzano in piedi e si tirano su la veste. Così in ogni città che incontrino lungo il fiume. Una volta arrivati a Bubasti, celebrano la festa offrendo imponenti sacrifici; in questa ricorrenza si consuma più vino d'uva che in tutto il resto dell'anno. Vi accorrono, a quanto sostengono i locali, fino a settecentomila persone fra uomini e donne, senza contare i bambini.

Così a Bubasti; a Busiride quando celebrano la festa di Iside tutto si svolge come ho già ricordato prima. Dopo il sacrificio uomini e donne si battono tutti il petto, e sono svariate decine di migliaia di persone: ma dire in onore di chi si battono il petto sarebbe empio da parte mia. Tutti i Cari che vivono in Egitto si spingono molto più in là: con dei coltelli si infliggono ferite sulla fronte, e da questo si capisce che non sono Egiziani, ma stranieri.

A Sais, quando si riuniscono per i riti sacrificali, una determinata notte ciascuno accende molte lampade intorno alla propria casa, all'aperto; le lampade sono delle ciotoline piene di sale e di olio, sulla cui superficie galleggia il lucignolo e brucia per tutta la notte; sicché la festa è detta «dei lumi accesi». Gli Egiziani che non si recano a questo raduno festivo aspettano la notte del sacrificio e accendono a loro volta, tutti, le lucerne; e in tal modo non solo a Sais si accendono lucerne, ma nell'intero Egitto. Si tramanda un racconto sacro che spiega per quale motivo la notte in questione ha ricevuto luce e venerazione.

Quelli che si recano a Eliopoli e a Buto compiono soltanto dei sacrifici. Invece a Papremi hanno luogo sacrifici e riti sacri come altrove: al tramonto del sole, mentre pochi sacerdoti si occupano della statua del dio, i più, invece, attendono in piedi all'ingresso del tempio armati di mazze di legno; altri uomini, oltre un migliaio di persone che compiono un voto, se ne stanno tutti insieme in un gruppo a parte, anch'essi armati di mazze. La statua del dio, contenuta dentro una specie di piccolo tabernacolo di legno ornato d'oro, era stata trasportata, la vigilia della festa, in una diversa dimora sacra. I pochi sacerdoti rimasti accanto ad essa tirano un carretto a quattro ruote, che porta il tabernacolo con dentro la statua stessa, ma i sacerdoti in piedi vicino all'ingresso non la lasciano entrare: allora il gruppo delle persone impegnate a soddisfare il voto prende le difese del dio randellando i sacerdoti; questi a loro volta reagiscono. Insomma si scatena una violenta rissa a colpi di bastone: si fracassano la testa e secondo me molti ci lasciano la pelle in seguito alle ferite riportate; gli Egiziani comunque escludono categoricamente che sia mai morto qualcuno. Gli abitanti di Papremi dicono di aver introdotto tale festa per il seguente motivo. Abitava un tempo nel santuario la madre di Ares; Ares che era stato allevato altrove, divenuto adulto, venne a Papremi per congiungersi con lei; ma i servitori della madre non lo avevano mai visto prima di allora, perciò non gli consentirono l'ingresso e lo mandarono via; Ares raccolse uomini da un'altra città e usando le cattive maniere nei confronti dei servitori poté entrare da sua madre. Da tale episodio, dicono, avrebbe tratto origine l'usanza della bastonatura durante la festa in onore di Ares.

Gli Egiziani sono stati anche i primi ad osservare religiosamente il divieto di accoppiarsi con le donne all'interno dei santuari e di entrarvi dopo un accoppiamento senza essersi lavati. Quasi ovunque nel mondo, tranne in Egitto e in Grecia, uomini e donne hanno rapporti sessuali dentro aree sacre, o vi entrano, dopo, senza essersi lavati, ritenendo che gli uomini sono come le altre bestie. Infatti si vedono tutti gli animali e varie specie di uccelli accoppiarsi all'interno dei templi o dei sacri recinti; se ciò non fosse gradito agli dei, dicono, gli animali non lo farebbero. Con questa giustificazione tengono un comportamento che a me non piace affatto.

Invece gli Egiziani hanno uno straordinario rispetto per le norme religiose in generale e per queste in particolare. Pur confinando con la Libia, l'Egitto non è molto popolato da animali, ma quelli che vi sono, sono considerati sacri, senza eccezione, sia quelli domestici come i selvatici. Se spiegassi perché sono considerati sacri verrei a parlare di questioni divine, sulle quali io evito il più possibile di intrattenermi. Se talora ho sfiorato simili argomenti, l'ho fatto perché costretto dalla necessità. Esiste una legge sugli animali: essa prescrive che degli Egiziani, uomini o donne, vengano incaricati di provvedere al nutrimento di ciascuna specie; e tale onore si trasmette dal genitore al figlio. Gli abitanti delle città, ciascuno per conto suo, quando fanno voti al dio protettore di un dato animale compiono questi riti: radono il capo dei propri figli, per intero, per metà o per un terzo, e poi sui due piatti della bilancia pongono i capelli e dell'argento: l'argento che controbilancia il peso dei capelli lo danno alla guardiana degli animali; in cambio di tale somma essa sminuzza del pesce e lo dà in pasto alle bestie. Ecco dunque, come è prescritto che vengano nutrite. Se qualcuno uccide uno di questi animali, se lo fa volontariamente la pena prevista è la morte, se involontariamente paga la pena stabilita dai sacerdoti. Nel caso si uccida un ibis o uno sparviero, volontariamente o involontariamente, la pena di morte è inevitabile.

Le bestie che vivono con l'uomo sono già molte, ma sarebbero ancora di più se ai gatti non accadesse una cosa strana: le femmine dopo aver partorito non vanno più con i maschi; questi provano ad accoppiarsi con esse, ma senza riuscirci. Ricorrono allora a una astuzia: rapiscono e sottraggono alle femmine i piccoli e li uccidono, dopo, però, non li divorano. Le gatte, private dei figli, ne desiderano altri e così ritornano ad accoppiarsi con i maschi: è un animale che ama molto la sua prole. Se scoppia un incendio i gatti assumono un comportamento prodigioso: gli Egiziani formano un cordone per tenere lontani i gatti, trascurando persino di spegnere le fiamme, ma i gatti sgusciando fra gli uomini o saltando sopra di loro si lanciano nel fuoco e quando questo avviene gli Egiziani provano una grande afflizione. Nelle case in cui un gatto muore di morte naturale tutti gli abitanti della casa si radono solo le sopracciglia; dove muore un cane si radono tutto il corpo e la testa.

I gatti morti vengono trasportati in ricoveri sacri, dove vengono imbalsamati e seppelliti, nella città di Bubasti. I cani invece li seppelliscono ciascuno nella propria città, in sacri loculi, e come i cani seppelliscono anche le manguste. I topiragno e gli sparvieri li portano a Buto, gli ibis a Ermopoli. Gli orsi, che sono rari, e i lupi, che non sono molto più grossi delle volpi, li seppelliscono nello stesso punto in cui li trovano morti.

Ecco le caratteristiche del coccodrillo: nei quattro mesi più freddi non mangia nulla; ha quattro zampe e vive tanto nell'acqua come sulla terra ferma, dove depone e fa schiudere le uova; trascorre la maggior parte del giorno all'asciutto, ma l'intera notte nel fiume perché l'acqua è più calda dell'aria e della rugiada. Fra tutti gli animali conosciuti è quello che dalle dimensioni più piccole raggiunge le più grandi: infatti depone uova non molto più grosse di quelle di un'oca e il piccolo appena nato è grande in proporzione; poi crescendo raggiunge i 17 cubiti e anche di più. Possiede occhi di maiale, denti e zanne smisurate in ragione del corpo; è l'unico degli animali a non possedere lingua. Non muove la mascella inferiore, ma, anche in questo unico fra gli animali, accosta la mascella superiore all'inferiore. Ha unghie robuste e sul dorso una pelle scagliosa indistruttibile; nell'acqua è cieco ma all'aria aperta possiede una vista acutissima. Poiché trascorre in acqua parte del suo tempo, ne esce con la bocca coperta di sanguisughe; e mentre tutti gli altri uccelli o fiere lo fuggono, il trochilo invece è con lui in ottimi rapporti perché gli rende un prezioso servizio: infatti quando il coccodrillo è uscito dall'acqua sulla riva e spalanca le fauci (cosa che fa abitualmente e per lo più in direzione dello zefiro) allora il trochilo gli penetra in bocca e ingoia le sanguisughe: il coccodrillo gode del sollievo procuratogli dal trochilo e non gli fa alcun male.

I coccodrilli sono sacri per alcuni Egiziani e per altri no; anzi li trattano con grande ostilità. Quanti abitano intorno alla città di Tebe e al lago di Meride li ritengono assolutamente sacri: in entrambe queste regioni provvedono al mantenimento di un coccodrillo scelto fra tutti, ammaestrato e addomesticato: gli ornano le orecchie con ciondoli di smalto e d'oro, e con anelli le zampe anteriori, lo nutrono con cibi scelti e vittime di sacrifici, trattandolo insomma nel modo migliore finché è in vita. Quando muore lo imbalsamano e lo seppelliscono in loculi sacri. Al contrario coloro che abitano nei pressi di Elefantina arrivano a cibarsi dei coccodrilli, così poco li considerano sacri. Il loro nome non è «coccodrilli», bensì «champsai»; furono gli Ioni a chiamarli «coccodrilli» quando li videro simili per aspetto ai coccodrilli che nel loro paese si trovano sui muri di pietra.

La cattura del coccodrillo avviene secondo molte e varie tecniche; io descriverò quella che mi sembra più meritevole di esposizione. Il cacciatore sistema su di un uncino una spalla di maiale e la lancia in mezzo al fiume; quindi stando sulla riva percuote un porcellino vivo: il coccodrillo sente le grida del maialino e avanza in direzione della voce, si imbatte nell'esca e la divora: a quel punto lo trascinano a riva; quando è sulla terra per prima cosa il cacciatore gli copre gli occhi con del fango: se fa così, dopo riesce facilmente ad averne ragione, se non fa così deve sudare parecchio.

Gli ippopotami sono sacri nel nomo di Papremi ma non per gli altri Egiziani. Le caratteristiche esteriori dell'ippopotamo sono: quattro zampe, zoccolo fesso come quello dei buoi, muso rincagnato, criniera da cavallo, fauci con zanne in bella evidenza, coda e voce simili a un cavallo; è grosso quanto il più grosso dei buoi. La sua pelle è talmente spessa che quando è secca se ne possono fare aste per dardi.

Nel fiume ci sono anche lontre che gli Egiziani considerano sacre. Tra i pesci ritengono sacri il cosiddetto «lepidoto» e l'anguilla; li dicono sacri al Nilo, come pure, fra gli uccelli, le chenalopeci.

E c'è anche un altro uccello sacro, chiamato fenice; per altro io non ne ho mai visti se non in dipinti; pare infatti che compaia in poche circostanze, ogni 500 anni a sentire gli abitanti di Eliopoli. E dicono che apparirebbe solo quando gli muore il padre; se le raffigurazioni sono fedeli per dimensioni e per forma è come segue: le penne delle ali sono in parte dorate e in parte rosse; per sagoma e dimensioni somiglia molto a un'aquila. Gli attribuiscono, ma a me non pare troppo credibile, un'impresa straordinaria: volerebbe dall'Arabia fino al tempio del dio Elio trasportando il padre avvolto nella mirra per seppellirlo nel santuario; lo trasporta così: prima con la mirra fabbrica un uovo grande quanto è in grado di sollevare; dopo alcuni voli di prova lo svuota e vi introduce il padre; poi spalma altra mirra sul buco usato per svuotare l'uovo e per farvi entrare il padre; l'uovo con dentro il padre pesa quanto pesava prima; a questo punto lo trasporta in Egitto al tempio del dio Elio. Questo farebbe la fenice, a quanto riferiscono.

Nella zona di Tebe sono sacri dei serpenti del tutto innocui per l'uomo e di dimensioni assai ridotte che portano due corni sulla sommità della testa; quando muoiono li seppelliscono nel tempio di Zeus: dicono infatti che sono sacri al dio.

C'è una località in Arabia, pressappoco di fronte alla città di Buto, dove mi sono recato per ottenere informazioni a proposito dei serpenti alati. Quando vi giunsi vidi resti e scheletri di rettili in quantità indescrivibili: interi cumuli di spine dorsali, un gran numero di cumuli grandi, piccoli e di medie dimensioni. La località dove le ossa giacciono ammucchiate si presenta così: un passaggio fra anguste montagne verso un'ampia pianura, pianura che è collegata alla piana d'Egitto. Si racconta che all'inizio della primavera i serpenti alati volano dall'Arabia in direzione dell'Egitto, ma che gli ibis li affrontano all'ingresso di questa regione e impediscono loro di entrare, anzi ne fanno strage. A ciò gli Arabi fanno risalire il grande onore tributato agli ibis dagli Egiziani; e gli Egiziani stessi sono d'accordo nello spiegare così il rispetto che portano agli ibis.

L'ibis, di aspetto, è un uccello del tutto nero con zampe simili alle zampe di una gru e becco assai ricurvo; la taglia è quella di una gallinella. Così si presentano gli ibis neri, quelli che combattono contro i serpenti alati; ma le specie di ibis sono due, e quella che gli uomini si trovano tra i piedi è così: ha nudi la testa e il collo, tutte bianche le piume tranne che sul capo, sulla gola e sulla punta delle ali e della coda, dove sono al contrario perfettamente nere; per zampe e sagoma è simile all'altra specie. L'aspetto dei serpenti è simile a quello delle idre; hanno ali senza penne, molto simili alle ali del pipistrello. E quanto ho detto basti sul conto degli animali sacri.

Gli Egiziani residenti nella parte seminata dell'Egitto sono i più dotti fra tutti coloro con cui io abbia mai avuto a che fare, perché coltivano memoria dell'umanità intera. Essi hanno il seguente sistema di vita: si purgano per tre giorni consecutivi al mese cercando la salute con emetici e clismi intestinali, convinti che dai cibi di cui si nutrono derivino agli uomini tutte le malattie. In effetti gli Egiziani sono inoltre la popolazione più sana al mondo dopo i Libici, e ciò a mio parere a causa delle stagioni , cioè per l'assenza di mutamenti di stagione; le malattie degli uomini hanno origine per lo più nei cambiamenti, e in particolare nei cambi di stagione. Si cibano di pane preparato con farina di olira, che chiamano «killestis»; bevono vino d'orzo perché nel loro paese non hanno viti; mangiano pesci crudi e seccati al sole o conservati sotto sale. Fra gli uccelli mangiano quaglie, anatre e uccellini, crudi e sotto sale; tutti gli altri uccelli e pesci che possiedono, tranne quelli considerati sacri, li mangiano arrosto o lessi.

Alle riunioni dei benestanti, appena si è finito di mangiare, un uomo porta in giro una scultura di legno raffigurante un cadavere nella sua bara, imitato alla perfezione nell'intaglio e nei colori, e lungo in tutto uno o due cubiti, e mostrandolo a ciascuno dei convitati dice: «Guardalo e bevi e divertiti: quando sarai morto anche tu sarai così». Questo fanno quando sono riuniti per bere.

Conservano le loro usanze nazionali e non ne acquisiscono di nuove. Tra le varie notevoli tradizioni si segnala l'esistenza di un unico canto, il canto di Lino, lo stesso presente in Fenicia, a Cipro e altrove: il nome è diverso presso ciascuna popolazione, ma si è d'accordo nel ritenerlo lo stesso cantato dai Greci sotto il nome di Lino; cosicché tra tante altre cose d'Egitto che mi incuriosivano c'era anche l'origine di questo canto. L'impressione è che l'abbiano sempre cantato; in egiziano Lino si chiama Manero. Alcuni Egiziani mi hanno raccontato che Manero fu l'unico figlio del primo re dell'Egitto; alla sua morte prematura gli Egiziani cantarono in suo onore questi lamenti funebri, che furono il loro primo e unico tipo di canto.

Un'altra usanza gli Egiziani hanno in comune con i Greci, o meglio con gli Spartani: quando dei giovani incontrano per strada persone più anziane cedono il passo, si scostano e al loro arrivo si alzano se erano seduti. Diversa assolutamente dall'uso greco è l'abitudine di inchinarsi abbassando la mano fino al ginocchio, invece di scambiarsi semplicemente un saluto, per strada.

Vestono tuniche di lino chiamate «calasiri», ornate di frange intorno alle gambe; sopra le tuniche indossano mantelli di lana bianca, ma non possono portarli dentro un tempio e usarli nel corredo funebre: non è infatti consentito. In questo vanno d'accordo con i precetti denominati Orfici e Bacchici, che sono in realtà egiziani, e Pitagorici: chi è iniziato a tali misteri commette empietà se si fa seppellire con vesti di lana. In proposito esiste un racconto sacro.

Agli Egiziani risalgono le seguenti altre scoperte: a quale dio appartengono ciascun mese e ciascun giorno, e, sulla base del giorno di nascita, quali eventi gli capiteranno, come terminerà la vita e quale personalità avrà; di tali scoperte si valsero quanti fra i Greci si dedicarono alla poesia. Da soli hanno individuato effetti miracolosi più di tutti gli altri uomini messi assieme; perché dopo il verificarsi di un prodigio osservano con attenzione l'avvenimento che ne consegue e lo registrano, sicché, quando poi si verifica qualcosa di simile, ritengono che si ripeterà lo stesso avvenimento.

L'arte della divinazione in Egitto è così fatta: non si attribuisce a nessun uomo, ma spetta ad alcune divinità. E infatti in Egitto esistono oracoli di Eracle, di Apollo, di Atena, di Artemide, di Ares e di Zeus, nonché di Latona, nella città di Buto, l'oracolo che fra tutti gode della maggiore considerazione. Le tecniche di predizione non sono ovunque le stesse, ma differiscono fra loro.

L'arte medica in Egitto è così suddivisa: ogni medico cura una e una sola malattia; e ci sono medici dappertutto: alcuni curano gli occhi, altri la testa, altri i denti, altri le affezioni del ventre, altri ancora le malattie oscure.

Ed ecco come si svolgono lamentazioni funebri e funerali: quando in una casa viene a mancare un uomo di una certa importanza, tutte le donne della casa si impiastricciano di fango la testa o anche il volto; poi, lasciando il morto nella casa, girano succinte e a seno scoperto per la città battendosi il petto e con loro tutte le donne del parentado. Anche gli uomini si battono il petto succinti, ma separatamente. Fatto ciò, portano il cadavere all'imbalsamazione.

In Egitto esistono persone depositarie di tale tecnica funeraria che svolgono questa mansione. Costoro, quando ricevono un cadavere, mostrano a quelli che l'hanno portato un campionario di salme di legno, rese somiglianti con la pittura; e li informano che la più accurata imbalsamazione è quella di colui il cui nome non mi è lecito riferire in una simile circostanza, poi mostrano la seconda che è inferiore e meno costosa e infine la terza che è la meno cara; e parlando chiedono ai clienti con quale tipo desiderino che il loro morto sia trattato. I clienti si mettono d'accordo sul prezzo e se ne vanno, ed essi, senza muoversi dai loro laboratori, imbalsamano, nel modo più accurato, come segue: per prima cosa con ferri uncinati, attraverso le narici, estraggono il cervello; in parte usano questi ferri, ma si aiutano anche con acidi. Poi con un'affilata pietra etiopica aprono il cadavere all'altezza dell'addome e ne asportano tutto l'intestino; quindi lo puliscono, lo cospargono di vino di palma e poi ancora lo purificano con varie sostanze aromatiche in polvere. Infine riempiono il ventre con mirra pura in polvere, con cassia e con tutti gli altri aromi, a eccezione dell'incenso, e lo ricuciono. Terminata questa operazione, disseccano il cadavere tenendolo a bagno nel nitro per settanta giorni; tenervelo per un tempo maggiore non è assolutamente consigliato. Trascorsi i settanta giorni, risciacquano il cadavere e lo avvolgono interamente con bende tagliate da una tela di bisso e spalmate di gomma (in genere gli Egiziani usano tale gomma al posto della colla). A questo punto se lo riprendono i parenti, che fanno costruire una bara di legno a figura umana e dopo averla fatta vi rinchiudono il morto; così com'è poi, chiuso in questa bara, lo ripongono in una camera sepolcrale, sistemandolo in piedi contro la parete.

Questo è il sistema più costoso per imbalsamare i cadaveri; preparano invece come segue chi desidera la maniera media per evitare una spesa elevata: preparano clisteri di olio di cedro con cui riempiono il ventre del morto senza operare tagli e senza asportare l'intestino; li introducono per via rettale e impediscono poi la fuoriuscita dei liquidi; quindi disseccano il cadavere per i giorni stabiliti e allo scadere fanno uscire dal ventre il cedro che vi avevano immesso. Questo ha una tale efficacia che porta via con sé l'intestino e le viscere ormai dissolte; a loro volta le carni vengono consumate dal nitro, sicché del cadavere non restano che la pelle e le ossa. Fatto ciò riconsegnano il cadavere così com'è, senza prendersene ulteriore cura.

Il terzo sistema di imbalsamazione è quello che prepara le persone più povere. Purificano gli intestini con l'erba sirmea, fanno disseccare il cadavere per i settanta giorni e lo consegnano da portar via.

Le mogli dei personaggi più illustri non vengono mandate all'imbalsamazione immediatamente dopo la morte, e così pure le donne di particolare bellezza o di una certa condizione: lasciano passare due o tre giorni e poi le consegnano agli imbalsamatori. Agiscono così per impedire che gli imbalsamatori abbiano rapporti fisici con queste donne; pare infatti che una volta uno di loro sia stato sorpreso mentre si univa carnalmente con il cadavere di una donna morta da poco; lo denunciò un collega di lavoro.

Se un Egiziano o anche uno straniero viene ghermito dai coccodrilli o dalla corrente stessa del fiume e il suo cadavere ricompare, gli abitanti della città dove esso approda devono assolutamente provvedere a imbalsamarlo e a dargli sepoltura nel modo più onorevole possibile, in loculi sacri. Nessuno può toccare questa salma, né parente, né amico, né altro: soltanto i sacerdoti del dio Nilo possono dargli sepoltura con le loro mani, perché è considerato qualcosa di più che un semplice cadavere.

Gli Egiziani rifuggono dall'adottare usi greci, o meglio per dirla intera, costumi di qualunque altro popolo. Questa in Egitto è la norma generale, ma nel territorio di Tebe vicino a Neapoli, in una grande città chiamata Chemmi sorge un tempio di forma quadrangolare e circondato da palmizi dedicato a Perseo, figlio di Danae: il santuario ha propilei costruiti con pietre di grandi dimensioni; oltre i propilei si trovano due statue in pietra, assai alte. All'interno di questa area sacra sorge il tempio vero e proprio, che a sua volta contiene una statua di Perseo. Gli abitanti di Chemmi sostengono che Perseo appare spesso nel loro paese e spesso all'interno del tempio; che vi si trova un sandalo calzato da lui, lungo due cubiti, e che, quando Perseo si mostra, tutto l'Egitto gode di prosperità. Questo è quanto dicono di Perseo; ed ecco quanto fanno in suo onore, alla maniera dei Greci: indicono giochi ginnici completi di tutte le specialità, stabilendo come premi capi di bestiame, mantelli e pelli. Quando io chiesi perché mai Perseo si mostrasse abitualmente solo a loro e per quale motivo avessero istituito gare ginniche a differenza di tutti gli altri Egiziani, mi risposero che Perseo era originario della loro città perché Danao e Linceo erano di Chemmi e poi si recarono in Grecia per mare; dai due poi le varie generazioni discesero fino a Perseo. Quando Perseo giunse in Egitto, per la stessa ragione indicata anche dai Greci, cioè per portare dalla Libia la testa della Gorgone, si sarebbe fermato presso di loro e vi avrebbe riconosciuti tutti i propri parenti; quando giunse in Egitto già gli era nota la città di Chemmi almeno di nome, avendone sentito parlare dalla madre: allora celebrarono per lui i giochi ginnici, obbedendo a un suo ordine.

Tutte queste usanze appartengono alle popolazioni egiziane al di sopra delle paludi; invece quanti abitano nella regione delle paludi hanno gli stessi costumi degli altri Egiziani; fra l'altro ciascuno di loro può sposare una sola donna, come in Grecia. E per procurarsi da vivere a buon mercato hanno studiato varie soluzioni. Quando il fiume è in piena e la pianura assume l'aspetto del mare aperto, nell'acqua spuntano numerosi fiori di un giglio che gli Egiziani chiamano loto; essi li raccolgono e li fanno seccare al sole, quindi ne estraggono la parte centrale, simile a quella del papavero, la tritano e ne fanno pani cotti sul fuoco. Anche la radice del loto è commestibile, è un bulbo sferico delle dimensioni di una mela e di sapore dolciastro. Vi sono anche altri gigli, simili a rose, che spuntano essi pure nel fiume e il cui frutto si sviluppa su un altro gambo, separato dal principale ma spuntato dalla medesima radice; a vederlo è molto simile a un nido di vespe; nel frutto si trovano moltissimi semi commestibili, grandi come noccioli di oliva, che si mangiano freschi o secchi. Quando estraggono dalle paludi il papiro, che cresce in un anno, tagliano e mettono da parte per altri usi la sua parte superiore; di quella inferiore, per circa un cubito di lunghezza, si cibano e fanno commercio. Chi desidera fare il migliore uso del papiro lo abbrustolisce entro un forno rovente e se lo mangia così. Alcuni di loro si nutrono esclusivamente di pesce: lo catturano, lo sventrano, lo fanno seccare al sole e poi lo consumano così com'è, secco.

I pesci che vivono in branchi non nascono nei fiumi, crescono nelle paludi e tengono il seguente comportamento: quando si manifesta in loro l'istinto di riproduzione, si dirigono a frotte verso il mare; i maschi precedono il branco spargendo il loro seme, le femmine seguendoli lo inghiottono al volo e ne rimangono fecondate; dopo aver concepito in mare, tornano tutti indietro ciascuno ai luoghi abituali. Ma non sono più i maschi a capeggiare il branco, la guida tocca ora alle femmine; ed esse nel tornare a frotte si comportano come facevano i maschi: espellono le loro uova, raggruppate in piccoli ammassi, e i maschi che vengono dietro se le divorano. Le uova sono pesci: infatti, fra le uova superstiti che non sono state divorate, quelle che si sviluppano diventano pesci. I pesci catturati mentre si trasferiscono in mare presentano come una ammaccatura sulla parte sinistra della testa, quelli catturati sulla via del ritorno la presentano invece sul lato destro; ciò si verifica perché nuotano verso il mare tenendosi vicini alla riva sulla loro sinistra, e tornano indietro facendo la stessa cosa sulla loro destra; rasentano, e arrivano a urtare la riva, più che altro per non essere trascinati fuori rotta dalla corrente. Quando il Nilo è all'inizio della piena, le concavità del terreno e le depressioni lungo il fiume sono le prime a cominciare a colmarsi dell'acqua che vi filtra dal fiume: non appena colme, subito si riempiono dappertutto di piccoli pesciolini. Io credo di indovinare da dove è probabile che essi vengano: ogni anno quando il fiume si ritira anche i pesci se ne vanno con le ultime acque, ma lasciano le loro uova nella fanghiglia; l'anno dopo, quando l'acqua ritorna, ecco che subito da quelle uova nascono i pesci. E sui pesci basti così.

Gli Egiziani residenti nelle zone paludose usano un olio ricavato dal frutto del ricino; lo chiamano «kiki» e lo preparano come segue: lungo le rive dei canali e dei laghi seminano questi ricini, che in Grecia crescono spontanei allo stato selvatico; in Egitto vengono seminati e producono molti frutti maleodoranti: una volta raccolti c'è chi li batte e li spreme con il torchio, c'è invece chi li fa abbrustolire e bollire e poi ne raccoglie il succo derivato; è un olio grasso e adatto alle lampade non meno di quello di oliva, ma emana un odore assai sgradevole.

Contro le zanzare, che sono numerosissime, hanno studiato vari rimedi. Quanti abitano al di là delle paludi trovano sollievo grazie a delle torri, su cui salgono per andare a dormire: le zanzare a causa del vento non sono in grado di volare oltre una certa altezza. Invece quanti vivono proprio nelle zone paludose al posto delle torri hanno studiato un altro sistema; ognuno di loro possiede una rete, che di giorno serve per la pesca e di notte invece si usa così: l'appendono tutta intorno al letto in cui si va a riposare e poi vi si infilano sotto per dormire; le zanzare, che riescono a punzecchiarti anche se dormi avvolto in un mantello o in un lenzuolo, attraverso questa reticella non ci provano neppure.

Le loro navi mercantili sono costruite con legno di acacia; questo albero somiglia moltissimo al loto di Cirene, eccetto per la gomma che ne sgocciola. Dall'acacia ricavano tavole di due cubiti che uniscono come fossero mattoni costruendo la barca come segue: fissano le assi di due cubiti intorno a fitte e lunghe caviglie; fabbricato così lo scafo vi sistemano sopra i banchi. Queste imbarcazioni non hanno costole e le giunture vengono calafatate con papiro; il timone è uno solo e attraversa la carena; hanno l'albero in legno di acacia e vele di papiro. Tali battelli non sono in grado di risalire il fiume a meno che non soffi un forte vento, perciò vengono trascinati da riva; invece quando seguono la corrente procedono così: sono muniti di un graticcio, formato da rami di tamerici intrecciati con fuscelli di canne, e di una pietra forata pesante circa due talenti: si cala il graticcio, assicurato con una fune davanti all'imbarcazione perché la trascini, e la pietra, a poppa, legata ad un'altra fune. Il graticcio, spinto dalla forza della corrente avanza velocemente e tira la «baris» (tale è il nome di queste imbarcazioni); di dietro la pietra, trascinata a una certa profondità, mantiene rettilinea la navigazione. Di queste imbarcazioni ve ne sono in grande quantità e alcune trasportano molte migliaia di talenti di carico.

Quando il Nilo inonda il paese, dalle acque emergono soltanto le città, molto simili alle isole nel Mare Egeo. Solo le città emergono, tutto il resto del territorio egiziano si trasforma in una distesa d'acqua. Allora non si naviga più lungo i rami del fiume, bensì attraverso la pianura; per andare da Naucrati a Menfi si passa accanto alle piramidi, mentre la rotta abituale tocca il vertice del Delta e la città di Cercasoro; navigando attraverso la pianura verso Naucrati, a partire dal mare all'altezza di Canobo, si passa accanto alla città di Antilla e a quella cosiddetta di Arcandro.

Delle due, Antilla, un centro notevole, è stata scelta per la fornitura dei calzari alla moglie dei re che si succedono al trono; ciò accade da quando l'Egitto è sottomesso ai Persiani. L'altra città a mio parere prende il nome dal genero di Danao, Arcandro, figlio di Ftio e nipote di Acheo: si chiama appunto Arcandropoli; forse si tratta di un altro Arcandro, ma il nome in ogni caso non è di origine egiziana.

Tutto ciò che ho riferito fino ad ora era il risultato della mia visione diretta delle cose, o di una mia indagine o era una mia opinione; d'ora in avanti verrò a riferire racconti di Egiziani così come li ho uditi: al più aggiungerò qualche particolare ricavato dalla mia osservazione dei fatti. I sacerdoti mi dissero che Mina, il primo re dell'Egitto, protesse Menfi con argini; il fiume scorreva interamente lungo le montagne di sabbia situate in direzione della Libia: Mina con degli sbarramenti deviò a gomito il fiume verso sud, un centinaio di stadi a monte di Menfi, facendo prosciugare l'antico letto e incanalando il fiume perché scorresse in mezzo alle montagne. Ancora adesso all'altezza di quest'ansa del Nilo i Persiani sorvegliano con cura che il fiume scorra lungo i nuovi argini; e li rinforzano annualmente, perché, se il fiume dovesse romperli e straripare in questo punto, l'intera Menfi rischierebbe di finire sommersa. Mina, il primo re, bonificò il terreno sottratto al fiume e vi fondò una città, proprio l'attuale Menfi (anche Menfi effettivamente sorge nella parte stretta dell'Egitto); poi intorno alla città, verso nord e verso ovest fece scavare un lago alimentato dal fiume (il lato est è già delimitato dal Nilo); in città eresse un santuario di Efesto, grande e degno di molta considerazione.

I sacerdoti poi mi elencarono da un loro libro i nomi di altri 330 re; fra così tante generazioni diciotto erano di origine etiopica, gli altri erano tutti Egiziani, compresa l'unica donna. La donna che sedette sul trono d'Egitto si chiamava Nitocri, come la regina babilonese. Di lei mi raccontarono come vendicò il fratello; lui era re d'Egitto quando gli Egiziani lo uccisero e affidarono il potere nelle mani di Nitocri, ma lei per vendicarlo macchinò un inganno e compì una strage di Egiziani. Fece costruire una grande sala sotterranea, poi, ufficialmente per inaugurarla, ma in realtà meditando in animo ben altro, vi invitò a banchetto molte persone, quelle che sapeva maggiormente implicate nell'assassinio; e mentre pranzavano, attraverso una grande conduttura segreta, rovesciò su di loro le acque del fiume. Questo è quanto mi raccontarono di lei, aggiungendo solo che, compiuta la sua vendetta, si buttò giù in una stanza piena di cenere per sfuggire alle rappresaglie.

Gli altri sovrani, mi dissero, non si erano distinti minimamente; in effetti non mi citarono nessuna opera dovuta a qualcuno di loro, se si fa eccezione per Meride, l'ultimo della serie, il quale innalzò a ricordo di sé i propilei del tempio di Efesto che guardano verso settentrione; e fu lui a realizzare un lago artificiale, della cui estensione parlerò più avanti; nell'invaso innalzò piramidi; quanto fossero grandi tali piramidi lo preciserò al momento di soffermarmi sulle dimensioni del lago. Queste furono le opere realizzate da Meride; degli altri non avevano nulla da menzionare.

Io dunque li tralascerò per menzionare invece il re salito al potere dopo di loro, che si chiamava Sesostri. Di Sesostri i sacerdoti mi raccontarono che per primo si mosse con una flotta di lunghe navi dal Golfo d'Arabia per soggiogare le popolazioni insediate lungo le coste del Mare Eritreo; avanzò con le sue navi finché raggiunse un braccio di mare non più navigabile a causa dei bassi fondali. Se ne tornò allora di là in Egitto, dove, secondo il racconto dei sacerdoti, raccolse un numeroso esercito e marciò attraverso il continente, sottomettendo ogni popolazione che gli si parava sul cammino. Quando si imbatteva in popoli valorosi e particolarmente attaccati alla propria libertà, sul posto lasciava delle stele con iscrizioni che ricordavano il suo nome, la sua patria e come li avesse soggiogati con il suo esercito; quando si vedeva consegnare le città senza combattere e prontamente, incideva sulle stele lo stesso discorso riservato ai popoli valorosi, ma vi aggiungeva l'immagine degli organi sessuali femminili; intendeva così rendere chiaro che quelle erano genti imbelli.

Così facendo attraversò l'intero continente, poi passò dall'Asia in Europa e assoggettò gli Sciti e i Traci. Queste mi sembrano le regioni estreme toccate dall'esercito egiziano: in effetti nel paese degli Sciti e dei Traci si vedono ancora erette delle stele commemorative, che spingendosi oltre non si vedono più. Di là ritirandosi tornò indietro e raggiunse il fiume Fasi dove non saprei dire con certezza se fu il re Sesostri personalmente a distaccare una parte del suo esercito e a lasciarla sul posto per colonizzare la regione, oppure se alcuni soldati decisero di stabilirsi nei dintorni del Fasi, stanchi di girovagare con il loro re.

È chiaro comunque che gli abitanti della Colchide sono di origine egiziana: io lo avevo pensato prima ancora di sentirlo dire da altri. E come mi venne in testa l'idea, condussi un'indagine fra le due popolazioni; ne risultò che i Colchi conservavano memoria degli Egiziani più che gli Egiziani dei Colchi; ma gli Egiziani ritenevano, così dissero, che i Colchi discendessero da una parte dall'esercito di Sesostri. Io me ne ero già accorto per conto mio: i Colchi hanno la pelle scura e i capelli crespi (cosa che, per la verità, non permette di trarre nessuna conclusione certa, dal momento che anche altre popolazioni presentano queste caratteristiche); ma decisiva mi era parsa la constatazione che Colchi, Egiziani ed Etiopi sono gli unici popoli a praticare la circoncisione fin dalle origini. Gli stessi Fenici e i Siri della Palestina ammettono di averla derivata dagli Egiziani; i Siri del fiume Termodonte e del Partenio e i Macroni loro confinanti dichiarano di avere appreso tale uso dai Colchi e di recente. Questi sono i soli popoli a praticare la circoncisione e tutti chiaramente rifacendosi agli Egiziani. Fra Egiziani ed Etiopi non saprei dire chi abbia imparato da chi, perché in entrambi i casi si tratta evidentemente di una istituzione antica. Ma del fatto che tutti gli altri l'abbiano appresa per aver avuto frequenti relazioni con l'Egitto, io possiedo una prova decisiva: tutti i Fenici che hanno contatti con la Grecia non seguono più le usanze egiziane e non circoncidono più i loro figli.

E già che ci siamo citerò un ulteriore particolare che avvicina i Colchi agli Egiziani: sono i soli due popoli a lavorare il lino nella stessa maniera. E nell'insieme il loro sistema di vita, come le loro lingue, si assomigliano. Il lino dei Colchi dai Greci è chiamato «sardonico», mentre quello proveniente dall'Egitto è detto «egiziano».

La maggior parte delle stele fatte erigere dal re dell'Egitto Sesostri non sopravvive più ai nostri occhi, ma nella Siria Palestina io stesso ne ho viste di superstiti, con le iscrizioni suddette, e i genitali femminili. Nella Ionia restano anche due bassorilievi raffiguranti Sesostri, scolpiti nella roccia, uno sulla strada che porta da Efeso a Focea l'altro sulla strada da Sardi a Smirne; in entrambi è raffigurato un uomo alto quattro cubiti e mezzo che stringe nella mano destra una lancia e nella sinistra un arco e che porta così ripartito anche il resto dell'abbigliamento, metà egiziano e metà etiopico: una iscrizione in geroglifici egiziani è incisa sul suo petto, da una spalla all'altra, e dice: «Io con queste mie spalle mi sono conquistato questo paese»; chi sia e da dove venga il personaggio in questione l'iscrizione qui non lo spiega, l'ha indicato altrove. Alcuni di quelli che l'hanno vista avanzano l'ipotesi che l'immagine raffiguri Memnone, ma sono molto lontani dalla verità.

Come raccontavano i sacerdoti, l'egiziano Sesostri, mentre ritornava in Egitto conducendo con sé molti prigionieri appartenenti alle popolazioni da lui sottomesse, si trovò a un certo punto del cammino a Dafne Pelusica, dove suo fratello (era il fratello a cui Sesostri aveva affidato il governo temporaneo dell'Egitto) invitò lui e i figli a un banchetto e poi fece ammassare cataste di legna intorno alla casa e vi appiccò il fuoco. Come se ne accorse, Sesostri si consigliò con la moglie (l'aveva infatti con sé) ed essa gli suggerì di gettare due dei loro figli (che erano sei in tutto) sulle cataste incendiate e di mettersi in salvo camminando sui loro corpi come su di un ponte; così fece Sesostri: due figli dunque morirono tra le fiamme, mentre gli altri si salvarono con il padre.

Tornato in Egitto e vendicatosi del fratello, ecco poi come utilizzò la massa di individui che aveva condotta con sé dai paesi sottomessi: li adibì al traino di quelle pietre di dimensioni spropositate che furono trasportate fino al tempio di Efesto sotto il suo regno; e li obbligò a scavare tutti i canali oggi esistenti in Egitto; contro il loro volere trasformarono così l'Egitto, prima interamente percorribile a cavallo o con carri, in un paese tutto diverso. Da allora infatti l'Egitto, pur essendo del tutto pianeggiante, è diventato intransitabile per chi proceda a cavallo o con un carro, e ciò proprio per via dei canali, numerosi e rivolti in ogni direzione. Ma ecco la ragione per cui il re fece tagliare con canali il territorio: tutti gli Egiziani residenti in città lontane dal fiume, nell'interno, ogni volta che cessava la piena del Nilo, rimanevano privi di acqua e si servivano perciò di acque salmastre che attingevano dai pozzi; ecco perché l'Egitto fu solcato da canali.

I sacerdoti mi dissero che Sesostri ripartì il territorio fra tutti gli Egiziani, assegnando a ciascuno un lotto di forma quadrangolare di uguali dimensioni: poi si garantì le entrate fissando un tributo da pagarsi con cadenza annuale. Se a qualcuno il fiume sottraeva una parte del lotto, c'era la possibilità di segnalare l'accaduto presentandosi al re in persona: questi inviava dei tecnici a verificare e a misurare con esattezza la diminuzione di terreno, affinché il proprietario potesse per il futuro pagare il tributo in giusta proporzione. Scoperta, mi pare, per questa ragione, la geometria passò poi dall'Egitto in Grecia. La meridiana, lo gnomone e la suddivisione della giornata in dodici parti i Greci li hanno appresi invece dai Babilonesi.

Sesostri fu l'unico re egiziano a regnare anche sull'Etiopia; in ricordo di sé lasciò davanti al tempio di Efesto due grandi statue di pietra di trenta cubiti, raffiguranti lui e la moglie, e altre quattro dei figli, di venti cubiti ciascuna. Molto tempo più tardi il sacerdote di Efesto non permise a Dario il Persiano di erigere accanto a esse una sua statua; negava che Dario avesse compiuto imprese pari a quelle di Sesostri, l'Egiziano: Sesostri aveva sottomesso non meno popolazioni di Dario, ma in più anche gli Sciti che Dario invece non era stato capace di assoggettare, pertanto non sarebbe stato giusto collocare di fronte ai monumenti dedicati a Sesostri la statua di uno che non aveva superato le sue imprese. E pare che Dario, di fronte a questa argomentazione, lo abbia perdonato.

I sacerdoti mi raccontavano che, morto Sesostri, ricevette il regno suo figlio Ferone; e che questi non compì alcuna impresa militare: gli capitò anzi di diventare cieco per la ragione che ora esporrò. Una volta il fiume si ingrossò fino a raggiungere una altezza di 18 cubiti, tanto da sommergere le coltivazioni e, levatosi un forte vento improvviso, il fiume divenne agitato; pare allora che il re con un gesto avventato ed esecrando, impugnata una lancia, l'abbia scagliata fra i gorghi del fiume; subito dopo cadde ammalato e diventò cieco. Tale rimase per dieci anni; all'undicesimo gli pervenne un oracolo dalla città di Buto: il tempo della punizione era terminato e avrebbe riavuto la vista lavandosi gli occhi con l'orina di una donna che avesse avuto rapporti soltanto col proprio marito e non avesse mai conosciuto altri uomini. Il re provò prima con sua moglie, poi, dato che restava cieco, con molte altre donne, una dietro l'altra. Quando riebbe la vista, radunò in una sola città, ora chiamata Eritrebolo, le donne con cui aveva fatto la prova, fuorché quella con la cui orina s'era lavato quando aveva recuperato la vista; dopo averle radunate le fece bruciare tutte, insieme con la città. La donna poi con la cui orina s'era lavato riacquistando la vista, se la tenne come moglie. Una volta guarito dalla malattia agli occhi, consacrò vari ex-voto in tutti i principali santuari: il più considerevole è quello dedicato nel santuario di Elio, davvero degno di ammirazione: due obelischi di pietra, monolitici entrambi, alti ciascuno cento cubiti e larghi otto.

A Ferone succedette nel regno, raccontavano, un uomo di Menfi, il cui nome greco è Proteo; a Menfi esiste un suo santuario molto bello e ottimamente arredato, situato a sud del tempio di Efesto. Intorno al santuario abitano dei Fenici di Tiro; e tutta insieme questa località è denominata Campo dei Tiri. Nel santuario di Proteo sorge un tempio detto di Afrodite Straniera: io credo che sia un tempio di Elena figlia di Tindaro, sia perché ho udito raccontare che Elena soggiornò presso Proteo, sia perché lo chiamano di Afrodite Straniera; e in nessuno dei templi a lei dedicati, per tanti che siano, Afrodite viene detta «Straniera».

Interrogati da me in proposito, i sacerdoti mi raccontarono, su Elena, che le cose erano andate così: dopo aver rapito Elena da Sparta, Alessandro fece rotta verso il proprio paese, ma, giunto nel Mare Egeo, i venti contrari lo spinsero fino al Mare d'Egitto; di qui (i venti non cessavano) arrivò in Egitto e precisamente alla foce di quel ramo del Nilo oggi chiamato Canobico e alle Tarichee. C'era sulla spiaggia, e c'è ancora, un tempio di Eracle: chi vi si rifugia, di chiunque sia servo, se si fa imprimere il santo marchio consacrando se stesso al dio, non può più essere toccato; tale regola si è conservata identica dalle origini fino ai giorni nostri. Insomma alcuni servi infidi di Alessandro, venuti a sapere della norma in vigore nel tempio, sedutisi come supplici del dio denunciarono Alessandro: con l'intenzione di rovinarlo raccontarono tutta la storia di Elena e il torto commesso ai danni di Menelao. Pronunciarono le loro accuse di fronte ai sacerdoti e di fronte al guardiano del ramo Canobico, che si chiamava Toni.

Toni udì le accuse e subito, con la massima sollecitudine, inviò a Menfi un messaggio indirizzato a Proteo, che diceva così: «È giunto uno straniero di stirpe Teucra, autore in Grecia di una azione nefanda: ha sedotto la moglie del suo ospite e ora è qui, con lei, e con ingenti ricchezze, trascinato nel tuo paese dalla forza dei venti. Dobbiamo lasciarlo andare impunito oppure requisirgli quanto si è portato dietro fino a qui?». Proteo inviò una risposta di questo tenore: «Quell'uomo, chiunque sia, che ha agito da empio nei confronti del suo ospite, prendetelo e portatelo davanti a me. Voglio proprio vedere che cosa mai potrà dire».

Appresa la risposta, Toni cattura Alessandro e gli sequestra le navi, quindi lo conduce a Menfi insieme con Elena e con i tesori, e assieme anche ai supplici. Quando ebbe tutti di fronte a sé, Proteo chiese ad Alessandro chi fosse e da quali mari venisse; quello gli elencò i suoi antenati, disse il nome della sua patria e spiegò la rotta seguita dalle sue navi. Poi il re gli chiese dove avesse preso Elena e, poiché Alessandro divagava nel discorso e non diceva la verità, i servi che si erano fatti supplici lo accusarono denunciando per filo e per segno il suo misfatto. Per ultimo parlò Proteo: «Quanto a me, - disse - se non considerassi fondamentale non uccidere nessuno degli stranieri che arrivano nel mio paese trascinati dai venti, io prenderei vendetta su di te per il Greco; tu sei un miserabile: dopo aver ricevuto i doni di ospitalità hai compiuto una azione così empia! Accostarsi alla moglie dell'ospite! E questo ancora non ti è bastato: l'hai istigata alla fuga e te la sei portata via, l'hai rapita. Ma neppure questo ti è bastato: hai saccheggiato la casa del tuo ospite prima di partire. Ora dunque, anche se mi guardo bene dall'uccidere uno straniero, non per questo ti lascerò condurre via la donna e le ricchezze: le terrò in custodia per l'ospite greco, fino a quando lui stesso vorrà venirsele a riprendere. Quanto a te e ai tuoi compagni di viaggio vi concedo tre giorni per lasciare il mio paese e trasferirvi altrove, altrimenti vi tratteremo come nemici». |[continua]|

 

|[LIBRO II, 3]|

Così dunque i sacerdoti raccontano l'arrivo di Elena presso Proteo; a mio parere questa versione era nota anche a Omero, ma per la composizione del suo poema epico non si prestava altrettanto di quella da lui accolta; ecco perché la trascurò pur palesando di esserne a conoscenza: lo si capisce da come nell'Iliade Omero racconta del girovagare di Alessandro (e in nessun altro punto si smentisce): di come fu portato dai venti, avendo con sé Elena, vagando di qua e di là e di come giunse a Sidone, in Fenicia; ne parla nelle gesta di Diomede, ecco i versi:

dov'erano i mantelli ricamati, opera di quelle donne di Sidone

che Alessandro stesso, simile a un dio, da Sidone

aveva portato con sé navigando sull'ampia distesa del mare,

proprio nel viaggio in cui condusse la nobile Elena.

[E ne parla anche nell'Odissea, come segue:

La figlia di Zeus possedeva queste pozioni sapienti

ottimi farmaci che le aveva fornito Polidamna, la moglie di Toni,

in Egitto, là dove una fertile terra produce erbe medicinali,

in gran numero, le buone mescolate alle velenose.

E ancora ecco le parole rivolte da Menelao a Telemaco:

In Egitto gli dei mi trattennero, benché fossi impaziente

di navigare fin qui, perché non gli avevo offerto perfette ecatombi.]

In questi versi Omero fa capire di essere a conoscenza del viaggio in Egitto di Alessandro: infatti la Siria confina con l'Egitto e i Fenici, a cui appartiene Sidone, vivono nella Siria.

E sulla base di questi versi e di questa indicazione di luogo si capisce altresì, con evidenza ancora maggiore, che i Canti Cipri non sono di Omero, bensì di un altro poeta; infatti in essi si dice che Alessandro giunse a Ilio con Elena, proveniente da Sparta, nello spazio di tre giorni, avendo trovato venti favorevoli e mare calmo; invece nell'Iliade si parla di un lungo girovagare insieme con lei. E qui si chiuda il discorso su Omero e sui Canti Cipri.

Domandai ai sacerdoti se ciò che i Greci raccontano delle vicende di Ilio è falso o no, ed essi mi risposero citando quanto, a sentir loro, avevano appreso da Menelao in persona: dopo il ratto di Elena, dissero, un grande esercito greco aveva raggiunto la terra dei Teucri, in aiuto di Menelao; una volta sbarcato e accampato l'esercito, furono mandati a Ilio dei messaggeri, tra i quali lo stesso Menelao; essi entrarono nelle mura della città, reclamarono la restituzione di Elena e delle ricchezze che Alessandro aveva sottratto e si era portato via, e chiesero soddisfazione per i torti subiti. Ma i Troiani risposero allora come avrebbero sempre risposto anche in seguito, giurando e non giurando che Elena e i tesori non si trovavano lì bensì in Egitto; e non era giusto, dicevano, che dovessero rendere conto loro di quanto era in mano di Proteo, il re egiziano. I Greci, convinti di essere presi in giro, strinsero d'assedio la città, finché non la conquistarono; quando poi, espugnate le mura, non trovarono traccia di Elena e continuarono a sentirsi ripetere lo stesso discorso, allora ci credettero, e i Greci inviarono presso Proteo Menelao in persona.

Menelao giunse in Egitto, risalì il fiume fino a Menfi, dove spiegò esattamente quanto era accaduto: allora ricevette grandi doni ospitali e poté riprendersi Elena, sana e salva, nonché tutte le sue ricchezze. Però Menelao, pur avendo ottenuto ciò si comportò da uomo ingiusto nei confronti degli Egiziani: le avverse condizioni del tempo gli impedivano di partire, mentre era già pronto a salpare; dato che il ritardo si protraeva, tramò una azione esecranda: prese due bambini, figli di gente del luogo, e li usò come vittime per un sacrificio; in seguito, quando si scoprì che aveva commesso tale delitto, fuggì con le sue navi in direzione della Libia, odiato e inseguito. Dove poi si sia diretto gli Egiziani non erano in grado di dirlo; di una parte dei fatti ammettevano di avere informazioni indirette, ma di quanto era successo nel loro paese vantavano una sicura conoscenza.

Questo mi narrarono i sacerdoti egiziani; quanto a me sono d'accordo sulle notizie relative a Elena, sulla base di alcune considerazioni: se Elena si fosse trovata a Ilio l'avrebbero certamente riconsegnata ai Greci con o senza il consenso di Alessandro. Senza dubbio Priamo e gli altri suoi parenti non sarebbero stati così dementi da voler rischiare la propria esistenza e quella dei loro figli nonché la sopravvivenza dell'intera città, solo perché Alessandro potesse starsene con Elena. E anche ammesso che nei primi tempi la pensassero così, dopo che negli scontri con i Greci erano caduti molti Troiani e non c'era battaglia in cui non morissero almeno due o tre figli dello stesso Priamo, o magari anche di più, a basarsi sul racconto dei poemi epici, io voglio credere che, in circostanze del genere, anche se fosse stato lui in persona a vivere con Elena, Priamo l'avrebbe restituita pur di liberarsi di tutte le sventure che lo affliggevano. Né il regno era destinato a passare nelle mani di Alessandro; se Priamo era vecchio non toccava lo stesso a lui governare il paese: dopo la morte di Priamo il successore designato era Ettore, più anziano e più valoroso di Paride: e a lui non si addiceva certo rimettersi alle decisioni del fratello, che era nel torto; e tanto più quando, a causa sua, grandissime disgrazie stavano cadendo su di lui personalmente e su tutti gli altri Troiani. In realtà essi non erano in condizione di restituire Elena e i Greci non credevano ai Troiani benché dicessero la verità; anche perché, e questa è una mia interpretazione, così il dio aveva disposto le cose: che perendo tutti miseramente dimostrassero al mondo come a colpe grandi rispondano grandi castighi da parte degli dei. Questa almeno è la mia opinione.

I sacerdoti mi dissero che a Proteo succedette nel regno Rampsinito, il quale lasciò a ricordo di sé i propilei occidentali del tempio di Efesto; davanti ai propilei eresse due statue, alte 25 cubiti: gli Egiziani chiamano «estate» quella posta più a nord e «inverno» quella più a sud; adorano e colmano di onori la statua «estate» , mentre fanno tutto il contrario nei confronti della statua «inverno». Rampsinito dispose di una enorme quantità di denaro, quale nessuno dei re venuto dopo di lui riuscì mai a superare e anzi neppure a uguagliare. Volendo conservare in un luogo sicuro tanta ricchezza, fece costruire una stanza di pietra che aveva una delle pareti confinante con l'esterno della reggia; ma il costruttore tramando insidie escogitò un suo piano: sistemò una delle pietre in modo che fosse facilmente estraibile dal muro, sia da due che da una sola persona. Quando la camera fu pronta, il re vi depositò le sue ricchezze. Tempo dopo il costruttore, ormai in punto di morte, chiamò i suoi figli (erano due) e raccontò come, pensando al loro futuro, a procurar loro un'esistenza agiata, fosse ricorso a un'astuzia nel costruire la stanza del tesoro reale. Spiegò con chiarezza il sistema per rimuovere la pietra e ne diede le esatte misure, aggiungendo che se avessero seguito esattamente le sue istruzioni sarebbero diventati custodi dei beni del re. Quindi morì e i suoi figli non rimandarono a lungo l'impresa: una notte si avvicinarono alla reggia, individuarono la pietra nell'edificio, la spostarono facilmente e fecero man bassa delle ricchezze. Il re, quando gli capitò di aprire il tesoro, si stupì di vedere gli orci non più colmi di tesori; né sapeva chi incolpare dato che i sigilli erano intatti e la stanza ben chiusa. Ma quando due o tre volte ancora a entrare nella stanza le ricchezze apparivano sempre di meno (infatti i ladri non smettevano di venire a rubare), ecco come agì: ordinò di preparare delle trappole e di disporle fra gli orci contenenti i suoi averi. Vennero di nuovo i ladri, come le altre volte, e uno di loro si introdusse nel tesoro; ma non appena si accostò ad un orcio subito rimase preso nella trappola; si rese conto del guaio in cui si trovava, chiamò il fratello, gli spiegò la situazione e lo esortò a entrare al più presto e a tagliargli la testa: non voleva, una volta visto e riconosciuto, coinvolgere nella rovina anche il fratello. Questi comprese la bontà della proposta, si convinse e la mise in opera. Poi ricollocò al suo posto la pietra e tornò a casa, portando con sé la testa del fratello. Quando fu giorno, il re entrò nella stanza e rimase sbalordito a vedere il cadavere decapitato del ladro bloccato nella trappola e la camera intatta, senza alcuna via di entrata o di uscita. Incapace di trovare una spiegazione, agì come segue: fece appendere al muro del palazzo il corpo del ladro e vi mise a guardia degli uomini con l'ordine di arrestare e condurre di fronte al re chiunque vedessero piangere o disperarsi. La madre non riuscì a tollerare che il corpo restasse appeso e parlò con il figlio superstite, ordinandogli di studiare la maniera, in qualche modo, di slegare il corpo del fratello e di portarlo via; se non l'avesse fatto minacciava di andare dal re a denunciarlo quale possessore delle ricchezze. Il figlio superstite vistosi così minacciato e incapace, nonostante i molti tentativi, di far cambiare parere a sua madre, ricorse a uno stratagemma. Tenne pronti degli asini, e avendo riempito di vino degli otri li caricò sugli asini che poi spinse davanti a sé; quando fu vicino ai guardiani del cadavere appeso, tirando due o tre cinghie degli otri ne sciolse la legatura; il vino si versava e lui allora si batteva la testa, lamentandosi a gran voce, fingendo di non sapere verso quale asino volgersi per primo; le sentinelle, visto scorrere tutto quel vino, si precipitarono in strada portando recipienti e raccoglievano il vino versato, considerandola una gran fortuna. Quello cominciò a litigare aspramente con tutti loro, simulando rabbia; ma poi, poco per volta, calmato dalle sentinelle, finse di mettersi il cuore in pace e di deporre la sua ira; infine spinse lui stesso gli asini fuori di strada per risistemare il carico; cominciarono a chiacchierare, a scherzare, a ridere finché il ladro regalò ai guardiani uno degli otri; ed essi, così come erano, si sdraiarono pensando solo a bere, invitarono con loro il ladro e lo esortarono a fermarsi per bere tutti in compagnia; il giovane obbedì e rimase con loro; visto poi che tra una bevuta e l'altra lo trattavano con grande familiarità, offrì loro anche un altro otre: a forza di generose libagioni le sentinelle si ubriacarono completamente e, vinte dal sonno, si addormentarono proprio là dove bevevano. Il ladro, non appena fu notte inoltrata, slegò il corpo del fratello e a maggior scorno delle guardie rase loro la guancia destra; caricò il cadavere sugli asini e li spinse verso casa: aveva perfettamente eseguito gli ordini della madre. Il re, quando gli comunicarono che il cadavere del ladro era stato trafugato, si adirò moltissimo e volendo a ogni costo scoprire l'autore di tutte quelle astuzie fece una cosa che a me sembra incredibile: mise sua figlia in un postribolo ordinandole di accettare qualunque uomo senza eccezioni, ma di costringerli tutti, prima di concedersi, a raccontarle l'azione più astuta e scellerata che mai avessero commesso in vita loro; doveva trattenere e non lasciare uscire più dalla casa la persona che le avesse narrato i fatti relativi a quel furto. La ragazza seguì i comandi del padre, ma il ladro, venuto a sapere lo scopo della cosa e volendo superare il re in astuzia, fece così: recise un braccio all'altezza della spalla al cadavere di un individuo morto da poco e tenendolo nascosto sotto il mantello si recò dalla figlia del re; interrogato come gli altri, narrò di aver compiuto l'impresa più empia quando aveva decapitato il fratello impigliato in una trappola nella stanza del tesoro reale, e la più astuta quando aveva ubriacato le sentinelle e slegato il cadavere appeso del fratello. Come lo udì la ragazza gli si accostò, ma il ladro nel buio le porse il braccio del morto: lei lo ghermì e lo tenne stretto credendo di aver afferrato la mano del ladro, il quale invece lasciandole il braccio fuggì tranquillamente attraverso la porta. Quando tutto ciò gli fu riferito, il re rimase impressionato dalla scaltrezza e dal coraggio dimostrati dallo sconosciuto; infine inviò messaggi in ogni città promettendo l'impunità e anche ricchi doni se si fosse presentato al suo cospetto: il ladro credette alla parola del re e venne da lui. Rampsinito, pieno di ammirazione, gli diede sua figlia in moglie giudicandolo l'uomo più intelligente della terra: perché gli Egiziani a suo parere erano superiori a tutti gli altri uomini, e lui era il primo degli Egiziani.

Narrato questo episodio, i sacerdoti mi dissero che Rampsinito era disceso vivo nel luogo detto Ade dai Greci, dove avrebbe giocato a dadi con Demetra, ora vincendo ora perdendo; poi sarebbe ricomparso sulla terra portando con sé come dono della dea un asciugamano d'oro. Dopo la discesa agli inferi di Rampsinito o meglio dopo il suo ritorno, sempre secondo i sacerdoti, gli Egiziani indissero una grande festa, che so celebrata ancora ai giorni nostri, anche se non sono in grado di confermarne l'origine. Il giorno stesso della festa i sacerdoti intessono un mantello, poi con una benda coprono gli occhi di uno di loro e quindi lo conducono, vestito di quel mantello, sulla strada che porta al tempio di Demetra; poi se ne tornano via; il sacerdote, con gli occhi bendati, viene guidato da due lupi, dicono, fino al tempio di Demetra, lontano dalla città venti stadi; gli stessi lupi lo riaccompagnerebbero indietro dal tempio fino al punto di prima.

Accetti pure questi racconti egiziani chi li giudica credibili; quanto a me il mio unico scopo in tutta la mia opera è di registrare, come l'ho udito, quello che ciascuno racconta. A sentire gli Egiziani i re dell'oltretomba sono Demetra e Dioniso. E gli Egiziani furono i primi a sostenere che l'anima è immortale e che trasmigra, perito il corpo, in un altro essere vivente, che sta nascendo a sua volta; dopo essere passata attraverso tutti gli animali terrestri e acquatici, e alati, l'anima trasmigrerebbe nuovamente nel corpo di un uomo: il ciclo si compierebbe nell'arco di tremila anni. Questa teoria fu poi ripresa da alcuni Greci, in varie epoche, come se si fosse trattato di una loro scoperta: io ne conosco i nomi, ma non li scrivo.

Fino al regno di Rampsinito, mi dicevano i sacerdoti, l'Egitto godette di una ottima amministrazione e di una grande prosperità; ma Cheope, che regnò dopo di lui, gettò il paese in una gravissima situazione; per prima cosa Cheope chiuse tutti i templi e vietò i sacrifici, poi costrinse tutti gli Egiziani a lavorare per lui. Ad alcuni impose di trascinare pietre dalle cave situate nelle montagne d'Arabia fino al Nilo; ad altri assegnò di ricevere le pietre, trasportate su navi attraverso il fiume, e di trainarle a loro volta fino al monte chiamato Libico. Ai lavori partecipavano sempre 100.000 uomini per volta in turni di tre mesi. In termini di tempo ci vollero dieci anni di duro lavoro collettivo per la costruzione della strada su cui trainare le pietre, opera a mio parere che ha poco da invidiare alla piramide stessa (è lunga cinque stadi, larga dieci orgie, l'altezza nel punto più elevato raggiunge le otto orgie, è realizzata con pietre levigate e vi sono incise figure animali). Dieci anni occorsero per la strada e per l'allestimento delle camere sotterranee nell'altura su cui sorgono le piramidi: Cheope si fece costruire queste camere come sepoltura per sé in un'isola ricavata con un canale derivato dal Nilo. Per edificare la piramide occorsero venti anni: ognuna delle sue quattro facce ha la base di otto pletri, e altrettanto misura in altezza; essa è completamente fatta di blocchi di pietra levigati e perfettamente connessi fra loro: nessuna delle pietre misura meno di trenta piedi.

La piramide fu realizzata a gradini, detti crossai da alcuni e bomides da altri. Quando la ebbero costruita così, con macchine di corti legni sollevarono le pietre rimanenti dal livello del suolo al primo ripiano. Dopo che era stata alzata sul primo la pietra veniva affidata a una seconda macchina posta sul primo ripiano, e questa la sollevava fino al secondo gradino su una terza macchina: le macchine erano in numero pari ai gradini, ma poteva anche esserci un unico macchinario, sempre lo stesso, facilmente trasportabile da un ripiano all'altro, ogni volta che la pietra fosse stata levata. Devo riferire entrambe le versioni perché entrambe vengono narrate. Dapprima fu ultimata la parte più alta della piramide, poi le altre in successione, per ultimi il piano sopra il livello del suolo e il gradino più basso. Una iscrizione in caratteri egizi sulla piramide dichiara quanto fu speso in rafani, cipolle e aglio per i lavoratori e, se ben ricordo le parole dell'interprete che mi lesse l'iscrizione, la cifra ammontava a 1600 talenti di argento. Se questa cifra è esatta, quanto altro denaro deve essere stato speso per i ferri di lavoro, per il mantenimento e per le vesti degli operai? Tanto più che se impiegarono il tempo suddetto per la realizzazione delle opere, altro ne occorse, io credo, per tagliare le pietre, per il loro trasporto e per lo scavo sotterraneo.

Cheope in difficoltà economiche sarebbe giunto a tanta infamia da mandare la figlia in un postribolo con l'ordine di incassare una determinata cifra di denaro; non ne conosco l'entità perché i sacerdoti non me lo riferirono; la ragazza ricavò la somma richiesta dal padre e per conto suo pensò di lasciare memoria di sé, chiedendo a ciascuno dei suoi clienti di donarle una pietra: con queste pietre, a quanto mi dissero, si fece costruire la piramide posta in mezzo alle altre tre e di fronte alla più grande; ogni lato di essa misura un pletro e mezzo.

Gli Egiziani mi dissero che Cheope regnò sull'Egitto per cinquanta anni; alla sua morte il potere passò nelle mani del fratello Chefren. Chefren si comportò esattamente come il suo predecessore: fra l'altro si fece costruire anche lui una piramide, ma non delle dimensioni di quella di Cheope (noi l'abbiamo personalmente misurata): non possiede vani sotterranei e non c'è un canale che porti fino ad essa le acque del Nilo come accade per l'altra piramide; il Nilo infatti attraverso un condotto artificiale circonda un isolotto dove pare che Cheope sia seppellito. Dopo aver costruito il primo ripiano in granito etiopico di vari colori, eresse la propria piramide accanto all'altra, la grande, ma restando quaranta piedi di meno in altezza. Sorgono entrambe sullo stesso colle, alto all'incirca un centinaio di piedi. Mi dissero che Chefren regnò per 56 anni.

E calcolano così a 106 gli anni di totale miseria per gli Egiziani: inoltre per tutto questo periodo i templi che erano stati chiusi non vennero mai riaperti. Gli Egiziani non amano ricordare il nome di questi due re, tanto è l'odio che nutrono verso di loro; persino le piramidi le chiamano dal nome del pastore Filiti, che all'epoca faceva pascolare le sue greggi da quelle parti.

Dopo Chefren regnò sull'Egitto Micerino, figlio di Cheope; a Micerino non piaceva l'operato del padre: allora riaprì i templi e consentì al popolo, ormai ridotto alla estrema miseria, di tornare ai propri lavori e alle proprie pratiche religiose; inoltre dirimeva le cause con senso di giustizia più forte di tutti i re precedenti. Per questa sua attività gli Egiziani lodano Micerino più di tutti i re succedutisi sul trono fino ad oggi; in effetti, oltre a emettere sempre eccellenti sentenze, donava denaro proprio a chi risultasse insoddisfatto della sua decisione, per placarne il risentimento. A Micerino, re mite nei confronti dei sudditi e che si comportava come ho detto, capitarono una serie di sventure: la prima fu la morte dell'unica sua figlia. Profondamente addolorato dalla sciagura che gli era piombata addosso, volle seppellire la figlia in una maniera assolutamente eccezionale: fece costruire una vacca di legno, cava, la fece rivestire interamente d'oro e vi introdusse la salma della figlia.

Questa vacca non fu poi calata nella terra, ma lasciata a Sais dentro la reggia in una stanza decorata, dove era visibile ancora ai miei tempi; tutti i giorni vi bruciano aromi di ogni genere, e ogni notte, vi arde una lampada costantemente accesa. In un'altra stanza, a poca distanza dalla vacca, si trovano le statue delle concubine di Micerino, così perlomeno dicevano i sacerdoti della città di Sais. Ci sono infatti alcune enormi statue di legno, una ventina circa, raffiguranti dei nudi femminili; nulla posso dire circa la loro identità, oltre a ciò che si racconta.

Alcuni narrano a proposito della vacca e delle statue la seguente leggenda: Micerino si innamorò della figlia e la costrinse a unirsi con lui; dicono inoltre che subito dopo, per il dolore, la ragazza si impiccò; mentre il padre provvedeva a seppellirla nella vacca, la madre fece tagliare le mani alle ancelle che avevano consegnato sua figlia nelle mani del padre; e ora appunto le statue di queste ancelle avrebbero patito la punizione subita da loro vive. Ma a mio parere dicono delle sciocchezze, sia nel resto sia nel dettaglio delle mani delle statue; ho potuto constatare personalmente che si sono staccate a causa dell'azione del tempo: erano ancora visibili all'epoca della mia visita, per terra, ai piedi delle statue.

Il corpo della vacca è coperto da un tessuto di porpora da cui spuntano il collo e la testa, chiaramente rivestiti di uno spesso strato d'oro: in mezzo alle corna è effigiato in oro il disco del sole. La vacca non è dritta in piedi ma giace sulle ginocchia: le sue dimensioni sono quelle di un grosso esemplare vivo. Una volta all'anno viene portata fuori dalla stanza, nei giorni in cui gli Egiziani si battono il petto in onore del dio che preferisco non nominare in questo momento; allora portano alla luce del sole anche la vacca: sembra sia stata la ragazza stessa, in punto di morte, a chiedere al padre di vedere il sole una volta all'anno.

Dopo la scomparsa della figlia, un'altra sventura colpì il re: un oracolo proveniente dalla città di Buto gli predisse solo sei anni di vita: sarebbe morto nel settimo. Molto contrariato il re inviò all'oracolo un messaggio di biasimo per il dio: suo padre e suo zio, - così rinfacciava Micerino all'oracolo - erano vissuti molto a lungo benché avessero chiuso i templi, si fossero scordati degli dei e avessero fatto morire la gente, mentre lui, che si era comportato devotamente, presto avrebbe dovuto morire. E dall'oracolo gli venne un secondo responso; proprio per questo gli era stata accorciata l'esistenza: non aveva agito come doveva, perché bisognava che l'Egitto patisse sciagure per 150 anni. I suoi due predecessori lo avevano capito, lui invece no. Udito ciò Micerino, a cui il destino pareva ormai segnato, si fece fabbricare molte lampade: ogni volta che scendeva la notte le accendeva e si abbandonava al bere e alle baldorie, senza smettere né di giorno né di notte, vagando tra i boschi o le paludi e ovunque accertasse l'esistenza di luoghi di divertimento. Voleva così dimostrare che l'oracolo mentiva e aumentarsi da sei a dodici gli anni di vita, trasformando le notti in giorni.

Anche questo re lasciò una piramide, molto più piccola di quella del padre: misura su ciascun lato tre pletri meno venti piedi, ha base di forma quadrangolare ed è per metà in pietra etiopica. Alcuni Greci attribuiscono questa piramide a Rodopi, la cortigiana, ma non è vero: costoro secondo me parlano senza neppure sapere chi era Rodopi, altrimenti non potrebbero attribuirle la costruzione di una piramide come quella che costa migliaia di talenti, una cifra per così dire incalcolabile; inoltre Rodopi godette il massimo splendore all'epoca del re Amasi e non sotto il regno di Micerino, vale a dire parecchi anni dopo i re che lasciarono queste piramidi; Rodopi era di stirpe tracia, schiava di Iadmone di Samo, figlio di Efestopoli, e compagna di schiavitù di Esopo, il favolista. Anche Esopo infatti fu schiavo di Iadmone; lo dimostra senz'altro il fatto seguente: quando già varie volte i cittadini di Delfi in seguito a un oracolo avevano diffuso un bando, cercando chi volesse riscuotere il compenso dovuto per la vita di Esopo, fu un Iadmone, nipote appunto di quel Iadmone, a farsi avanti, non altri; ciò dimostra che Esopo era appartenuto a Iadmone.

Rodopi giunse in Egitto al seguito di Xanto di Samo, vi giunse per esercitarvi l'antica professione, e vi fu riscattata per una somma enorme da un uomo di Mitilene, Carasso, figlio di Scamandronimo e fratello della poetessa Saffo. Divenuta in tal modo libera, Rodopi rimase in Egitto e siccome era molto attraente riuscì ad arricchirsi, ma quanto basta per essere una Rodopi, non certo per permettersi una piramide come quella. Ancora oggi chiunque lo voglia può valutare coi propri occhi la decima dei suoi averi, e non è proprio il caso di attribuirle spropositate ricchezze. Infatti Rodopi volle lasciare in Grecia memoria di sé ordinando che le venissero allestiti oggetti mai escogitati per una offerta a un tempio; e volle dedicarli a Delfi a ricordo di sé. Con la decima parte dei suoi averi fece fondere numerosi spiedi di ferro, da bue, quanti ne consentiva quella somma, e li mandò a Delfi. Ancora oggi essi si trovano accatastati dietro l'altare donato dagli abitanti di Chio, di fronte alla cella del tempio. Generalmente le grandi prostitute di Naucrati sono molto attraenti: già Rodopi, la pro

tagonista del nostro discorso, divenne tanto famosa che tutti i Greci ne conobbero il nome; più tardi, dopo di lei divenne celebre in tutta la Grecia una certa Archidice, anche se costituì meno argomento di conversazione. Quanto a Carasso, dopo aver riscattato Rodopi, tornò a Mitilene, e Saffo lo rimproverò duramente in un carme. Ma su Rodopi ormai ho terminato.

I sacerdoti raccontavano ancora che dopo Micerino divenne re Asichi; Asichi eresse i propilei orientali del tempio di Efesto, che sono di gran lunga i più belli e imponenti. Tutti i propilei presentano bassorilievi e infinite meraviglie architettoniche, ma quelli li superano largamente. Sotto il regno di Asichi, narravano, essendo scarsa la circolazione di denaro, fu promulgata per gli Egiziani una legge in base alla quale era consentito ricevere un prestito a chi desse in pegno il cadavere del padre. A tale legge se ne aggiunse poi un'altra: il creditore poteva diventare proprietario dell'intera tomba del debitore, il quale appunto, se aveva concesso quel tipo di garanzia e rifiutava poi di restituire il prestito, come sanzione perdeva il diritto di essere seppellito, dopo morto, nella tomba di famiglia o in un'altra qualunque; né poteva dar sepoltura ad alcuno dei suoi. Asichi, volendo superare tutti i re suoi predecessori sul trono dell'Egitto, lasciò in ricordo di sé una piramide di mattoni, sulla quale campeggiava una lapide con incise queste parole: «Non disprezzarmi a confronto con le piramidi di pietra: io sono superiore ad esse quanto Zeus è superiore agli altri dei, perché hanno immerso una pertica nel lago e con il fango ad essa rimasto attaccato hanno fatto dei mattoni e così mi hanno costruito». Queste furono tutte le imprese di Asichi.

Dopo di lui salì al trono un cieco della città di Anisi, che si chiamava a sua volta Anisi. Sotto questo sovrano mosse contro l'Egitto un forte contingente di Etiopi guidati dal re Sabacos. Allora il cieco Anisi fuggì in direzione delle paludi; l'Etiope regnò sull'Egitto per cinquanta anni durante i quali si regolò come segue: quando un Egiziano commetteva qualche crimine, non voleva mandarlo a morte, ma gli assegnava una pena proporzionata alla gravità del reato, imponendo a ciascun colpevole di compiere lavori di terrazzamento nella sua città natale. E in tal modo le città divennero ancora più alte; i primi lavori di questo tipo si erano avuti all'epoca del re Sesostri, in seguito allo scavo dei canali, per la seconda volta si fecero durante il regno dell'Etiope; e le città furono elevate di molto. Fra le tante città egiziane che vennero rialzate quella a mio parere dove i terrazzamenti furono più cospicui fu Bubasti, dove sorge anche il notevolissimo tempio della dea Bubasti: esistono certamente altri santuari più grandi di questo, ma nessuno è altrettanto bello da visitare. La dea Bubasti è l'equivalente della dea greca Artemide.

Il suo santuario si presenta così: all'infuori della strada di accesso tutto il resto è un'isola: in effetti dal Nilo due canali si spingono paralleli fino all'ingresso del tempio dove divergono per scorrere intorno al santuario uno da una parte, uno dall'altra; ciascuno dei canali è largo 100 piedi ed è ombreggiato da file di alberi. I propilei raggiungono le dieci orgie in altezza e sono ornati di figure scolpite alte sei piedi, degne di essere ricordate. Il tempio, trovandosi nel centro della città, è visibile in basso da qualunque punto circostante, perché mentre la città è stata rialzata con terrapieni, il tempio invece non è mai stato toccato da quando fu costruito; e quindi risulta in bella vista. Lo circonda un muro di cinta ornato di bassorilievi al cui interno si trova un boschetto di altissimi alberi intorno alla grande cella dove è racchiusa la statua della dea; in lunghezza e in larghezza il santuario misura uno stadio. Davanti all'ingresso c'è una strada lastricata di pietra, lunga circa tre stadi e larga circa quattro pletri: attraversa la piazza della città e procede verso oriente. Su entrambi i lati della strada, che porta al tempio di Ermes, crescono alberi che si levano fino al cielo. Così è il tempio di Bubasti.

Ecco come i sacerdoti raccontavano la definitiva partenza dell'Etiope; fu una vera e propria fuga dovuta a una visione apparsagli in sogno: aveva sognato che un uomo, accanto a lui, gli consigliava di radunare tutti insieme i sacerdoti egiziani e di farli tagliare a metà. Avuta questa visione dichiarò che a suo parere gli dei gli offrivano un pretesto perché si macchiasse di empietà e venisse a patire sventure da parte degli dei e degli uomini; perciò non avrebbe obbedito; tanto più che era arrivato il tempo, predettogli da un oracolo, di ritirarsi dopo aver regnato sull'Egitto. Infatti quando ancora stava in Etiopia gli oracoli consultati abitualmente dagli Etiopi gli avevano profetizzato cinquanta anni di regno sull'Egitto. Siccome dunque questo tempo era trascorso e dato che il sogno notturno lo aveva sconvolto, Sabacos di sua spontanea volontà si ritirò dall'Egitto. |[continua]|

 

|[LIBRO II, 4]|

Dopo la partenza dell'Etiope prese di nuovo a regnare sull'Egitto il sovrano cieco, tornato dalle paludi dove per cinquanta anni aveva vissuto in un isolotto da lui stesso formato con terra e cenere; infatti ogni volta che gli Egiziani venivano a portargli del cibo, secondo gli ordini e all'insaputa del re etiope, chiedeva loro di portargli in dono anche un po' di cenere. Nessuno riuscì a scoprire quest'isola prima di Amirteo: per più di settecento anni i predecessori del re Amirteo non furono capaci di trovarla; l'isola si chiama Elbo e misura dieci stadi in ogni direzione.

Dopo Anisi salì al trono un sacerdote del tempio di Efesto, di nome Setone; costui non aveva nessuna considerazione per la classe dei guerrieri egiziani anzi li disprezzava, pensando forse di non dover mai avere bisogno di loro; fra le altre angherie che impose loro li privò dei terreni: sotto i re precedenti a ciascun guerriero era stato assegnato un lotto di dodici «arure». Più tardi, quando il re d'Arabia e d'Assiria Sennacherib mosse con un grande esercito contro l'Egitto, i guerrieri egiziani non vollero accorrere a difesa del paese. Allora il re sacerdote, ormai in una grave situazione, entrò nella sala del tempio a lamentarsi, di fronte alla statua del dio, delle sciagure che rischiava di subire; mentre si lamentava si addormentò e sognò che il dio, standogli accanto, lo rincuorasse: non gli sarebbe successo nulla di spiacevole se avesse affrontato l'esercito arabo, perché il dio in persona gli avrebbe mandato dei soccorsi. Fiducioso in quanto aveva sognato prese con sé tutti gli Egiziani disposti a seguirlo e si accampò presso Pelusio (dove appunto si trovano le vie di accesso all'Egitto). Nessun guerriero lo aveva seguito, soltanto bottegai, artigiani e mercanti. Quando sopr