Manuale

 

LIVELLO SUPERIORE

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EPITTETO • MANUALE

 

 

 

1. La realtà si divide in cose soggette al nostro potere e cose non soggette al nostro potere. In nostro potere sono il giudizio, l'impulso, il desiderio, l'avversione e, in una parola, ogni attività che sia propriamente nostra; non sono in nostro potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche pubbliche e, in una parola, ogni attività che non sia nostra. [2] E ciò che rientra in nostro potere è per natura libero, immune da inibizioni, ostacoli, mentre quanto non vi rientra è debole, schiavo, coercibile, estraneo. [3] Ricorda, allora, che se considererai libere le cose che per natura sono schiave, e tuo personale ciò che è estraneo, sarai impedito, soffrirai, sarai turbato, ti lamenterai degli dèi e degli uomini; se invece riterrai tuo solo ciò che è tuo, ed estraneo, come in effetti è, ciò che è estraneo, nessuno ti potrà mai coartare, nessuno ti impedirà, non ti lamenterai di nessuno, non accuserai nessuno, non ci sarà cosa che dovrai compiere contro voglia, nessuno ti danneggerà, non avrai nemici, perché non potrai patire alcun danno. [4] Ora, se aspiri a così alta condizione, ricorda che non basta uno sforzo modesto per raggiungerla, ma ci sono cose che devi definitivamente abbandonare, altre che per il momento devi differire. Mentre se desideri averle, e in più desideri cariche pubbliche e ricchezze, probabilmente, per il fatto stesso di ambire alle prime, non otterrai neppure le seconde: in ogni caso, fallirai gli unici presupposti che consentano libertà e felicità. [5] Quindi esercitati fin d'ora a dire a ogni rappresentazione che ti colpisca per la sua asprezza: «sei soltanto una rappresentazione, non sei affatto ciò che sembri in apparenza». Poi analizzala e sottoponila alla valutazione degli strumenti in tuo possesso, accertando - il primo e il più importante esame - se essa sia relativa a cose che ricadono in nostro potere ovvero a quelle che non vi rientrano; e in questo secondo caso abbi già pronta la conclusione: «per me non è nulla».

 

2. Ricorda che il desiderio promette di farti ottenere ciò che desideri, l'avversione di non farti incorrere in ciò che avversi, e che chi non raggiunge l'oggetto del desiderio non ha la sorte dalla sua, mentre chi ricade in qualcosa da cui sta rifuggendo patisce la cattiva sorte. Ora, se avverserai soltanto ciò che è contrario alla natura tra le cose che sono in tuo potere, non incorrerai in nulla di ciò che avversi; ma se avverserai la malattia, la morte o la povertà, patirai la cattiva sorte. [2] Pertanto rimuovi ogni avversione da tutto ciò che non dipende da noi e trasferiscila alle cose che, tra quante dipendono da noi, sono contrarie alla natura. Per il momento sopprimi completamente ogni desiderio: perché se miri a qualcosa che non è in nostro potere inevitabilmente fallirai, e d'altra parte ancora non puoi disporre di alcune tra le cose che sono in nostro potere, alle quali sarebbe bene rivolgere il desiderio. Usa soltanto l'impulso e la ripulsa: ma in misura leggera, con riserva, e senza trascendere.

 

3. Di fronte a ogni singola cosa che ti attragga, ti si presenti utile o abbia il tuo affetto, ricorda di pronunciarti sulla sua vera natura, a cominciare dalle più piccole. Se ti piace una pentola, dirai: «mi piace una pentola»; quando andrà in frantumi non ne sarai turbato. Se baci tuo figlio o tua moglie, ripeti a te stesso che stai baciando un essere umano: la sua morte non ti turberà.

 

4. Ogni volta che ti accingi a un'azione, ricorda a te stesso quale sia la sua vera natura. Se esci per recarti al bagno pubblico, predisponiti mentalmente a quello che succede in questi ambienti: la gente che ti spruzza, ti urta, ti insulta, ti deruba. E così, se inizierai col dire: «voglio fare un bagno e mantenere la mia scelta morale conforme a natura», ti disporrai ad agire con più sicurezza. E fai altrettanto per ogni altra azione. Perché in questo modo, se qualcosa dovesse impedirti il bagno, potrai dire prontamente: «non volevo soltanto lavarmi, ma anche mantenere la mia scelta morale conforme a natura: e non ci riuscirò, se mi infastidisco per quel che succede».

 

5. Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti. Per esempio, la morte non è nulla di terribile (perché altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate): ma il giudizio che la vuole terribile, ecco, questo è terribile. Di conseguenza, quando subiamo un impedimento, siamo turbati o afflitti, non dobbiamo mai accusare nessun altro tranne noi stessi, ossia i nostri giudizi. Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l'ha intrapresa incolpa sé stesso; chi l'ha completata non incolpa né gli altri né se stesso.

 

6. Non inorgoglirti per un merito che non ti appartiene. Se fosse il cavallo a vantarsi: «sono bello», si potrebbe anche accettarlo; ma quando tu orgogliosamente dici: «ho un bel cavallo», sappi che ti stai vantando di un pregio del cavallo. Cos'è davvero tuo, dunque? Il tuo comportamento di fronte alle rappresentazioni. Perciò, quando ti regoli secondo natura nell'uso delle rappresentazioni, allora potrai essere fiero: perché in quel momento lo sarai per un bene che è tuo.

 

7. Come in un viaggio per mare, se la nave ha ormeggiato e sei sbarcato per attingere acqua, cammin facendo potrà anche capitarti di raccogliere una conchiglietta, una piccola radice, ma la tua attenzione dev'esser sempre fissa alla nave, devi voltarti continuamente indietro, caso mai il timoniere ti chiamasse, e se ti chiama devi lasciar perdere tutto, se non vuoi esser caricato a bordo legato come una pecora: allo stesso modo anche nella vita, se ti sono dati non una conchiglia o una radice, ma moglie e figlio, nulla ti vieterà di avere la tua famigliola: ma se il timoniere ti chiama, lascia perdere tutto e corri alla nave senza neanche voltarti. E se sei vecchio non ti allontanare mai troppo dalla nave, in modo da non mancare, quando sarai chiamato.

 

8. Non devi adoperarti perché gli avvenimenti seguano il tuo desiderio, ma desiderarli così come avvengono, e la tua vita scorrerà serena.

 

9. La malattia è impedimento del corpo, non della scelta morale, a meno che non sia proprio quest'ultima a volerlo. Essere zoppo è un impedimento della gamba, non del proposito morale. Ripetilo a te stesso, a ogni accidente che ti sopraggiunge: verificherai che è un impedimento per qualcos'altro, non per te.

 

10. A ogni singola cosa che incontri, ricorda di rivolgerti a te stesso per cercare di quale facoltà tu disponga in relazione a essa. Se vedi un bel giovane o una bella donna, troverai che in questo caso la facoltà da applicare è il dominio di sé; posto di fronte a una fatica, troverai la resistenza; a un'ingiuria, la pazienza. Se ti abitui così, le rappresentazioni non ti travolgeranno.

 

11. Non dir mai di nessuna cosa: «l'ho perduta», ma: «l'ho restituita». È morto tuo figlio? È stato restituito. È morta tua moglie? È stata restituita. «Mi è stato tolto il podere»: ebbene, anche questo è stato restituito. «Ma chi me l'ha portato via è un malfattore». E a te cosa importa attraverso chi ne abbia chiesto la restituzione colui che te lo aveva dato? Finché ti concede di tenerlo, abbine cura come di un bene che non è tuo, come i viaggiatori della locanda.

 

12. Se vuoi progredire, lascia da parte i ragionamenti di questo genere: «se trascurerò i miei beni non avrò di che vivere», «se non punisco il mio schiavo, diventerà un furfante». Meglio morire di fame, ma libero da afflizioni e paure, piuttosto che vivere nell'abbondanza, ma nell'inquietudine. Meglio che lo schiavo sia disonesto, piuttosto che tu infelice. [2] Perciò comincia dalle piccole cose. Ti spandono qualche goccia del tuo povero olio, ti rubano un po' del tuo vinello? Di' a te stesso: «questo è il prezzo per la tranquillità dell'animo, il costo dell'imperturbabilità». Gratis non si ottiene nulla. E quando chiami lo schiavo pensa che può non ascoltarti, e può anche ascoltarti, ma non far nulla di quello che vuoi: ma non ha certo il privilegio di avere la tua tranquillità interiore in suo potere.

 

13. Se vuoi progredire, sopporta pure che le circostanze esterne ti procurino la reputazione di stolto e insensato, non cercare affatto di apparire sapiente: anzi, se ci sarà chi ti considera qualcuno, diffida di te stesso. Perché devi sapere che non è facile conservare la tua scelta morale conforme a natura e insieme conservare le cose esterne: chi si occupa dell'una necessariamente deve trascurare le altre, e viceversa.

 

14. Se vuoi che i tuoi figli, tua moglie, i tuoi amici vivano per sempre, sei stolto: vuoi che sia in tuo potere ciò che non lo è, e che quanto non ti appartiene sia tuo. Così pure, se vuoi che il tuo schiavo non sbagli, sei sciocco: pretendi che il difetto non sia difetto, ma qualcos'altro. Mentre se non vuoi fallire quando desideri qualcosa, questo puoi ottenerlo. Perciò esercitati in quello che puoi. [2] Chi ha il potere di procurare o di togliere a un uomo ciò che questi desidera o non desidera è il suo padrone. Quindi chi vuole essere libero non desideri e non rifugga nulla di ciò che dipende da altri: se no, inevitabilmente, sarà schiavo.

 

15. Ricorda che nella vita devi comportarti come a un banchetto. Una portata girando tra i convitati è arrivata davanti a te: allunga la mano e prendi la tua parte, con educazione; il piatto passa oltre: non fermarlo; non è ancora arrivato da te: non protenderti inseguendo l'appetito, aspetta che ti sia di fronte. Così fai con i figli, così con la moglie, con le cariche pubbliche, con la ricchezza: e un giorno sarai degno di stare a banchetto con gli dèi. Se poi, invece di prendere la porzione che ti sarà servita, la ignorerai, allora sarai degno non solo della mensa degli dèi, ma anche di governare con loro. È per questo comportamento che Diogene ed Eraclito, e gli uomini come loro furono meritamente considerati divini, e tali furono in effetti.

 

16. Quando vedi qualcuno in lacrime per un lutto, per la partenza di un figlio o per la perdita dei beni, bada di non farti trascinare dalla rappresentazione, pensando che egli soffra a causa di fatti esterni, ma abbi sottomano la considerazione: «lo affligge non ciò che è accaduto (infatti altri non ne sono afflitti), bensì il suo giudizio sull'accaduto». Non esitare, senza andare al di là delle parole, a partecipare al suo dolore; eventualmente condividi i suoi gemiti: ma attento a non gemere anche dentro di te.

 

17. Ricorda che sei soltanto attore di un dramma, ed è chi lo allestisce a stabilire di quale dramma: se lo vuole breve, reciti un dramma breve; se decide che sia lungo, uno lungo; se ti riserva la parte di un mendicante, cerca di interpretarla con bravura, e così quella di uno zoppo, di un magistrato, del privato cittadino. Perché il tuo compito è questo: impersonare bene il ruolo assegnato; sceglierlo tocca ad altri.

 

18. Quando un corvo gracchia di malaugurio, non lasciarti trascinare dalla rappresentazione, ma distingui subito dentro di te, dicendo: «nessuno di questi auspici è diretto a me, ma a questo mio misero corpo, alla mia piccola proprietà, alla mia povera reputazione, oppure ai miei figli, a mia moglie. Per me ogni augurio è favorevole, se io lo voglio: perché, qualunque sia il suo esito, dipende da me trarne beneficio».

 

19. Puoi essere invincibile, se non entri mai in nessuna lotta dalla quale non dipenda da te uscire vincitore. [2] Quando vedi qualcuno che gode di maggiori onori, oppure è molto potente o reputato per qualche altra ragione, stai attento a non farti mai trascinare dalla rappresentazione a considerarlo un uomo felice. Perché se l'essenza del bene è nelle cose che dipendono da noi, non c'è motivo d'invidia o di gelosia: e del resto tu non vorrai essere stratego, pritano o console, ma un uomo libero. E c'è una sola via che porta a questa meta: il disprezzo di ciò che non dipende da noi.

 

20. A offendere, ricordalo, non è chi insulta o percuote, ma il giudizio che queste azioni siano offensive. Perciò, quando uno ti irrita, sappi che è la tua opinione che ti ha irritato. Come prima cosa, quindi, cerca di non lasciarti trascinare subito dalla rappresentazione: una volta che avrai guadagnato un po' di tempo per riflettere, potrai dominarti più facilmente.

 

21. La morte, l'esilio e tutto ciò che appare terribile ti siano quotidianamente dinanzi agli occhi, più di ogni altra cosa la morte: e non avrai mai alcun pensiero meschino né desidererai mai nulla oltre misura.

 

22. Se aspiri alla filosofia, preparati fin d'ora a essere deriso e schernito dalla gente: «ce lo ritroviamo di colpo filosofo», diranno, e ancora: «da dove ha preso tutto questo cipiglio?». Ma sul tuo volto non vi sia cipiglio; attieniti invece a ciò che ti pare il meglio, come un uomo assegnato dal dio a questo posto. E ricorda che se resterai coerente agli stessi principi, quelli che prima ti beffavano poi ti ammireranno, mentre se ti rivelerai inferiore a essi riscuoterai un doppio dileggio.

 

23. Se mai ti accadesse, per voler compiacere qualcuno, di volgerti alle cose esterne, avresti perduto, siine certo, il tuo programma morale. Dunque, in ogni circostanza, accontentati di essere filosofo, e se vuoi anche apparire filosofo, mostrati tale a te stesso, e ne sarai in grado.

 

24. Non affliggerti con questi pensieri: «vivrò senza onore e non sarò nessuno in nessun luogo». Perché, se la privazione dell'onore è un male, non puoi patire un male a causa d'altri, come neppure una vergogna. Ora, ottenere una carica pubblica o essere invitato a un banchetto sono forse cose che dipendono da te? No, affatto. Dunque non averle come può costituire una privazione di onore? E come potrai non essere nessuno in nessun luogo, visto che devi esser qualcuno soltanto nelle cose che dipendono da te, e in queste hai la possibilità di giungere al più alto valore? [2] Ma, tu obietti, i tuoi amici resteranno senza aiuto. In che senso dici "senza aiuto"? Non riceveranno un soldo da te, e neppure potrai farli cittadini romani: ma chi ti ha detto che queste cose rientrano tra quelle in nostro potere, che non ci sono estranee? E chi può dare a un altro ciò che non ha neppure per sé? [3] «Allora tu acquisisci», dice qualcuno, «in modo che noi possiamo avere». Se sono in grado di acquisire conservando pudore, lealtà e nobiltà d'animo, indicami la strada e acquisirò. Ma se ritenete che io debba perdere i miei beni perché voi abbiate quelli che beni non sono, giudicate voi stessi quanto siete ingiusti e sconsiderati. Cosa preferite, insomma? Del denaro o un amico leale e rispettoso? Allora aiutatemi a esserlo, invece di chiedermi di compiere azioni che mi faranno perdere queste qualità. [4] «Ma la patria», dirà qualcuno, «per quanto sta in me resterà senza aiuto». Di nuovo: ma di quale aiuto stai parlando? Da te non potrà avere portici o bagni pubblici: e con ciò? Nemmeno riceve calzature dal fabbro, né il calzolaio le fornisce armi: basta che ciascuno esegua il proprio compito. E se tu le procurassi un altro cittadino leale e rispettoso, non le gioveresti in nulla? «Sì». Allora neanche tu puoi risultarle inutile. [5] «Ma», chiede, «quale posto occuperò nello Stato?». Quello che puoi occupare continuando a conservare rispetto e lealtà. Perché, se volendo giovare alla patria li perderai, che beneficio potrai fornirle divenuto impudente e sleale?

 

25. A qualcuno è stato riservato più onore che a te durante un banchetto, in un'espressione di saluto oppure nella richiesta di un consiglio? Se questi sono beni, devi rallegrarti che li abbia ottenuti; se invece si tratta di mali, non crucciarti di non averli conseguiti. E ricorda che, se non fai come gli altri per raggiungere cose che non rientrano in nostro potere, non puoi certo pretendere eguali risultati. [2] Chi non bussa alla porta di questo o di quello come può ricevere lo stesso di chi vi si presenta? Se non ti accodi a qualcuno, se non lo lodi, come puoi avere altrettanto di chi sta nel corteggio e adula? Sarai ingiusto e incontentabile se invece di pagare il prezzo al quale si vende questa merce pretenderai di averla gratis. [3] Quanto costa un cespo di lattuga? Un obolo, poniamo. Ora, se uno paga un obolo e compra la lattuga, mentre tu l'obolo non lo sborsi e la lattuga non la compri, non puoi pensare di aver meno di lui: lui ha la lattuga, ma tu hai l'obolo che non hai speso. [4] Altrettanto vale anche nel nostro caso. Qualcuno non ti ha invitato a banchetto? Evidentemente non avevi versato all'ospite il corrispettivo della cena. Quello vende la cena in cambio di elogi, di servigi: se lo trovi conveniente, pagagli il prezzo che chiede. Ma se pretendi di non versarglielo e di prendere lo stesso la merce, sei incontentabile e sciocco. [5] Al posto della cena, allora, non ti resta nulla? Sì: ti resta il fatto di non aver elogiato qualcuno che non volevi elogiare, di non esserti piegato a quello che succede all'ingresso in casa sua.

 

26. È possibile comprendere la volontà della natura nelle situazioni in cui non siamo mossi da interessi personali. Per esempio, quando lo schiavo di un altro rompe una coppa, viene fatto di dire: «sono cose che succedono». Allora, però, quando è la tua coppa che si spezza, devi comportarti esattamente come quando va in frantumi quella dell'altro. E la stessa condotta trasferiscila anche alle circostanze più gravi. È morto il figlio o la moglie di un altro? Tutti, senza eccezione, sanno dire: «è il destino degli esseri umani»; ma quando muore nostro figlio, subito ci disperiamo: «ahimè, oh me sventurato!». Dovremmo ricordarci, invece, la nostra reazione quando sentiamo che questo è toccato ad altri.

 

27. Come un bersaglio non è posto per esser mancato, così pure nell'universo non esiste la natura del male.

 

28. Se qualcuno affidasse la tua persona al primo che incontra, ti adireresti; e tu che affidi la mente a chi capita, e, se questi ti insulta, la lasci cadere nel turbamento e nella confusione, non te ne vergogni?

 

29. Di ciascuna azione considera le premesse e le conseguenze, e solo dopo accingiti a compierla. Altrimenti, all'inizio ti avvierai entusiasta, senza aver minimamente calcolato il seguito, ma poi, al manifestarsi di qualche difficoltà, ti tirerai vergognosamente indietro. [2] Vuoi vincere le Olimpiadi? Anch'io, per gli dèi: è un'impresa prestigiosa. Ma prima esamina le premesse e le conseguenze, e poi passa all'azione. Devi disciplinare la tua vita, sottoporti a dieta, astenerti dai dolci, importi gli allenamenti, alle ore prestabilite, al caldo, al freddo; non devi bere acqua fredda, non devi bere vino senza una regola, in una parola devi esserti consegnato all'allenatore come a un medico; e poi, in gara, dovrai affondare nella sabbia, qualche volta ti slogherai un polso, ti storcerai una caviglia, ingoierai tanta polvere, qualche volta sarai fustigato e poi, con tutto ciò, sarai anche sconfitto. [3] Riflettici, e poi dedicati all'atletica, se ne hai ancora l'intenzione. Altrimenti ti comporterai come i ragazzini, che ora giocano ai lottatori, ora ai gladiatori, ora suonano la tromba, poi fanno gli attori tragici; così anche tu adesso fai l'atleta, poi il gladiatore, poi il retore, poi il filosofo, ma con tutta l'anima non sei nulla: come una scimmia imiti tutto quello che vedi e sei attratto da cose sempre diverse. Perché alle cose arrivi senza rifletterci e senza considerarle bene da ogni punto di vista, ma a caso, assecondando un vano desiderio. [4] Così ci sono persone che dopo aver visto un filosofo e aver ascoltato qualcuno che parla come Eufrate (ma chi è davvero in grado di parlare come lui?), vogliono dedicarsi anch'esse alla filosofia. [5] Uomo, osserva prima la natura della cosa; e poi anche la tua natura, per capire se puoi reggere. Vuoi darti al pentathlon o alla lotta? Guardati le braccia, le cosce, esaminati i fianchi: per natura qualcuno è adatto a una cosa, qualcuno a un'altra. [6] Se ti dedichi alla filosofia credi forse di poter continuare a mangiare e a bere allo stesso modo, di lasciar corso al desiderio e all'insoddisfazione come fai adesso? Devi vegliare, faticare, allontanarti dai tuoi cari, subire il disprezzo di uno schiavo, la derisione di chi ti incontra, essere sminuito in tutto, nell'onore, nelle cariche pubbliche, in tribunale, in ogni minima faccenda. [7] Riflettici, se sei disposto a pagare questo prezzo per avere in cambio l'immunità dalle passioni, la libertà, l'imperturbabilità; altrimenti non ti accostare alla filosofia, non fare come i bambini: ora filosofo, poi esattore di imposte, poi retore, poi procuratore di Cesare. Sono cose che non si accordano. Devi essere un solo uomo: buono o cattivo; devi lavorare sul tuo principio interiore o sulle cose esterne; devi impegnarti in ciò che hai dentro o in ciò che sta fuori: in una parola, devi occupare il posto del filosofo o quello dell'uomo comune.

 

30. I doveri si misurano generalmente in base alle relazioni tra gli individui. Prendiamo tuo padre. Sei chiamato a prenderti cura di lui, a cedergli in tutto, ad accettare i suoi rimproveri, le sue percosse. «Ma è un cattivo padre». Già, ma per natura dovevi forse essere assegnato a un padre buono? No: semplicemente a tuo padre. «Mio fratello è ingiusto con me». Ebbene, tu conserva la relazione che hai nei suoi confronti e non guardare cosa fa lui, ma cosa dovrai fare tu perché la tua scelta morale sia conforme a natura. Perché nessuno potrà nuocerti, se tu non lo vuoi: mentre avrai patito un danno nel preciso momento in cui riterrai di subirlo. Così, se ti abituerai a osservare le relazioni fra gli individui, scoprirai quali siano i doveri del vicino di casa, del cittadino, dello stratego.

 

31. Sappi che il punto fondamentale su cui si fonda la devozione verso gli dèi è avere opinioni corrette su di essi - ossia credere nella loro esistenza, e nel loro governo buono e giusto dell'universo -, ed esserti disposto a obbedire loro e a sottometterti a tutti gli eventi assecondandoli spontaneamente, persuaso che sono il prodotto della più alta intelligenza. Così infatti non ti lamenterai mai degli dèi, né li accuserai di trascurarti. [2] Ma a questo risultato puoi giungere soltanto a condizione di rimuovere il concetto di bene e di male dalle cose che non sono in nostro potere e trasferirlo alle cose che dipendono da noi, e unicamente a quelle. Perché se ritieni che qualcuna tra le prime sia bene o male, è inevitabile, non riuscendo in quello che vuoi e incorrendo in quello che non vuoi, che tu debba lamentarti dei responsabili e odiarli. [3] Ogni essere vivente, infatti, per natura inclina a fuggire ed evitare quello che gli pare dannoso e le sue cause, e a inseguire, invece, e ammirare ciò che è utile e le sue cause. Quindi è escluso che chi si crede danneggiato gradisca quello che gli pare danneggiarlo, come pure è impossibile che gradisca il danno stesso. [4] Di conseguenza, anche il padre è insultato dal figlio quando non lo fa partecipe di quelli che al figlio sembrano beni; e fu questo a rendere nemici tra loro Eteocle e Polinice, il fatto che essi considerassero un bene il trono di tiranno. Perciò il contadino impreca contro gli dèi, e così il marinaio, il mercante, perciò imprecano contro gli dèi coloro che perdono la moglie o i figli. Dove c'è l'utile, lì c'è anche la devozione. Cosicché chi si preoccupa di avere giusti desideri e avversioni nello stesso momento provvede anche a essere pio. [5] Ma libagioni, sacrifici e offerte di primizie secondo il costume dei padri si devono compiere ogni volta con purezza, non sciattamente, né trascuratamente, e senza risparmiare o spendere oltre i propri mezzi.

 

32. Quando ti rivolgi alla divinazione, ricorda che non conosci quel che avverrà - tant'è vero che sei venuto dall'indovino per apprenderlo da lui -, ma quale sia la vera natura di un avvenimento, questo lo sapevi già al momento di varcare la soglia, se davvero sei un filosofo. Se infatti è cosa di quelle che non rientrano sotto il nostro controllo, è garantito che non si tratta né di bene né di male. [2] Perciò non portare dall'indovino un desiderio o un'avversione, e non avvicinarti a lui tremando, ma sicuro che ogni futura evenienza sarà indifferente e non sarà nulla per te, e quale che sia la sua natura potrai farne buon uso: nessuno te lo impedirà. Quindi rivolgiti con fiducia agli dèi, come ai tuoi consiglieri: e poi, ricevuto il parere, non dimenticare a quali consiglieri sei ricorso e a chi disobbedirai se non presterai ascolto. [3] E accostati alla divinazione come Socrate riteneva opportuno, nei casi in cui l'esame della questione si riferisce interamente all'esito e i mezzi per risolvere il problema non sono offerti né dalla ragione né da altra arte. Pertanto, quando si deve condividere il pericolo di un amico o della patria, non chiedere all'indovino se è necessario affrontare questo rischio. Perché anche se ti avvisa che gli auspici sono sfavorevoli - evidente preannunzio di morte, di una mutilazione o dell'esilio -, ciononostante la ragione impone di porsi egualmente a fianco dell'amico e di affrontare il pericolo per la patria. Perciò dai ascolto a un più alto indovino, ad Apollo Pizio, che cacciò dal tempio colui che non aveva soccorso l'amico mentre veniva assassinato.

 

33. A questo punto prefiggiti un determinato carattere e modello, da osservare fedelmente sia dinanzi a te stesso sia nei rapporti con gli altri. [2] Per lo più mantieni il silenzio, usa la parola per lo stretto necessario, e concisamente. Parla solo di rado, quando le circostanze lo richiedono, ma mai di argomenti banali: i giochi dei gladiatori, le corse dei cavalli, gli atleti, cibi, bevande, le solite cose di cui si parla ogni volta; e, soprattutto, non parlare della gente, per biasimare, elogiare, confrontare. [3] Se sei in grado, usa le tue parole per spostare anche quelle degli interlocutori a ciò che è opportuno. E se ti trovi stretto tra persone di tutt'altro genere, taci. [4] Non ridere molto, di molti argomenti e sguaiatamente. [5] Rifiuta il giuramento: se possibile, in tutto e per tutto, altrimenti per quel che ti consentiranno le circostanze. [6] Evita di banchettare con persone comuni ed estranee alla filosofia; e se qualche volta l'occasione ti porterà a farlo, concentrati con impegno per non scivolare nel comportamento della gente comune. Sappi, infatti, che se il compagno è sporco, anche chi gli sta a stretto contatto, inevitabilmente, si insudicia, per pulito che possa essere. [7] A ciò che serve al tuo corpo ricorri nei limiti della pura necessità: parlo del cibo, per esempio, delle bevande, del vestiario, della casa, della servitù; cancella tutto quel che è destinato all'apparenza o al lusso. [8] Quanto al sesso, prima del matrimonio si deve osservare, nei limiti del possibile, la castità; in ogni caso, praticandolo, bisogna mantenersi entro il lecito. Tuttavia non mostrarti arcigno con chi ne fa uso, non censurarlo; e non menzionare a ogni piè sospinto il fatto che tu te ne astieni. [9] Se uno ti riferisce che il tale parla male di te, invece di difenderti dalle critiche che ti vengono riportate, rispondi: «sicuramente ignorava gli altri miei difetti, perché altrimenti non avrebbe parlato solo di questi». [10] Non è indispensabile frequentare abitualmente gli spettacoli. Ma se una volta capita l'occasione, dimostra che non ti occupi di nient'altro se non di te stesso; il che è quanto dire: desidera che avvenga ciò che sta avvenendo e che vinca chi sta vincendo; in questo modo non ti verranno impedimenti. Astieniti assolutamente dal gridare, dall'irridere questo o quello, dall'agitarti troppo per l'eccitazione. E, uscito dallo spettacolo, non perderti a parlare di quanto hai visto, se non per quanto può contribuire al tuo miglioramento morale, perché un simile comportamento ti fa apparire entusiasta di ciò cui hai assistito. [11] Non frequentare senza ragione, con tanta facilità, le pubbliche letture; e, quando vi assisti, mantieni la tua dignità, la tua fermezza, ma nel contempo senza risultare sgradevole. [12] Quando devi incontrare qualcuno, soprattutto i personaggi più illustri, poniti prima di fronte che cosa avrebbero fatto Socrate o Zenone in un'occasione come questa, e non avrai difficoltà a comportarti convenientemente nella circostanza che ti si è presentata. [13] Quando frequenti un potente, preparati immaginando che non lo troverai in casa, che ti lascerà sulla strada, che ti farà sbattere la porta in faccia, che non si occuperà di te. Se poi, con tutto ciò, devi andarci, vai e sopporta quello che succede, e non dire mai a te stesso: «non ne valeva la pena»; perché questa è la reazione dell'uomo comune, in contrasto con le cose esterne. [14] Nella conversazione evita di esagerare ricordando continuamente quello che hai fatto, i pericoli che hai corso: perché se a te fa piacere parlare di quello che hai rischiato, non altrettanto piacere fa agli altri ascoltare le tue avventure. [15] Ed evita anche di far ridere: un comportamento che ti fa scivolare nei modi dell'uomo comune, e insieme può alienarti il rispetto che gli altri nutrono per te. [16] È rischioso anche spingersi a un linguaggio osceno. Quando succede, se l'occasione è adatta, rimprovera pure chi si è lasciato andare al turpiloquio; altrimenti manifesta la tua disapprovazione tacendo, arrossendo e assumendo un'espressione infastidita.

 

34. Quando ricevi la rappresentazione di una qualche forma di piacere, bada, come del resto devi fare con ogni rappresentazione, di non lasciarti trascinare da essa: fatti attendere dalla cosa, e concediti un rinvio. Poi, vai con la mente a entrambi i momenti: quello in cui godrai del piacere e quello in cui, più tardi, te ne pentirai e ti rimprovererai; e a questi contrapponi la gioia che proverai se ti astieni da quel piacere, e l'elogio che potrai rivolgere a te stesso. E se poi ti pare che sia un'occasione favorevole per intraprendere la cosa, stai attento a non lasciarti sopraffare dal suo aspetto gradevole, dolce, seducente, ma considera, in contrapposizione, quanto sia preferibile la coscienza di aver colto la vittoria contro queste lusinghe.

 

35. Quando, dopo aver deciso che una cosa dev'esser fatta, la fai, non nasconderti mai mentre la compi, anche se la gente dovesse darne un giudizio negativo. Se non agisci rettamente, evita l'azione stessa; ma se agisci rettamente, perché temi chi ti rimprovererà non rettamente?

 

36. Come le frasi «è giorno» e «è notte» hanno pieno valore se prese distintamente, mentre coordinate perdono significato, così, a tavola, scegliere la porzione maggiore avrà significato per il tuo corpo, ma non ha alcun valore per il rispetto dello spirito comunitario del banchetto. Quindi, quando pranzi con qualcuno ricorda di non considerare soltanto il valore delle vivande per il tuo corpo, ma anche di osservare rispetto per l'ospite.

 

37. Se hai assunto un ruolo che va oltre le tue possibilità, oltre a rimediare, in quello, una brutta figura, hai trascurato il ruolo che era alla tua altezza.

 

38. Come, camminando, stai attento a non calpestare un chiodo o a non storcerti la caviglia, così fai attenzione a non danneggiare il tuo principio interiore. Se lo tuteleremo in ciascuna azione, potremo agire con più sicurezza.

 

39. Ciascuno ha la giusta misura dei suoi possessi nel corpo, come nel piede ha la misura della calzatura. Quindi, se seguirai questo criterio, manterrai la giusta misura, mentre se andrai oltre fatalmente finirai trascinato come in un precipizio. Così pure nel caso della calzatura: se vai oltre le necessità del piede, ecco le calzature dorate, poi di porpora, ricamate. Non c'è limite alcuno, una volta al di là della misura.

 

40. Appena compiuti i quattordici anni le donne sono chiamate «signore» dagli uomini. Così, vedendo che a loro non tocca altro tranne il giacere con gli uomini, cominciano a imbellettarsi e a riporre in questo ogni speranza. È bene, quindi, adoperarsi perché capiscano che non sono onorate per nessun'altra ragione se non per una condotta rispettosa e pudica.

 

41. È segno di scarse qualità naturali dedicare troppo tempo alle cose del corpo: per esempio un eccessivo indulgere agli esercizi ginnici, a mangiare, a bere, a defecare, ad accoppiarsi. Attività che devono restare marginali: tutta l'attenzione va rivolta alla mente.

 

42. Quando uno ti fa del male o dice male di te, ricorda che agisce e parla nella convinzione che gli convenga. Quindi è impossibile che egli segua ciò che sembra a te: si attiene invece a ciò che sembra a lui; di conseguenza, se prende un abbaglio, il danno è suo, perché è stato lui a ingannarsi. Infatti, se uno ritiene falso un sillogismo vero, non ne è danneggiato il sillogismo, ma chi si è ingannato. Partendo da questa constatazione, dunque, sarai indulgente con chi ti insulta. Ogni volta dirai: «la pensa così».

 

43. Ogni cosa ha due manici: con uno si può reggere, con l'altro no. Se tuo fratello è ingiusto con te, non prenderla dal lato «è ingiusto», perché questo è il manico con cui non puoi reggere la cosa, ma piuttosto dal lato «è mio fratello», «è cresciuto con me»: così afferri la cosa per il manico con cui la puoi reggere.

 

44. Le affermazioni «sono più ricco di te, quindi ti sono superiore», «sono più colto di te, quindi ti sono superiore», sono incongruenti. Più conforme alla logica sarà dire: «sono più ricco di te, quindi il mio patrimonio è superiore al tuo», «sono più colto di te, quindi il mio eloquio è superiore al tuo». Tu, davvero, non sei né patrimonio né eloquio.

 

45. Il tale si lava in fretta: non dire «male», ma «in fretta». Un altro beve molto vino: non dire «male», ma «molto». Prima di aver distinto il giudizio che presiede al suo agire, come sai se è «male»? Così non ti accadrà di ricevere le rappresentazioni catalettiche di una cosa e di dare il tuo assenso ad altre.

 

46. Non definirti in nessuna occasione filosofo e in generale non parlare tra gente comune di principi filosofici, ma fai quello che discende da questi principi: per esempio, a banchetto non dire come si deve mangiare, ma mangia come si deve. Ricorda, infatti, che Socrate aveva a tal punto eliminato l'ostentazione da ogni suo atteggiamento che c'era chi addirittura lo avvicinava per domandargli di essere introdotto presso altri filosofi, e Socrate lo accompagnava da loro. Tanto accettava il fatto di non essere considerato! [2] E se, quando ti trovi tra gente comune, il discorso cade su un principio filosofico, per lo più osserva il silenzio: è troppo alto il rischio che tu rigetti immediatamente quello che non hai ancora digerito. E quando qualcuno ti dice che non sai nulla, se non ti senti punto sul vivo, allora sappi che la tua opera di filosofo è iniziata. Le pecore non portano il foraggio ai pastori per mostrare quanto hanno mangiato, ma lana e latte sono il prodotto esterno della pastura che hanno assimilato internamente: e tu alla gente comune non sciorinare i principi filosofici, ma esponi i risultati che derivano dalla loro digestione.

 

47. Quando avrai abituato il tuo corpo alle regole della vita semplice, non te ne fare un vanto, e se bevi acqua non ricordarlo a ogni occasione. E se un giorno vuoi esercitarti alla fatica, fallo per te e non per il mondo esterno: non abbracciare le statue, ma quando, poniamo, la sete ti tormenta, prendi un sorso di acqua fresca, poi sputala e non dirlo a nessuno.

 

48. Condizione e carattere dell'uomo comune: non attende mai un beneficio o un danno da sé stesso, ma dall'esterno. Condizione e carattere del filosofo: attende ogni beneficio e ogni danno da sé stesso. [2] Segni di chi progredisce nella filosofia: non biasima nessuno, non loda nessuno, non si lamenta di nessuno, non accusa nessuno, non parla mai di sé come di chi sia qualcuno o sappia qualcosa; di fronte a un ostacolo o a un impedimento, accusa sé stesso; se si sente lodare, dentro di sé deride chi lo elogia; e, se qualcuno lo biasima, non si difende. Come i convalescenti, procede con cautela, per non muovere le parti in via di guarigione, prima che si siano definitivamente rinsaldate. [3] Ha eliminato da sé ogni desiderio; e ha trasferito l'avversione solo alle cose che, tra quanto è in nostro potere, sono contrarie alla natura. Verso ogni cosa usa un impulso moderato. Non si cura che lo considerino sciocco o ignorante. E, in una parola, si guarda da sé stesso come da un nemico insidioso.

 

49. Quando uno si vanta di poter comprendere e interpretare i libri di Crisippo, di' a te stesso: «Se Crisippo non avesse scritto in modo oscuro, costui non avrebbe nulla di cui vantarsi». Che cosa voglio, io? Conoscere la natura e seguirla. Per questo cerco un interprete che me la spieghi: sentendo fare il nome di Crisippo, ricorro a lui. Ma non capisco i suoi scritti: allora cerco chi me li spieghi. Fin qui non c'è ancora nulla di cui vantarsi. Poi, però, trovato l'interprete, tocca a me applicare l'insegnamento che ne ho tratto: ed è proprio questa, solo questa, la cosa di cui vantarsi. Se invece ammiro il semplice atto dell'interpretare, che altro ho concluso, se non di fare il grammatico in luogo del filosofo? Con la sola differenza che mi dedico all'esegesi di Crisippo invece che di Omero. Piuttosto, ogni volta che uno mi dice: «leggimi Crisippo», dovrei arrossire, quando non riesco a mostrare azioni simili e conformi alle parole.

 

50. A tutti i tuoi proponimenti attieniti come fossero leggi, persuaso che trasgredirli è empietà. Invece, qualunque cosa si dica su di te, non prestarvi attenzione: questa non è più cosa che ti appartenga.

 

51. Quanto aspetterai ancora per giudicarti degno delle cose migliori e non trascurare in nulla le distinzioni operate dalla ragione? Hai ricevuto i principi che dovevi approvare, e li hai approvati. Quale maestro attendi ancora, per affidargli l'attuazione del tuo emendamento morale? Non sei più un ragazzo, ormai sei un uomo adulto. Se ora ti abbandoni alla trascuratezza, all'indolenza, e passi perennemente di proposito in proposito, e fissi sempre un'altra data per intraprendere la cura di te stesso, non ti renderai conto di non compiere alcun progresso, anzi non smetterai mai di essere un uomo comune, nemmeno al momento di morire. [2] A questo punto, perciò, giudicati degno di vivere come un uomo adulto sulla via del progresso morale: e sia per te una legge inviolabile tutto ciò che pare il meglio. E se ti si presenta una fatica, o un piacere, un onore o un disonore, ricorda che la prova è già in corso, che le Olimpiadi sono queste, e non è più possibile rimandare, e che il progresso morale si perde o si salva in un solo giorno e in una sola azione. [3] Così Socrate giunse alla sua sublime realizzazione, senza badare ad altro di ciò che gli si presentava, ma solo alla ragione. E tu, anche se non sei ancora Socrate, devi però vivere come chi desideri essere Socrate.

 

52. In filosofia il settore primo e il più necessario è l'applicazione dei principi; per esempio: non mentire. Il secondo sono le dimostrazioni; per esempio: perché non si deve mentire? Il terzo costituisce la conferma e la distinzione dei primi due: da dove deriva che questa sia una dimostrazione?, che cos'è una dimostrazione?, cos'è una conseguenza logica, una contraddizione?, e la verità, e il falso? [2] Il terzo settore, quindi, è necessario per il secondo, e il secondo per il primo; ma il più necessario, quello su cui dobbiamo soffermarci, rimane il primo. Invece noi facciamo il contrario: indugiamo sul terzo e tutto il nostro impegno ruota intorno a quello; mentre del primo ci disinteressiamo totalmente. Per questo da un lato pratichiamo la menzogna, dall'altro teniamo sottomano la dimostrazione che non si deve mentire.

 

53. Per ogni evenienza, tenere a disposizione i seguenti concetti:

«conducimi, Zeus, e anche tu, Destino,

alla meta che mi avete assegnata:

poiché vi seguirò senza indugio; o se anche, per viltà,

non volessi, non di meno vi seguirò».

[2] «Chi si è nobilmente conciliato con la necessità

per noi è saggio e conosce le cose divine».

[3] «Ebbene, Critone, se così piace agli dèi, così sia». [4] «Anito e Meleto possono uccidermi, certo, ma non possono farmi del male».

 

ANGELO POLIZIANO

Lettera a Lorenzo de' Medici

Versione latina del «Manuale»

 

 

 

EPISTOLA DI ANGELO POLIZIANO SULL'ENCHEIRIDION DELLO STOICO EPITTETO DA LUI TRADOTTO DAL GRECO, A LORENZO DE' MEDICI

 

Scrive Pindaro, o Lorenzo de' Medici, che il lapita Ceneo, colui che combatté contro i centauri, fu a tal punto invulnerabile e inattaccabile dalle armi che quando i centauri tutti insieme lo assalirono e gli rovesciarono addosso una catasta immane di tronchi, puntando il piede contro il suolo - è ancora Pindaro a dirlo - riuscì a fendere la terra. Questo nostro Epitteto, invece, ricevette, non da Vulcano come Achille ed Enea, ma dalla stessa natura e dalla ragione, armi tali da renderlo sicuro ed inviolabile non soltanto dall'aggressione di lame e dardi, ma anche dalla paura, dal dolore e dagli altri turbamenti dell'animo. La guerra che quest'uomo combatté, non contro i centauri, come Ceneo, ma contro la sorte e l'opinione, fu la più aspra: e le sbaragliò entrambe, le mise in fuga, fino a bandirle anche dall'intera vita umana. Schiavo e zoppo e più povero dell'Iro omerico, non esitò tuttavia a proclamarsi caro agli dèi in un distico notissimo tra i Greci. Perché aveva letto in Platone, nel dialogo intitolato Alcibiade primo o della natura umana, che propriamente e veramente uomo è colui la cui essenza consiste per intero nell'anima razionale. Perciò riteneva che qualunque cosa ricadesse al di fuori di questo uomo non lo toccasse affatto; e non lo dichiarò soltanto a parole e nei libri, ma anche con la sua stessa vita: tanto rimosse da sé la cura delle cose esterne, che la sua casa, a Roma, non aveva neppure una porta, perché in essa non c'era assolutamente nulla, tranne un modestissimo giaciglio.

Sulla sua vita e la sua tempra il celebre Arriano compose un ampio volume, che però è andato perduto nei secoli passati, e dalle sue opere colse, per dir così, il fiore, ciò che restituisse la libertà a questo platonico, a questo uomo vero, cioè, e lo riportò in un libro. E poiché è bene tenere sempre a portata di mano questo libro, lo intitolò Encheiridion, il nome di un piccolo pugnale militare. Il suo linguaggio è estremamente efficace, icastico e immediato, mirabilmente capace di colpire il lettore, perché in quelle parole ognuno riconosce le proprie passioni e come da un pungolo è spinto a emendarle. Ammirevole, nell'intera opera, l'ordine interno: sebbene il lavoro sia diviso in più capitoli, tutte le linee, per così dire, convergono come a un solo centro, a risvegliare l'animo razionale, perché si prenda cura della propria dignità e usi le proprie azioni secondo natura. Lo stile, poi, come la situazione richiede, è conciso, nitido e alieno da ogni ornato, quanto mai simile ai precetti dei Pitagorici, che essi chiamano diathekai.

Nell'accingermi a tradurre in latino lo scritto, per renderti in qualche modo ragione di questo agio sublime che hai concesso ai nostri studi, mi sono imbattuto in due esemplari zeppi di errori e in più luoghi gravemente lacunosi. Perciò, informato che anche le altre copie, ovunque ne esistano, non sono diverse da queste, mi sono preso la libertà, là dove un capitolo mancava o era dimezzato, di integrarlo in base alle parole di Simplicio, autore di un commento all'opera, attenendomi ad esse quanto più fedelmente ho potuto. E se non ho reso perfettamente le parole (il che non era affatto possibile), penso però di aver restituito almeno il senso in un latino pulito e chiaro. E, con l'augurio che la cosa non disturbi qualcuno, come Aristarco faceva con i versi di Omero che non accettava, così noi abbiamo trafitto con un obelos, cioè con uno spiedo, i singoli capitoli che risultano interpretati con parole nostre.

Se puoi, dunque, Lorenzo, ruba alle tue occupazioni un briciolo di tempo da dedicare alla lettura di questo libriccino. La lezione che se ne ricava, a valutarla rettamente, è di un genere che a nessun altro conviene più che a coloro che la sorte ha collocato in alto. In ogni caso, ciò che nell'intero opuscolo è spiegato con molte parole, Epitteto è solito racchiuderlo in questi due verbi, che usava assai spesso: sostieni e astienti.

Per patria quest'uomo ebbe una città della Frigia, Ierapoli. A Roma fu schiavo di un certo Epafrodito, che era al servizio di Nerone, e visse fino ai tempi di Marco Antonino. Ma sotto l'impero di Domiziano, colpito dal tiranno, da Roma se ne andò a Ierapoli, convinto che sia vero quanto afferma un poeta tragico: che la patria di ciascuno è il luogo in cui può vivere rettamente. Tutti ebbero una tale ammirazione per la sua condotta di vita, che il siro Luciano tramanda che la lucerna di terracotta di Epitteto fu venduta, per essergli appartenuta, al prezzo di tremila dracme.

Noi ora ti inviamo, Lorenzo, non la lucerna di Epitteto, ma l'immagine, ben più luminosa, del suo animo. Setacciando infatti, in questi ultimi giorni, tutto il tesoro della tua bellissima biblioteca, che tu ci hai concesso di usare, ho colto questo solo opuscolo che meritasse di esserti offerto, come un fiore da un giardino. Questo infatti è il libro, se non mi inganno, che più di ogni altro si addice a codesta tua natura sempre accesa a cose grandi ed ardue, e a questi tempi tanto duri, in cui la sorte da ogni lato ti ha atteso alla prova. Stai bene.

 

EPICTETI STOICI ENCHIRIDION AB ANGELO POLITIANO E GRAECO VERSUM

 

I. QUAE IN NOBIS SINT QUAEVE NON, QUALIAVE QUAEQUE SINT.

[1, 1] Eorum quae sunt partim in nobis est, partim non est. In nobis est opinio, conatus, appetitus, declinatio et, ut uno dicam verbo, quaecunque nostra sunt opera. Non sunt in nobis corpus, possessio, gloria, principatus et uno verbo quaecunque nostra opera non sunt. [1, 2] Quae igitur in nobis sunt, natura sunt libera, nec quae prohiberi impedirive possint. Quae in nobis non sunt, ea imbecilla, serva, et quae prohiberi possint, atque aliena.

II. QUID EX EORUM QUAE NOSTRA QUAEQUE ALIENA SINT IGNORATIONE NOTITIAQUE EVENIAT.

[1, 3] Si quae natura sunt libera serva putabis et aliena quae sunt propria, impedieris, dolebis, turbaberis, incusabis deos atque homines. Si vero, quod tuum est, id solum tuum esse putabis, et alienum quod re vera est alienum, nemo te coget unquam, nemo prohibebit, neminem culpabis, neminem accusabis, invitus nihil ages, nemo te laedet, inimicum non habebis.

III. QUOD ALIENA OMITTENDA, NOSTRA CURANDA, QUODQUE UTRAQUE ASSEQUI NON EST.

[1, 4] Si ergo talia expetis, memento non oportere modice commotum ea attingere, sed partim omnino dimittere, partim in praesentia reicere, ac primo tui ipsius curam agere. Si autem et haec ipsa velis, regnare scilicet, dives esse et domesticos dirigere, fortasse neque haec ipsa consequeris, quia priora quoque expetis: illa vero nullo modo consequeris, quae sola homini felicitatem pariunt.

IV. QUO NOS PACTO IN ASPERA QUAVIS IMAGINATIONE GERERE OPORTEAT.

[1, 5] Continuo igitur in quavis aspera imaginatione disce considerare imaginationem esse illam neque id omnino esse quod videtur. Deinde scrutare id et examina his regulis quas habes, primaque hac et maxime, utrum circa ea sit quae sunt in nobis an quae non sunt. Quod si circa aliquod eorum sit quae in nobis non sunt, promptum hoc esto: «nihil ad me».

V. QUOMODO TRACTANDA SINT QUAE IN NOBIS SUNT.

[2, 1] Memento appetitus promissionem esse, ut consequaris quod appetis; declinationis autem promissionem, ut in id non incidas quod declinas. Qui ergo appetitus promissione excidit infortunatus est, qui autem in id quod declinat incidit male est fortunatus. Si ergo sola declines quae praeter eorum naturam sunt, quae in te sunt, nunquam in id incides quod declinabis. Morbum autem si declines aut mortem aut paupertatem, male fortunatus eris. [2, 2] Aufer igitur declinationem ab omnibus quae non sunt in nobis, eamque transfer in ea quae praeter eorum naturam sunt, quae in nobis sunt. Appetitum vero penitus in praesentia aufer. Si enim appetis quae in nobis non sunt, ab aliquo eorum excidas necesse est: quantum vero eorum quae sunt in nobis appetere expediat, nondum tibi constat. Solo animi conatu aut avocatione utere leviter et cum supputatione et remisse.

VI. QUOMODO TRACTANDA SINT QUAE IN NOBIS NON SUNT.

[3] In unoquoque eorum quae aut delectant aut utilitatem praebent aut diliguntur, memento considerare quale id quidque est, incipiens a minimis. Si ollam diligis, dic: «ollam diligo». Ea enim fracta, non perturbaberis. Si filium tuum amas aut uxorem, dic te hominem diligere. Mortuo enim non perturbaberis.

VII. QUOMODO PRAEPARARI IN ACTIONIBUS OPORTEAT, UT PERTURBATIONE VACEMUS, AC PRIMO PER MEDITATIONEM.

[4] Cum rem quampiam aggressurus es, redige tibi in memoriam, qualisnam ea res sit. Si lotum abis, praepone tibi quae-cunque in balneo fiunt, irrorantis, inquietos, convitiantis, furantis, atque ita tutius rem aggredieris; si autem continuo dices: «lavari volo propositumque meum, quod secundum naturam est, servare», et in quacunque re similiter, non peccabis. Hoc enim pacto, si quid inter lavandum impedimenti accidat, in promptu hoc tibi erit: «non hoc volebam solum, sed et meum propositum, quod est secundum naturam, servare; non servabo autem, si moleste feram quae fiunt».

VIII. DE PERTURBATIONE DECLINANDA PER EORUM NATURAE CONSIDERATIONEM QUAE NOS PERTURBANT.

[5] Perturbant homines non res ipsae, sed rerum opiniones: ut mors nihil terribile, alioquin et Socrati visa foret, sed quia opinio de morte terribilis, ideo illa terribilis. Igitur cum aut impediamur aut perturbemur aut doleamus, nunquam alium accusemus, sed nos ipsos, hoc est opiniones nostras.

IX. RATIO SUPERIORIS PRAECEPTI TRIPLICISQUE HOMINUM GRADUS ASSIGNATIO.

Ineruditi est alios culpare, cum quid male agat. Eius qui iam coepit erudiri, se ipsum. Eruditi neque alium neque se ipsum.

X. QUOMODO TRACTANDA QUAE DE EXTERNIS VIDENTUR ELIGENDA.

[6] Ob nullam alienam excellentiam te efferas. Si equus superbiens dicat: «pulcher sum», ferendum esset. Tu vero, cum dicis superbiens: «pulchrum habeo equum», memento te ob pulchrum equum superbire. Quid ergo est tuum praeter usum imaginationum? Ergo ‹cum in usu opinionum secundum naturam te habebis›, tum vero superbias: ob aliquod enim tuum bonum superbies.

XI. QUAE NOBIS EX EXTERNIS CONCEDANTUR QUOQUE IIS PACTO SIT UTENDUM, PER SIMILITUDINEM.

[7] Quemadmodum in navigatione, ubi in portum est ventum, si exeas aquatum, incidit ut cochleas in itinere aut bulbulos colligas, animum tamen ad navigium intentum habere convenit et saepe respicere an gubernator vocet, et, si vocet, omnia illa abicere, ne vinctus eo coniciaris instar pecudum; sic in vita si pro bulbulo aut cochleola uxorcula nobis aut filiolus praebeatur, nihil sit prohibendum: si autem gubernator vocet, curre ad navigium relinquens haec neque respiciens. Si autem sis senex, nunquam procul a navigio discede, ne forte vocatus desis inque id vinctus coniciaris. Qui enim volens non sequitur, necessitate hoc patietur.

XII. QUO PACTO SINE PERTURBATIONE ET NOXIA EXTERNIS ACQUIESCERE POSSIMUS.

[8] Ne velis, quae fiunt, fieri ut velis; sed velis quae fiunt ut fiunt, et prosper eris. [9] Morbus corporis est impedimentum, propositi vero minime, nisi ipsum velit. Claudicatio cruris impedimentum est, propositi vero minime. Atque hoc in quocunque incidentium considera, inveniesque id alius esse impedimentum, non tuum.

XIII. QUOD IMPOSSIBILIA NON SUNT QUAE PRAECIPIUNTUR, QUANDO VIRES ANIMO ADVERSUS OMNIA INSUNT.

[10] In quocunque incidentium memento tecum ipse quaerere quam tu vim habeas ad eius usum. Si malum habeas, vim bonam invenies, ut ad voluptates continentiam; si labor offeratur, invenies robur; si convitium, patientiam. Atque hoc pacto assuetus ab imaginationibus non perturbaberis.

XIV. QUALES PRAEBERE NOS OPORTEAT, CUM EXTERNA AMITTAMUS.

[11] Nunquam in re quapiam dicas: «perdidi hoc», sed «reddidi». Puer obiit: redditus est. Ager ereptus, nonne et hic redditus est? «Sed malus est vir qui abstulit». Quid ad te per quem repetierit qui dedit? Quousque autem tibi praebeantur, velut alienorum curam habe, ut hospitii viatores.

XV. RESPONSIO AD OBIECTA QUAE DE SUPERIORI PRAECEPTO EMERGUNT, AC REGULA QUA TALIA ELIGENTES AB AERUMNIS NON EXERCEAMUR.

[12, 1] Si proficere vis, dimitte has considerationes: «si rem meam neglexero, nutrimentis carebo», «nisi puerum puniam, malus erit». Praestat enim fame obire sine dolore et metu, quam in affluentia vivere cum perturbatione. Praestat et puerum malum esse, quam te infelicem dominari. [12, 2] Igitur a minimis ‹incipias oportet›. Effusum est oleum, ablatum vinum: considera tanti abs te emi quietem securitatemque animi. Gratis autem nihil adquiritur. Si autem voces puerum, cogita posse illum non audire, aut audientem nihil eorum agere quae velis: sed non tanti is est, ut propter eum tute perturberis.

XVI. CONTRA VULGI DE NOBIS EXISTIMATIONEM.

[13] Si proficere vis, ne moleste feras, si propter ea quae intrinsecus sunt demens aut stultus videaris.

XVII. ADVERSUS INANEM GLORIAM.

Ne velis rei cuiusquam gnarus videri. Et si quibus esse aliquis videare, ne crede tibi ipsi. Scis enim non facile esse et propositum tuum secundum naturam servare et iis qui sint extrinsecus placere, sed necesse est ut qui alterum curet alterum negligat.

XVIII. QUIBUS STUDENDUM SIT, QUIBUS NON SIT.

[14, 1] Si velis liberos uxoremque tuam et amicos vivere, stultus es. Quae enim in te non sunt, vis in te esse, et quae aliena, tua. Atque ita si puerum peccare non vis, stultus es: vis enim ut vitium non sit vitium. Si autem velis, appetens aliquid, eo non excidere, hoc potes: hoc igitur exercere potes.

XIX. QUAE NOS SERVOS FACIANT QUAEVE LIBEROS.

[14, 2] Dominus cuiusque est is qui, quae ille vult aut non vult, potest aut dare aut auferre. Qui ergo liber esse vult, neque velit quicquam neque fugiat eorum quae sunt in aliis. Alioquin ut serviat necesse est.

XX. REGULA ELECTIONIS PRAESENTIUM, PRAETERITORUM ET FUTURORUM, PER SIMILITUDINEM.

[15] Memento oportere te in convivio versari. In quo si fercula ad te perveniunt, extenta manu modeste carpe. Si transit qui fert, ne eum detine. Si nondum pervenit, ne procul appetitum extende, sed expecta dum ad te veniat. Sic erga filios, sic erga uxorem, sic erga principatus, sic erga divitias, erisque aliquando dignus deorum convivio. Si vero quae apposita fuerint non capies, sed contemnes, tunc vero non modo deorum conviva, sed collega eris. Id enim cum facerent Diogenes et Heraclitus atque his similes, merito et divini erant et vocabantur.

XXI. QUO PACTO IMAGINATIONI MODERANDUM CIRCA EA QUAE FUGIENDA VIDENTUR.

[16] Cum flentem videas in luctu quia eius filius aut peregre abierit aut obierit aut bona dilapidaverit, cave ne te imaginatio corripiat, tanquam in malis sit ille, cum sit in externis. Sed statim in promptu habeto: «non hunc casus hic torquet, quia alium non torquet, sed opinio». Quantum igitur ad sermonem pertinet, versare audacter cum illo; quin immo et, si inciderit, simul geme: cave tamen ne et intrinsecus gemas.

XXII. QUID AD NOS ATTINEAT QUIDVE SUPRA NOS SIT, APTISSIMA SIMILITUDINE.

[17] Memento actorem te esse fabulae, quamcunque is velit qui docet: si brevem, brevis; si longam, longae. Si mendicum agere te velit, et hunc ingeniose age: si claudum, si principem, si privatum. Ad te enim pertinet datam tibi personam bene agere, eligere ad alium.

XXIII. QUO PACTO ET IN ADVERSORUM EXPECTATIONE IMAGINATIONI MODERANDUM SIT.

[18] Si corvus adversum crocitavit, ne te imaginatio corripiat, sed statim tecum ipse diiudica et dic: «nihil mihi haec significant, sed vel corpori meo, vel gloriolae, vel natis, vel uxori. Mihi vero omnia prospera significant, si voluero; quicquid enim horum incidat, in me est ut ex iis utilitatem capiam».

XXIV. CAUSA SUPERIORIS SENSUS ET QUASI CONCLUSIO.

[19, 1] Invictus esse poteris, si in nullum certamen descendes quod ut vincas in te non est.

XXV. QUAE VIA AD LIBERTATEM EXPEDITISSIMA SIT.

[19, 2] Vide ne quenquam, quem tu aut honore aut potentia aut fama praestantem videas, beatum dicas, ab imaginatione videlicet correptus. Nam si substantia boni in iis est quae sunt in nobis, ibi neque invidia neque aemulatio locum habet. Tu autem non imperator aut consul esse vis, sed liber. Una autem via ad hoc est contemptus eorum quae in nobis non sunt.

XXVI. SOLUTIO EORUM QUAE SUPERIORIBUS OBSTARE VIDENTUR.

[20] Memento non qui convitiatur aut verberat iniuriam facere, sed opinionem de hoc, velut iniuriam faciente. Cum te igitur quis irritet, tua te opinione scito irritari. Quamobrem a principio enitere ne te imaginatio corripiat. Si enim semel per aliquod tempus eam continebis, facilius tui ipsius compos eris. [21] Mors et exilium et omnia quae terribilia videntur ante oculos tibi continuo sunto, maxime vero omnium mors: neque quicquam unquam humile cogitabis, neque quicquam cupies nimis.

XXVII. SECUNDA PARS, QUA EUM QUI IAM PROFECERIT INSTITUIT, EAQUE PRIMO DISSOLVIT, QUAE PHILOSOPHARI INCIPIENTIBUS OCCURRUNT.

[22] Si philosophiam cupis, praepara te continuo ut irridearis, ut subsanneris a multis, ut dicant: «repente nobis philosophus emersit», et «unde nobis hoc supercilium?». Tu vero supercilium quidem ne habe, quae vero tibi optima videntur ita retine, tanquam sis a deo in hac acie collocatus. Quod si persistes in iisdem, et qui te prius deridebant iidem postea admirabuntur; si vero iis terga dederis, dupla irrisione afficieris.

XXVIII. QUOD A SE IPSO AD EXTERNA CONVERSIO PHILOSOPHI STATUM DESTRUIT.

[23] Si quando evenerit ut ad ea quae extra sunt te convertas velisque cuipiam placere, scito te de statu decidisse. Satis igitur tibi in omnibus sit philosophum te esse. Si autem videri etiam vis, tibi ipsi videare, et satis erit.

XXIX. SOLUTIO EMERGENTIUM IN EIUS ANIMO COGITATIONUM QUI PHILOSOPHIAM AGGREDIATUR.

[24, 1] Hae te cogitationes ne crucient: «honore carebo, neque usquam ullus ero». Si enim carere honore in malis est (ut certe est), non potes in malo esse propter aliud, non magis quam in turpi. Nunquid igitur tuum opus est principatu potiri, convivio accipi? Minime. Quomodo igitur hoc est honore carere? Quomodo vero neque usquam ullus eris, quem in iis solis esse oportet quae sunt in te, in quibus tibi ipsi maximi esse licet? [24, 2] «Sed amicis prodesse non potero». Quid tu ais prodesse? Non habebunt abs te argentum neque eos cives Romanos facies. Quis tibi ergo dixit esse haec in nobis et non aliena opera? Quis autem potest dare alteri quod ipse non habet? [24, 3] «Posside igitur», inquit, «ut et nos habeamus». Si possum possidere servans memet verecundum, fidum et magnanimum, ostende viam, et possidebo. Si vero aequum ducitis mea me bona perdere, ut vos quae bona non sunt acquiratis, vos ipsi videte quam iniqui sitis quamque ingrati. Quod si fidum verecundumque amicum argento praeponitis, in hoc vos mihi opitulamini, neque ea me agere aequum ducite quibus hoc perdam. [24, 4] «Sed patria, quantum in me erit, adiumento carebit». Rursus, quod tu hoc ais adiumentum? Porticus non habebit per te neque balneas. Quid tum? Neque enim calceos habet per cerdonem neque arma per fabrum. Satis est autem si suum quisque opus expleat. Quod si ei quempiam alium compares civem fidum et verecundum, nihilne ei prodes? Utique. Neque tu igitur inutilis illi eris. [24, 5] «Quo igitur ordine in civitate ero?». Quo poteris, servans simul te fidum et verecundum. Quod si, dum illi prodesse velis, haec perdas, quem tu illi usum afferes, qui impudens infidusque evaseris?

XXX. CONTINUATIO EORUM SOLUTIONIS QUAE PHILOSOPHARI INCIPIENTEM IMPEDIUNT.

[25, 1] Praepositus tibi est quispiam in convivio aut in salutatione aut in consilio? Si haec bona sunt, gaudere te oportet quia his potitus sit ille; si mala, ne aegre fer quia tibi non acciderunt. Memento autem non posse te haec solummodo facientem paria cum ceteris consequi in iis quae in nobis non sunt. [25, 2] Quomodo ergo paria habere potest alicuius fores non frequentans cum eo qui frequentat, non deducens cum deducente, non laudans cum laudante? Iniustus igitur eris atque inexplebilis, si his nequaquam relictis quibus illa emuntur, ea gratis volueris. [25, 3] Sed quanti emuntur lactucae? Obolo, si ita contingat. Ut igitur, cum quis obolum praebens accipiat lactucas, tu non praebens non accipias, haud minus habere te censes eo qui accepit (ut enim ille habet lactucas, sic tu obolum non dedisti), [25, 4] eodem modo hic evenit. Non vocaris ad cuiusquam convivium? Non enim quanti convivium emitur dedisti. Laude id vendit, ministerio vendit: da igitur, si tibi conducit, quanti emitur. Quod si et illa amittere non vis et haec accipere, inexplebilis es et stolidus. [25, 5] Nihil igitur habes pro coena? Nempe habes quod non laudas quem non vis, quod non ea perfers quae ad eius limen perferuntur.

XXXI. QUAE SUNT COMMUNIA ETIAM EX NATURAE VOLUNTATE.

[26] Voluntas naturae perpendi ex his potest, in quibus alteri ab alteris non differimus. Velut, cum alienus puer fregerit poculum, in promptu statim est esse id ex iis quae fiunt. Scito igitur, cum tuum fuerit fractum, talem te esse oportere qualis fueris, cum alienum frangeretur. Idem ad maiora quoque transfer. Alienus obiit filius aut uxor: nemo est qui non dicat humanum id esse. Sed cum suus cuiusque obiit, statim «hei mihi» et «me miserum». Oportebat autem meminisse quid nobis accidat, cum de aliis idem audimus.

XXXII. MALI NATURAM IN MUNDO NON ESSE.

[27] Quemadmodum non ideo sagittarii signum figitur, ut non attingatur, sic neque mali natura in mundo fit.

XXXIII. QUAE PUTANDA SIT ANIMI PERTURBATIO QUIDVE AGENDUM NE IN EAM INCIDAMUS.

[28] Si quis tuum corpus imperium habenti traderet, aegre ferres. Quod autem tu tuam mentem cuivis tradis, ut, cum tibi convitia dicuntur, perturbetur illa et confundatur, nonne te pudet? [29, 1] Quidquid igitur aggressurus es, eius initium primo, tum quid deinceps sequatur considera, atque ita rem aggrediare. Id si non feceris, nunquam ipsam prompte aggredieris, nihil eorum cogitans quae futura sunt; postmodum vero, cum quaedam apparebunt turpia, pudore afficieris.

XXXIV. EFFICAX CONSIDERANDI EXEMPLUM, QUID QUAQUE IN RE QUAM SIMUS AGGRESSURI ACCIDERE POSSIT.

[29, 2] Vis Olympia vincere? Et ego, per deos: magnificum enim est. Sed considera et initia et consequentia, atque ita rem aggredere. Oportet bene sese instituere, necessariis vesci, abstinere condimentis, exerceri ad necessitatem, ad praescriptam horam, in aestu, in frigore, frigidam non bibere, non vinum, si ita ferat res; totum te denique praefecto ipsi ceu medico tradere; tum in certamen prodire, et interdum manum vulnerari, talum distorqueri, multam haphen deglutire, interdum vero et flagellari, postque haec omnia superari. [29, 3] His animadversis, si adhuc vis, abi certatum. Sin minus, instar puerorum deges, qui nunc palaestritas ludunt, nunc gladiatores, nunc tuba canunt, mox tragoedum agunt: ita et tu nunc athleta, nunc gladiator, nunc orator, nunc philosophus: toto vero animo nihil, sed velut simius quicquid cernis imitaris, aliudque ex alio tibi placet. Non enim cum animadversione rem aggressus es neque circumspectans, sed temere et per frigidam cupiditatem. Sic nonnulli cum philosophum intuentur aut cum a quopiam audiunt: «bene Socrates dicit» et «quis potest dicere ut ille?», volunt et ipsi statim philosophari. ‹[29, 5] Homo, considera primo quaenam aut qualis sit ea res quam aggrederis. Deinde naturam tuam consule, utrum id tolerare possis. Vis esse luctator aut pentathlus? Aspice brachia tua, aspice lumbos, aspice femora. Aliud enim aliis aptum rebus natura parens largita est. [29, 6] An te censes huiusmodi rebus studentem eodem modo vesci posse, eodem modo potum sumere, eodem modo irasci, eodem modo maerere? Vigilare oportet, laborare, secedere a propriis bonis, a pueris contemni, derideri ab omnibus, universis in rebus minus auctoritatis habere: in honore, in magistratu, in iudicio, in ceteris omnibus. [29, 7] Haec, inquam, omnia considera: et utrum pro his indolentiam, libertatem, quietem malis, animadverte; quod ni malis, cave ea aggrediaris, ne instar puerorum modo philosophus, modo publicanus, paulo post rhetor, postremo Caesaris procurator fias. Haec invicem nequaquam conveniunt. Illud oportet, hominem esse te vel bonum vel malum; aut ad interiora te vertas necesse est aut ad exteriora; vel philosophi locum teneas vel idiotae.›

XXXV. QUOD OFFICIA A NATURA DUCUNTUR QUODQUE, UT SESE QUISQUE ADVERSUS QUEMPIAM HABEAT, CONSIDERANTUR; TUM DE OFFICIIS ERGA HOMINES.

[30] Officia habitibus pensantur. Pater appellatur: curandus est, cedendum ei in omnibus, ferendus cum aut obiurgat aut verberat. «Sed malus pater est». At natura te non bono patri, sed patri conciliavit. Frater iniurius est? Vide quo tu loco sis, non quid ille faciat. Propositum tibi est ut secundum naturam tu facias. Nemo enim te laedit nisi volentem: tum laesus eris, cum te laedi opinaberis. Sic ergo a cive ad civem, a vicino ad vicinum, ad imperatorem ab imperatore officium invenies, si considerare habitus assuesces.

XXXVI. OFFICIA ADVERSUS DEOS.

[31, 1] Pietatis erga deos id maximum esse scito, ut de ipsis bene sentias putesque et eos esse beneque ac recte gubernare. Tum ut ita te compares, parere eis atque omnibus cedere quae fiant neque invitum sequi, quasi omnia ex optimo consilio efficiantur. Hoc enim pacto neque deos unquam culpabis, neque incusabis quasi neglectus. [31, 2] Id vero aliter efficere non potes, nisi ab iis te avoces quae in nobis non sunt, inque iis tantum quae sunt in nobis bonum ac malum ponas. Quod si eorum aliquid bonum esse aut malum opineris, necesse est ut, cum ea non consequaris quae velis aut in ea incidas quae nolis, conqueraris atque oderis eius rei causam. [31, 3] Omne ad hoc animal natum est, ut quae noxia videntur eorumque causas fugiant atque ab his avertantur, utilia vero et eorum causas quaerant atque admirentur. Non potest igitur, qui se laedi putat, eo quod laedere videtur gaudere, unde et ipsa laesione gaudere impossibile est. [31, 4] Unde et patri filius convitiatur, cum his quae bona videntur filium non impartit. Et Polynicen atque Eteoclem hoc inter se discordare compulit, quod tyrannidem bonum esse putabant; propter hoc agricola convitiatur diis, propter hoc nauta, propter hoc mercator, propter hoc ipsum quibus aut uxores aut liberi interiere. Ubi enim utilitas, ibi pietas. Quamobrem qui ea curat appetere atque evitare quae oportet, is eo tempore etiam pietatem curat. [31, 5] Libare autem et sacrificare secundum patrios mores unumquemque decet pure, absque lascivia, absque negligentia, non parce, non supra facultatem.

XXXVII. QUALEM SE AD DIVINATIONEM ADHIBERE, DE QUIBUS VATEM CONSULERE, QUOMODO DIVINATIONIBUS UTI OPORTEAT: IN QUO SIMUL ET OFFICIUM ERGA DEOS ET ERGA NOS IPSOS EXISTIT.

[32, 1] Cum ad divinationem accedis, memento ignorare te quid sit eventurum, atque ideo vatem adire, ut ex eo id audias. Quale autem quidque sit, si philosophus es, non ignoras. Si enim ex iis est quae in nobis non sunt, necessarium profecto est neque bonum id esse neque malum. [32, 2] Tolle igitur abs te, cum vatem adis, appetitum ac declinationem: aliter enim tremens vatem adibis. Sed, cum noris quicquid eventurum sit susque deque esse et nihil ad te, licebit, quodcunque id sit, eo bene uti, neque te quisquam prohibebit. Fidens igitur deos tanquam consultos adi. Mox, ubi quid tibi consuluerint, memento quos in consilium acceperis, quibusque sit obaudiendum, nisi parueris. [32, 3] De his autem (ut et Socrates dictitabat) consulendus est vates, quorum omnis consideratio relationem ad exitum habet, cuius cognoscendi occasio neque ex ratione nobis neque ex arte aliqua sit praebita. Quamobrem cum tantum periclitandum tibi fuerit cum amico aut cum patria, ne consule an periclitaturus sis. Nam si tibi vates dixerit adversa apparuisse exta, manifestum est aut mortem significari aut corporis impedimentum aut exilium. Sed dictitabit ratio teque confirmabit, ut cum amico et patria pericliteris. Maximo igitur vati, hoc est ipsi Pythio, intende, qui eum de templo expulit qui amico opem non tulerit.

XXXVIII. OFFICIA ERGA NOS IPSOS, AC DE IIS PRIMO QUAE AD MORUM CONSTANTIAM FACIUNT QUAEVE EAM IMPEDIUNT, ET DE SERMONE IN PRIMIS AC SILENTIO.

[33, 1] Statue tibi ipsi formulam quandam ac regulam, quam deinceps serves et cum tecum ipse es et cum in homines incidis. [33, 2] Silentium sit plurimum. Loquere necessaria et paucis et raro, aut quandoque, cum te ad aliquid dicendum tempus vocat, dic quidem, sed non de quavis re, non de gladiatorum pugna, non de cursu equorum, non de athletis, non de epulis vel poculis singulatim; maxime vero omnium non de hominibus, vituperans aut laudans aut cum ceteris iudicans. [33, 3] Si igitur possis, demuta eorum sermones, qui tecum sint, in id quod deceat. Quod si inter extraneos te deprehensum videas, tace.

XXXIX. DE RISU.

[33, 4] Risus neque multus sit neque ob multa neque solutus.

XL. DE IUREIURANDO.

[33, 5] Iusiurandum refuge, si possis; si minus, cum licet.

XLI. ADVERSUS CUPIDITATEM, AC PRIMO DE CONVIVIIS.

[33, 6] Convivia cum extraneis ac vulgaribus respue. Quod si quando tempus incidat, intentum habe animum ne in vulgarem statum defluas. Scias enim necessarium esse qui cum inquinato conflictetur et ipsum inquinari.

XLII. DE EORUM QUAE AD CORPUS PERTINEANT USU.

[33, 7] Quod ad corpus attinet, ad purum usque usum sume, velut cibum, potum, vestem, domum. Quod autem ad gulam aut delicias pertinet penitus circumscribe.

XLIII. DE RE VENEREA.

[33, 8] Circa rem veneream, quantum in nobis sit, ante nuptias pure agendum est. Quod si cogimur, quae tamen sunt legitima assumenda. Ne sis tamen molestus utentibus, neque redargutor, neve saepius obice te non uti.

XLIV. ADVERSUS IRACUNDIAM, ET QUALES NOS ERGA DETRACTORES PRAEBEAMUS.

[33, 9] Si quis ad te deferat: «ille de te male dicit», ne excusa quae dicantur, sed responde: «ignorat ille et alia quae mihi adsunt mala, alioquin non sola haec diceret».

XLV. DE SPECTACULORUM CUPIDITATE.

[33, 10] Ad theatra saepe accedere necessarium non est. Quod si quando tempus incidat, cave ne cuiquam magis studere videaris quam tibi: velis, quae fiunt, ita fieri ut fiunt; ‹eum tantummodo vincere qui victor fuit.› [Simpl. p. 119, 29-31] Status autem ne sit gravis, sed constans cum quadam laetitia. [33, 10] Egressus spectaculo, multa de iis quae facta sint ne disputa, quando ad te corrigendum non faciunt, neque de omnibus sermonibus qui dicti sint.

XLVI. DE AUSCULTATIONUM CUPIDITATE.

[33, 11] Ad recitantes ne accede neque his vel raro intersis. Quod si intersis gravitatem constantiamque ita serva, ut molestia vaces.

XLVII. DE CONGRESSU CUM POTENTIORIBUS.

[33, 12] Congressurus cum aliquo, et eorum praesertim qui potentiores videntur, praepone tibi quid in hoc fecisset Socrates aut Zeno, neque dubitabis quo te pacto gerere oporteat.

XLVIII. QUOMODO PRAEPARARE NOS DEBEAMUS POTENTIOREM ADITURI.

[33, 13] Cum aditurus quempiam eorum es qui magna possunt, praepone tibi ipsi fore ut non admittaris intro ad eum, ut excludaris, ut tibi fores non pateant, ut te ille negligat. Tum cogita, an cum iis eum adire expediat; ubi adieris, fer quae fiunt. Neque tu tecum dicas unquam: «talia non merebar». Vulgare enim est quae extrinsecus sunt calumniari.

IL. DE CONGRESSIBUS CUM PLURIBUS.

[33, 14] In congressibus absit ut de tuis aut operibus aut periculis nimium atque immodice memineris. Non enim, quemad-modum tibi de tuis periculis meminisse, ita et aliis quae tibi acciderint audire est iucundum. [33, 15] Absit etiam ut risum moveas: ‹est enim res vulgaris et nescio quo modo ducit ad vilitatem, et haec una venerationem›, qua te prosequantur qui adsint, remittere potest. [33, 16] Nonnunquam vero et in sermonis obscoenitatem trahit: quod si quando incidat, tum, si res et tempus fert, obscoenitate utentem increpa; sin minus, at saltem taciturnitate et rubore ostende eum te sermonem ferre iniquo animo.

L. QUOMODO RESISTENDUM VOLUPTATI.

[34] Cum voluptatis cuiuspiam imaginationem capis, quemadmodum in ceteris, serva te ipsum ne ab ea corripiaris, sed excipiat te res ipsa atque aliquod tute spatium cape. Tum utrumque tempus animo voluta, et quo voluptate potieris et quo iam potitus poenitentia afficieris, teque ipsum tute increpabis. Eis vero oppone quantopere, si abstinueris, gaudebis, teque ipsum tute laudabis. Quod si res postulare videtur ut rem aggrediaris, cave ne suis te blandimentis atque illecebris superet. Tum oppone quanto melius sit huius certaminis victoriam tibi ipsi conscire.

LI. AGENDUM BONUM PROPTER SE IPSUM, RELIQUIS NEGLECTIS, AC PRIMO DE IUSTITIA.

[35] Cum iudicaris faciendam tibi rem, idque facias, ne da operam quo minus te facientem alii videant, etiamsi aliud quippiam ea de re multi sint opinaturi. ‹Si enim non recte facis, ipsum opus fugiendum est;› si recte, ne metue increpaturos non recte. [36] Ut enim hoc, «aut dies aut nox est», adversus disiunctum magnam habet dignitatem, adversus autem coniugatum indignitatem, sic et maiorem partem eligere magnam erga corpus dignitatem habet, ad servandam autem quam in convivio communionem oportet indignitatem habet. Si quando igitur cum aliquo convivaris, memento ne ad eorum quae apposita sunt dignitatem adversus corpus aspicias, sed adversus quoque animum qualem decet convivam te serva.

LII. QUOD NON BONUM SIMPLICITER, SED QUOD NOBIS FACIAT, ELIGENDUM.

[37] Si personam induisti supra tuas vires, neque eam sustines et quod implere potueras omisisti.

LIII. QUOMODO ANIMUM VEL AB IRRATIONALIBUS AFFECTIBUS VEL A SUO PERVERSO IUDICIO SERVEMUS.

[38] Inter deambulandum quemadmodum caves ne clavum calces aut pedem distorqueas, ita cave ne quod in te ipso dominatur offendas; et hoc si in quavis re servemus, tutius illam aggrediemur.

LIV. DE EORUM QUAE AD CORPUS PERTINEANT POSSESSIONE.

[39] Modus possessionis unicuique corpus est, velut pes calcei. Si in hoc ergo consistas, modum servabis; si excedas, in praeceps feraris necesse est. Velut in calceo, si supra pedem extendas, fit aureus calceus, deinde purpureus, ‹deinde punctabundus›. Nullus enim terminus est, ubi modum semel excesseris.

LV. DE OFFICIO ET CURA ERGA UXOREM.

[40] Mulieres statim a decimoquarto anno dominae vocantur. [Simpl. p. 127, 17-28] His enim viri ob concubitum blandiuntur: virorum ergo culpa sibi deinceps nimis placent. Monendae igitur sunt fore ut apud nos in honore sint nihil ob aliud, nisi si modestae sint et virum revereantur.

LVI. DE DEGENERIS SIGNO DEQUE NIMIO CORPORIS CULTU.

[41] Degeneris signum est insistere iis quae corporis sunt, ut plurimo exercitio, plurimo corporis cultui. [Simpl. p. 127, 42-48] Sed et consensus cuiusdam supervacanei signum est. Quibus enim gaudemus, cum iisdem consentimus. Oportet igitur nimiam corporis curam velut ab re esse arbitrari; maxime vero curam eius habere, quod ipso utitur corpore.

LVII. PRAECEPTUM AD PATIENTIAM ET MANSUETUDINEM.

[42] Cum quisquam tibi male facit aut dicit, memento illum suum se officium facere arbitrantem facere aut dicere. Esse igitur non potest, ut is quod tibi videtur sequatur, sed quod sibi ipsi. Quod si male sibi videtur, ipse laeditur, qui et deceptus est. Verum enim coniugatum si quisquam falsum arbitretur, non coniugatum ipsum laeditur, sed qui decipitur. Si ab his igitur movearis, mitem te adversus convitiantem praebebis. Loquere igitur sic in quavis re: «ipsi est visum».

LVIII. QUOD RES OMNES PARTIM ALTERAE ALTERIS CONSENTIUNT, PARTIM DISSIDENT.

[43] Omnis res duas habet ansas, alteram qua ferri possit, alteram qua non possit. Frater si iniurius sit, ne eum inde capias, quod scilicet est iniurius: haec enim eius ansa est qua ferri non possit; sed inde magis, quod frater est, quod tecum educatus: atque ita inde eum capias unde ferri potest.

LIX. DE SERMONUM CONGRUENTIA.

[44] Hi sermones non congruunt: «ego sum ditior te: ego igitur melior sum», «ego sapientior te: ego igitur melior te». Hi autem magis congruunt: «ego te ditior sum: mea igitur possessio quam tua melior est», «ego te sapientior: mea igitur oratio quam tua melior». Tu vero neque possessio es neque oratio.

LX. DE IUDICIO RERUM EXACTO.

[45] Lavatur quis cito? Ne dicas male eum lavari, sed cito. Bibit quis multum vini? Ne dicas «male», sed «multum». Nisi enim eius consilium scias, unde scis an male? Sic enim accidet ut aliorum apprehensivas imaginationes accipiamus, aliis autem assentiamus.

LXI. ADVERSUS GLORIAM ATQUE OSTENTATIONEM, ET PRIMO CIRCA SCIENTIAM.

[46, 1] Nullo modo te ipsum dixeris philosophum, neque multum loquere inter ineruditos de speculationibus, sed fac aliquid ex ipsis speculationibus. Veluti in convivio ne dic quo pacto oporteat comesse, sed comede ut oportet. Memento enim et Socratem undecunque abstulisse ostentationem. [46, 2] Quod si de aliqua speculatione sermo inter ineruditos incidat, tace ut plurimum. Magnum enim periculum est evomere quae non concoxeris. Et cum quis dixerit te nihil scire, idque te non remordeat, tunc scito initium esse operis. Nam et oves non herbam evomentes pastoribus ostendunt quantum comederint, sed cibum intus concoquentes, vellera extra ferunt et lac. Et tu igitur ne speculationes ineruditis ostenta, sed ex his concoctis opera.

LXII. ADVERSUS SOBRIETATIS TOLERANTIAEQUE OSTENTATIONEM.

[47] Cum attenuato sis corpusculo, ne tibi ob id place. Neque, si aquam bibas, ex quavis occasione dic: «aquam bibo», [Simpl. p. 131, 47-49], sed cogita quam sint mendici abstinentiores nobis quamque tolerantiores, tum quot alia non habeamus bona, quae alii habent. Quod si exerceri velis ad laborem ac patientiam tecum ipse hoc fac, neque ab externis videri velis, [Simpl. p. 132, 7-10] ut qui vim patientes a potentioribus, quo populum convocent, statuas inscendunt et se vim pati clamant. [Simpl. p. 132, 13-17] Ostentator enim totus extra vergit, et patientiae atque abstinentiae bona destruit, cum eorum finem statuit esse multorum opinionem.

LXIII. DESCRIPTIO TRIPLICIS HABITUS INERUDITI, PHILOSOPHI ET PROFICIENTIS.

[48, 1] Ineruditi status et formula est nunquam a se ipso expectare utilitatem aut nocumentum, sed ab externis. Philosophi status et formula omnem utilitatem ac nocumentum a se ipso expectare. [48, 2] Signum proficientis hoc est: neminem vituperat, neminem laudat, de nemine queritur, neminem accusat, nihil de se ipso dicit, ceu si sit aliquis aut aliquid sciat; cum in re quapiam aut impeditur aut prohibetur, se ipsum accusat; et si quis ipsum laudet, ridet laudantem ipse secum; et si vituperet, non se expurgat. Degit autem instar valetudinarii, cavens aliquid eorum quae sunt in se commovere, priusquam ad soliditatem perveniat. [48, 3] Appetitum omnem a se ipso sustulit; declinationem vero in ea tantum quae sunt contra naturam, eorum videlicet quae sunt in nobis, transtulit. Conatu ad omnia remisse utitur. An stultus an rudis dicatur, minime curat: utque uno explicem verbo, quasi adversarium se ipsum observat et quasi insidiatorem.

LXIV. QUOD VERBA PROPTER OPERA.

[49] Cum quis ideo gloriatur quod Chrysippi sententias interpretatur, dicat ipse secum: «nisi operte Chrysippus scripsisset, nequaquam haberem unde gloriarer». [Simpl. p. 134, 13-21] Sed scripsit Chrysippus non ut quis eum interpretaretur, sed ut secundum se operaretur. Si ergo scriptis utar, tum eorum bonum fuero consecutus: si autem interpretantem admirer aut etiam ipse interpretari possim, grammaticum, non philosophum admirer aut agam. [Simpl. p. 134, 27- 31] Quid autem prodest medicamenta quaedam invenisse descripta eaque intelligere atque aliis tradere, ipsummet aegrotantem minime eis uti?

LXV. QUOD IN HIS PERSEVERANDUM.

[50] In proposito perseverandum velut in lege est. Persta igitur, velut, si haec transcendas, impius sis futurus. Quod si quis de te dixerit, ne cura: id enim tuum non est.

LXVI. QUOD SUPERSEDENDUM NON EST, SED QUAM PRIMUM AD HAEC INCUMBENDUM.

[51, 1] Quo te usque differs ut iam te aliquando dignum his quae optima sunt putes, neque usquam transgredi haec statuas? Quod si diem de die termino adicias, [Simpl. p. 135, 24] non proficis, sed deficis. [ibid. p. 135, 31 sgg.] Iam nunc igitur assuesce, ut tanquam perfectus vivas, omnibusque quae accidant recte utaris. Et quacunque in re arbitrare propositum tibi certamen, neque ullum diem negligas: quo enim die non proficis, deficis. [ibid. p. 136, 8 sgg.] Hoc igitur pacto Socrates virorum omnium sapientissimus evasit: quod si ipse nondum es Socrates, at vivere debes ut qui Socrates velis esse.

LXVII. TRES LOCI IN PHILOSOPHIA EORUMQUE INTER SE ORDO.

[52, 1] Primus ac maxime necessarius locus est in philosophia qui ad usum speculationum pertinet: velut est non mentiri. Secundus, qui ad demonstrationes: velut est cur mentiri non oporteat. Tertius, qui ad eas confirmandas et perspiciendas spectat: hoc est, quo pacto et unde demonstrare id possimus verum esse aut falsum. [52, 2] Igitur tertius quidem locus necessarius est ob secundum, secundus vero ob primum; maxime omnium necessarius, et in quo quiescere oporteat, primus est. Nos vero contra facimus: tertio enim loco immoramur inque eo omne nostrum studium conterimus.

LXVIII. TRES ANTIQUORUM SENTENTIAE IN PROMPTU HABENDAE, QUARUM PRIMA CLEANTHIS, EURIPIDIS SECUNDA, TERTIA PLATONIS EST.

[53, 1] Semper haec in promptu habenda. [Simpl. p. 137, 26-28] Primum: si renitor, malus ero, gemensque ac plorans sequar. [ibid. p. 137, 40-44] Secundum: necessitas omnia sursum versus ad divinam causam ducit, volentia et invita. Eam qui laetus sequitur, is vere est sapiens. [ibid. p. 137, 48- 49] Sed et tertium: o Criton, si ita diis placet, ita fiat. [ibid. p. 138, 6-7 vel Ench. 53, 4] Me vero Anytus et Melitus interimere quidem possunt, laedere autem non possunt.

 

 

GIACOMO LEOPARDI

Volgarizzamento del «Manuale»

 

 

 

PREAMBOLO DEL VOLGARIZZATORE

 

Non poche sentenze verissime, diverse considerazioni sottili, molti precetti e ricordi sommamente utili, oltre una grata semplicità e dimestichezza del dire, fanno assai prezioso e caro questo libricciuolo. Io per verità sono di opinione che la pratica filosofica, che qui s'insegna, sia, se non sola tra le altre, almeno più delle altre profittevole nell'uso della vita umana, più accomodata all'uomo, e specialmente agli animi di natura o d'abito non eroici, nè molto forti, ma temperati e forniti di mediocre fortezza, o vero eziandio deboli, e però agli uomini moderni ancora più che agli antichi. So bene che a questo mio giudizio è contraria la estimazione universale, reputandosi comunemente che l'esercizio della filosofia stoica non si confaccia, e non sia pure eziandio possibile, se non solamente agli spiriti virili e gagliardi oltre misura. Laddove in sostanza a me pare che il principio e la ragione di tale filosofia, e particolarmente di quella di Epitteto, non istieno già, come si dice, nella considerazione della forza, ma sì bene della debolezza dell'uomo; e similmente che l'uso e la utilità di detta filosofia si appartengano più propriamente a questa che a quella qualità umana. Perocchè non altro è quella tranquillità dell'animo voluta da Epitteto sopra ogni cosa, e quello stato libero da passione, e quel non darsi pensiero delle cose esterne, se non ciò che noi chiamiamo freddezza d'animo, e noncuranza, o vogliarsi indifferenza. Ora la utilità di questa disposizione, e della pratica di essa nell'uso del vivere, nasce solo da questo, che l'uomo non può nella sua vita per modo alcuno nè conseguir la beatitudine nè schivare una continua infelicità. Che se a lui fosse possibile di pervenire a questi fini, certo non sarebbe utile, nè anco ragionevole, di astenersi dal procacciarli. Ora non potendogli ottenere, è proprio degli spiriti grandi e forti l'ostinarsi nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente, il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i sette a Tebe di Eschilo, e come gli altri magnanimi degli antichi tempi. Proprio degli spiriti deboli di natura, o debilitati dall'uso dei mali e dalla cognizione della imbecillità naturale e irreparabile dei viventi, si è il cedere e conformarsi alla fortuna e al fato, il ridursi a desiderare solamente poco, e questo poco ancora rimessamente; anzi, per così dire, il perdere quasi del tutto l'abito e la facoltà, siccome di sperare, così di desiderare. E dove che quello stato di nimicizia e di guerra con un potere incomparabilmente maggior dell'umano e non mai vincibile, dall'un lato non può avere alcun frutto, e dall'altro lato è pieno di perturbazione, di travaglio, d'angoscia e di miseria gravissima e continua; per lo contrario questo altro stato di pace, e quasi di soggezione dell'animo, e di servitù tranquilla, quantunque niente abbia di generoso, è pur conforme a ragione, conveniente alla natura mortale, e libero da una grandissima parte delle molestie, degli affanni e dei dolori di che la vita nostra suole essere tribolata. Imperocchè veramente a ottenere quella miglior condizione di vita e quella sola felicità che si può ritrovare al mondo, non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per così dir, la felicità, ed astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario. Ora la noncuranza delle cose di fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri Stoici, viene a dir questo appunto, cioè non curarsi di essere beato nè fuggire di essere infelice. Il quale insegnamento, che è come dire di dovere amar se medesimo con quanto si possa manco di ardore e di tenerezza, si è in verità la cima e la somma, sì della filosofia d'Epitteto, e sì ancora di tutta la sapienza umana, in quanto ella appartiene al ben essere dello spirito di ciascuno in particolare. Ed io, che dopo molti travagli dell'animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad esecuzione.

 

VOLGARIZZAMENTO DEL «MANUALE»

 

Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro la opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'aversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti.

Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite nè attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui.

Ricórdati adunque che se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t'interverrà di trovare quando un ostacolo quando un altro, essere afflitto, turbato, dolerti degli uomini e degli Dei. Per lo contrario se tu non istimerai proprio tuo se non quello che è tuo veramente, e se terrai che sia d'altri quello che è veramente d'altri, nessuno mai ti potrà sforzare, nessuno impedire, tu non ti dorrai di niuno, non incolperai chicchessia, non avrai nessuno inimico, niuno ti nocerà, essendo che in effetto tu non riceverai nocumento veruno.

Ora se tu sei desideroso di pervenire a questo sì felice stato, sappi che a ciò si richiede sforzo e concitazione d'animo non mediocre, e che di certe delle cose di fuori tu déi lasciare il pensiero al tutto, di certe riservarlo per un altro tempo, e attendere alla cura di te medesimo sopra ogni cosa. Che se tu vorrai ad un'ora procacciare i predetti beni ed anco dignità e ricchezze, forse che tu non otterrai nè pur queste, per lo studio che tu porrai dietro a quelli, ma di quelli senza alcun dubbio tu sarai privo, i quali sono pur così fatti, che solo per virtù di essi si può goder beatitudine e libertà.

Per tanto a ciascuna apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi ad ogni altra cosa avvézzati a dire: questa è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti che tu sai, e prima e massimamente con vedere se ella appartiene alle cose che sono in nostra facoltà o vero a quelle che non sono. Ed appartenendo a quelle che non sono, abbi apparecchiata in tuo cuore questa sentenza: ciò a me non rileva nulla.

Sovvengati che l'intento dell'appetizione si è il conseguire ciò che ella appetisce, e l'intento dell'aversione il non incorrere in ciò che ella fugge. E colui che non ottiene quel che appetisce, è senza fortuna; colui che incorre in quel che egli schifa, ha cattiva fortuna. Ora se l'animo tuo non ischiferà se non solamente, delle cose che sono in nostro potere, quelle tali che saranno contro natura, non ti avverrà d'incorrere in cosa alcuna alla quale tu abbi contrarietà. Ma se egli sarà vólto a schifare i morbi, la povertà, la morte, tu avrai cattiva fortuna.

Astienti dunque dall'aversione rispetto a qual si sia cosa di quelle che non sono in nostro potere, e in quella vece fa di usarla rispetto alle cose che, nel numero di quelle che sono in tua facoltà, si troveranno essere contro natura. Dall'appetizione tu ti asterrai per ora in tutto. Perciocchè se tu appetirai qualcuna di quelle cose che non dipendono da noi, tu non potrai fare di non essere sfortunato; e delle cose che sono in potestà dell'uomo, non ti si appartiene per ancora alcuna di quelle che sarebbono degne da desiderare. Per tanto tu non consentirai a te medesimo se non se i primi movimenti e le prime inclinazioni dell'animo ad appetire o schifare, con questo però che elle sieno lievi, condizionali e senza veruno impeto.

Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcuno uso, incominciando dalle più picciole. Se tu ami una pentola, dire a te stesso: io amo una pentola; perciocchè se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale; acciocchè morendoti quella donna o quel fanciullino, tu non abbi perciò a turbarti.

Qualora tu pigli a far che che sia, récati a mente la qualità di quella cotale operazione. Se tu vai, ponghiamo caso, al bagno a lavarti, récati al pensiero le cose che accaggiono nel bagno; la gente che ti spruzza, che ti sospinge, che ti rampogna, che ti ruba. E per metterti a quell'atto più sicuramente, tu dirai fra te stesso: io voglio ora lavarmi, e oltre di ciò mantenere la disposizione dell'animo mio in istato conforme a natura. E il simile per qualunque faccenda. Così se per avventura al lavarti ti sarà occorso alcuno impaccio, tu avrai pronto il modo di consolarti dicendo: io non voleva fare solamente questo, ma eziandio mantenere la disposizione dell'animo mio in grado conforme a natura. Ma io non la manterrò in cotale stato, se io mi cruccerò di questo che ora m'interviene.

Gli uomini sono agitati e turbati, non dalle cose, ma dalle opinioni che eglino hanno delle cose. Per modo di esempio, la morte non è punto amara; altrimenti ella sarebbe riuscita tale anche a Socrate; ma la opinione che si ha della morte, quello è l'amaro. Per tanto, quando noi siamo attraversati o turbati o afflitti, non dobbiamo però accagionare gli altri, ma sì veramente noi medesimi, cioè le nostre opinioni. Egli è da uomo non addottrinato nella filosofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli suoi propri, da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato il non darla nè a se stesso nè agli altri.

Guarda di non insuperbire di alcuna eccellenza o di alcun pregio altrui. Se un cavallo montando in superbia dicesse: io son bello, ciò sarebbe per avventura da comportare. Ma quando tu ti levi in superbia dicendo: io ho un bel cavallo, avverti che tu insuperbisci di un pregio che è del cavallo. Sai tu quello che è tuo? l'uso che tu fai delle apparenze delle cose. Sicchè quando nell'usare di queste apparenze tu ti reggerai conforme a quello che la natura richiede, allora tu piglierai compiacenza di te medesimo a buona ragione: imperocchè quello sarà un pregio tuo proprio.

Siccome in una navigazione, poichè il legno ha dato in terra a qualche porto, se tu esci del legno per fare acqua, tu puoi bene ancora venir cogliendo per via qua una chiocciolina, là una radicetta, ma egli ti conviene però aver sempre il pensiero alla nave, e voltarti spesso, per intendere se il piloto ti chiama, e chiamandoti, lasciare tutte quelle cose, per non avere a esser cacciato dentro legato come si fa delle pecore; così nella vita, se in cambio di radicette o di chioccioline ti si porgerà una donnicciuola o un putto, niente vieta che tu non lo debba pigliare e godertelo. Ma se il piloto ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa. E se tu sarai vecchio, non ti dilungherai dal legno gran tratto, per non avere a mancare quando il piloto ti chiami.

Tu non déi cercare che le cose procedano a modo tuo, ma voler che elle vadano così come fanno, e bene starà.

La malattia si è un impaccio del corpo, ma non della disposizione dell'animo, solo che esso non voglia. L'esser zoppo si è impaccio della gamba, ma non della disposizione dell'animo. Il simile dirai per ogni accidente che ti sopravvenga. Imperciocchè troverai che esso sarà di natura da fare impaccio a qualche altra cosa, ma non a te proprio.

A ciascuna cosa esteriore che ti occorra, rivolgiti sopra te stesso e cerca quale delle facoltà che tu hai, si possa adoperare verso di quella. Se tu avrai veduto un bel garzone o una bella donna, troverai che da poter usare verso di queste cose, tu hai la facoltà della continenza. Se ti occorrerà una fatica da sostenere, troverai la facoltà della tolleranza. Se una villania, la pazienza. E così accostumandoti, tu non ti lascerai trasportare dalle apparenze delle cose.

Non dir mai di cosa veruna: io l'ho perduta, ma bene: io l'ho restituita. Ti è morto per avventura un figliuolo? tu l'hai renduto. Morta la tua donna? tu l'hai renduta. Ti è stato tolto un podere? or non è egli renduto anche questo? Ma colui che me ne ha spogliato è un ribaldo. Che fa egli a te che quegli che ti aveva dato il podere te lo abbia richiesto per via di tale o di tale altra persona? Fino a tanto poi che egli ti lascia tenere o il terreno o che che altro si sia, pigliane quel pensiero che tu prenderesti di una cosa che fosse d'altri, come fanno dell'albergo i viandanti.

Se tu vuoi far progresso nella sapienza, lascia da parte questi cotali discorsi: se io non avrò cura della mia roba, non avrò di che vivere; se io non gastigherò il mio schiavo, egli sarà pure un furfante. Meglio è morirsi di fame dopo una vita libera da travagli e timori, che vivere inquieto in grande abbondanza di ogni cosa. Meglio è che il tuo schiavo sia tristo che non tu infelice.

Tu incomincerai dunque dalle cose picciole. Ti si versa un poco di olio? ti è rubato un poco di vino? tu dirai: a tanto si vende la tranquillità dell'animo, la costanza: niente si può avere gratis. Quando chiami il tuo fante, pensa ch'egli può accadere che colui non t'oda, e che ancora udendoti, non faccia però nulla di quel che tu vuoi. Ora tu non voler tanto concedere al tuo fante, che egli abbia in sua mano di poterti turbare la quiete dell'animo.

Se tu vuoi far profitto, comporta pazientemente di esser tenuto pazzo e stolido per cagione delle cose di fuori. Anzi se egli ci avrà di quelli che ti stimino uomo da qualche cosa, diffídati di te medesimo. Perchè tu déi sapere che egli non si può in un medesimo tempo conservare l'animo tuo disposto e ordinato secondo natura, e provvedere alle cose esterne; ma colui che ha cura dell'una di queste parti, di necessità dee trascurare l'altra.

Se tu vuoi che la moglie, i figliuoli e gli amici tuoi vivano sempre, tu sei pazzo. Perocchè tu vuoi che dipenda da te quello che non è in tuo potere, e che quello che è d'altri sia tuo. Parimente se tu vuoi che il tuo servo non commetta errore, tu sei sciocco. Perchè questo è un volere che la malizia non sia malizia ma qualcos'altro. Ma se tu vuoi non desiderar cosa che poi non ti venga ottenuta, questo sì che lo puoi. Per tanto indústriati di ottener questo che tu puoi.

Colui che ha in sua facoltà di dare o torre a una persona quel che essa vuole o non vuole, è padrone di quella cotal persona. Però chiunque ha volontà di esser libero, faccia di non appetire nè fuggir mai cosa alcuna di quelle che sono in potestà d'altri; o che altrimenti gli bisognerà in ogni modo essere schiavo.

Tieni a mente che tu ti déi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente.

Quando tu vedi alcuno che pianga o per morte di alcun suo congiunto o per lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso subitamente e dirai: questi è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poichè questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto che egli ha dell'accaduto. Ciò non ostante tu non farai difficoltà di secondare il suo dolore in parole, ed anco, se occorre, di sospirare insieme seco; ma guarda che tu non sospirassi però di cuore.

Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro.

Quando un corvo gracchiando porge cattivo augurio, non ti lasciar muovere da sì fatta apparenza, ma subito distingui teco medesimo e dì: questo animale non prenuncia niuna disavventura a me proprio, ma forse a questo mio corpicino, o forse alla mia robicciuola, alla riputazioncella, ai figliuoli, alla moglie. Quanto si è a me, questo, se io voglio, è augurio buono, anzi ottimo. Imperocchè io ricaverò utile dal successo, qual ch'egli sia per essere, solo che io voglia.

Tu puoi essere invitto, e ciò è se tu non ti metterai a nessuno aringo dal quale tu non abbia in tua facoltà di riuscire colla vittoria.

Guarda che quando tu vedi uomini onorati o potenti o come che sia riputati e osservati, l'apparenza non ti faccia forza in maniera che tu gli creda avventurosi e felici. Perciocchè se la essenza del bene sta nelle cose che sono in nostra facoltà, non deono aver luogo nè invidia nè gelosia. E tu per la tua parte non vorrai essere nè capitano di esercito, nè presidente del consiglio, nè console, ma libero: e a questo ci ha una sola via, che è non curarsi delle cose che non sono in nostro potere.

Ricórdati che colui che rampogna o percuote, non offende esso, ma la opinione che si ha che questi cotali offendano. Sicchè quando tu ti senti montar la collera contro uno, pensa che la tua propria immaginazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri. Per tanto sfórzati d'impedire che l'apparenza non ti trasporti in sul primo; che se tu otterrai un poco di tempo e d'indugio, più agevolmente ti verrà fatto di vincerti e di contenerti.

Abbi tutto giorno dinanzi agli occhi la morte, l'esilio e tutte quelle altre cose che appaiono le più spaventevoli e da fuggire, e la morte massimamente; e mai non ti cadrà nell'animo un pensier vile, nè ti nasceranno desiderii troppo accesi.

Vuoi tu darti a filosofare? Apparécchiati insin da ora a dovere essere schernito e deriso da molti; aspéttati che la gente dica: oh, egli ci si è tramutato in filosofo a un tratto, e: che vogliono dire quelle sopracciglia aggrottate? Ora tu non aggrottare le sopracciglia, ma non lasciar però di attenerti a quello che tu estimi il migliore, perseverando, come a dire, in una ordinanza nella quale tu sii stato collocato da Dio. E sappi che se tu durerai nel tenor di vita incominciato, quei medesimi che a principio si avranno preso giuoco di te, in progresso di tempo cangiati ti ammireranno; laddove se per li motteggi ti perderai d'animo, tu ne guadagnerai le beffe e le risa doppie.

Se mai per volere acquistare la buona estimazione di alcuno, ti sarà intervenuto di versarti, per dir così, fuori di te medesimo, sappi che tu avrai rotto l'abito, e sarai uscito dei termini del tuo instituto di vita. Però non cercare altro mai che di esser filosofo, e sii contento e soddisfatto di questo in ogni cosa. Che se oltre ad essere, tu volessi eziandio parere, fa che tu paia filosofo a te medesimo, e tanto ti basti.

Non istare a darti pena e sconforto dicendo fra te medesimo: io menerò una vita ignobile, e: io non sarò nulla. Perocchè se la ignobilità è un male, non puoi tu patire alcun male per cagion d'altri, più di quello che incorrere in alcuna vergogna. Ora dimmi, il pervenire a un ufficio pubblico, o l'esser chiamato a un convito, forse che sta in tuo potere? or come dovrà egli essere ignobile o ignominioso che tu non abbi parte in questo convito o che non pervenghi a questo ufficio? E come dì che tu non sarai nulla, quando a te non si conviene essere qualche cosa se non solamente in quello che è in tua facoltà, dove tu puoi bene essere d'assaissimo? Ma gli amici non avranno da me aiuto nè benefizio alcuno. Di che benefizi e di che aiuti vuoi tu intendere? Non avranno da te oro e, quanto è a te, non saranno fatti cittadini romani. Ora chi ti ha detto che queste sono cose di quelle che dipendono dal nostro arbitrio, e non cose poste in potere altrui? Chi può dare a un altro ciò che non ha egli? E tu fa di acquistare, dirà qualcuno, per poter dare a noi. Se io posso acquistare, salva in me la verecondia, la fede, e l'altezza dell'animo, mostratemi come si faccia, e io non mancherò. Ma se voi volete che io perda i miei propri beni perchè voi dobbiate ottener cose che non sono beni, vedete che poca equità e che indiscrezione è la vostra. Oltre che, qual vi eleggereste voi prima, tra danari e un amico fedele e ben costumato? Che non mi aiutate voi dunque piuttosto a esser tale, in cambio di volere che io faccia cose per le quali mi convenga perdere queste virtù? Ma la patria non avrà da me alcun servigio. Ancora, di che servigi vuoi tu intendere? Non avrà per opera tua nè bagni nè portici. Oh, che maraviglia? Nè anco ha calzari dal fabbro, nè arme dal calzolaio. Egli basta bene che ciascheduno adempia l'ufficio suo. Dimmi, se tu instituissi e informassi alla tua patria un altro cittadino modesto e leale, non le faresti tu alcun benefizio? Certo che sì. Or come le sarai dunque inutile tu medesimo, essendo tale? Ma che luogo terrò io nella patria? quello che tu potrai, salva la modestia e la fede. Che se per voler giovare alla patria, tu perderai la fede e il pudore, che profitto le farai tu, divenuto che sarai sleale e impudente?

Ti è egli stato anteposto di onore il tale o il tale a un banchetto, o pur nel saluto, o nell'esser cerco di consiglio? se questi cotali onori sono beni, egli ti debbe esser caro che colui gli abbia avuti; se mali, non ti dee dispiacere che non sieno toccati a te. Poi considera che non facendo tu per amore delle cose esterne quel medesimo che gli altri fanno, tu non puoi nel conseguimento di quelle andare al paro cogli altri. Come può, per modo di esempio, colui che non frequenta le soglie dei grandi, che non gli accompagna, che non gli loda, andar del pari a coloro che fanno tutte queste cose? Egli sarebbe ingiustizia e ingordigia che non pagando tu quel prezzo a che si comperano i favori e i benefizi dei potenti e dei ricchi, tu gli volessi avere gratis. A quanto si vendono le lattughe oggi? Ponghiamo caso, a un obolo. Ora facciamo che uno, spendendo un obolo, abbia tolto delle lattughe, e tu, non ispendendo, non ne abbia tolto: tu non déi però pensare di aver punto meno che si abbia colui. Perocchè se egli avrà le lattughe, e tu avrai l'obolo che non avrai speso. Il simile nel caso nostro. Tu non sei stato invitato a cena dal tale. Ma nè anche hai dato a lui quello a che egli vende la sua cena. Ora egli la vende a prezzo di lodi, di osservanza, di ossequi. Paga dunque il prezzo se la mercanzia fa per te. Ma se tu vuoi non pagare il prezzo e avere la merce, questa si è ingordigia e furfanteria. Forse che in cambio della cena tu non hai nulla? Sì che tu hai ben questo, che tu non hai lodato chi non volevi, che non sei stato ad aspettarlo in sull'uscio.

La intenzione della natura si conosce da quelle cose dove noi non abbiamo interesse. Se il fante del vicino avrà spezzato un bicchiero o cosa tale, subito ti correrà in sulla lingua: elle sono cose che accaggiono. Ora sappi che chi spezzasse il tuo bicchiero, tu la déi pigliare in quella medesima guisa che tu piglierai che si spezzi quello del tuo vicino. Così delle cose di maggior momento. Muore a un altro il figliuolo o la moglie? sono casi umani. Muore il figliuolo o la moglie propria? tosto gli oimè, gli ahi ahi. Ma egli si converrebbe avere a memoria quello che c'interviene quando il medesimo caso ci è riferito di un altro.

Come non si mette un bersaglio acciocchè l'uomo non lo colga, così non si genera e non si ritrova al mondo la natura del male.

Se uno desse il tuo corpo in potestà di qualunque che gli venisse alle mani, tu te ne sdegneresti: e dando tu la tua mente in potere di chicchessia, per modo che se egli ti dirà una mala parola, quella si turbi e confonda, non ti vergogni però punto?

Innanzi di metterti a qualsivoglia operazione, divisane teco stesso le antecedenze e le conseguenze. Altrimenti tu intraprenderai con grande animo, non pensando punto alle cose che hanno a venire; ma in progresso nascendoti qualche difficoltà e qualche vitupero, tu ti vergognerai. Desideri tu diventar vincitore olimpico? E io non meno di te, per Dio; chè ella è una qualità che fa onore. Ma considera prima le antecedenze e le conseguenze, e poi mettiti all'impresa. Egli ti conviene sottoporti a una disciplina e osservare una regola; mangiare sforzatamente; astenerti dalle confetture e cotali piacevolezze; esercitare il corpo per forza a certe ore assegnate, sì al caldo come al freddo; non usare bevande fresche nè vino a tuo piacimento; in fine darti tutto in mano al maestro, nè più nè meno come a un medico. Di poi scendere nell'aringo; a un bisogno guastarti una mano, smuoverti un tallone; ingoiare di buoni tratti di polvere; a un bisogno anche toccare delle sferzate, e poi per ultimo esser vinto. Considerato che avrai tutte queste cose, se tu persevererai nel concetto di prima, datti agli esercizi dei giuochi. Ma se tu non considererai cosa alcuna innanzi, tu ti aggirerai come i bamboli, che ora fanno i lottatori, e quando gli atleti, e quando gli schermitori, poi strombazzano, poi contraffanno le tragedie. Così ancora tu: oggi schermitore, domani atleta, e quando oratore, poi filosofo, e nulla mai veramente e con tutto l'animo, ma in guisa delle scimmie tu contraffai tutto quello che tu vedi, e muti voglia a ogni tratto. Perocchè tu non imprendi mai cosa alcuna consideratamente, e spiatala prima bene da ogni banda, ma così a caso e per qualche fantasia leggera. Egli ci ha di quelli che veduto per avventura un filosofo, o udito dire a questo o a quello: oh, Socrate dice pur bene, e: chi è che possa favellare come faceva Socrate? si mettono per voler filosofare ancor essi.

O uomo, considera prima sottilmente questo fatto del filosofare, di che sorta egli sia, e quindi fa di conoscere la tua natura, a veder se tu sei buono da comportarlo. Vuoi tu pigliare la professione di fare alla lotta o vero ai cinque giuochi? tu hai da por mente alle tue braccia, alle cosce, ai lombi, perchè una complessione è acconcia a una cosa e una a un'altra. Pensi tu di potere filosofando mangiare e bere e fare lo schifo e il dilicato come al presente? Egli ti bisogna vegliare, faticare, separarti dai tuoi, essere vilipeso da un fanticello, in tutto essere inferiore agli altri, negli onori, nei magistrati, nei giudizi, in ogni coserella. Considera bene queste difficoltà e questi incomodi, e vedi se egli ti pare espediente di sostenerli per avere in compenso di quelli la libertà, lo stato dell'animo senza perturbazioni, senza passioni; e non voler fare come i fanciulli, oggi filosofo, poi gabelliere, appresso oratore, indi procuratore di Cesare. Queste qualità non si accordano insieme. Egli si vuole essere una persona sola, o valente o da poco; adoperarsi intorno alla parte principale di noi medesimi, o intorno alle cose di fuori; aver cura dell'intrinseco o dell'estrinseco; che è quanto dire, esser filosofo o pure uomo comune.

I doveri e gli offici si misurano generalmente dalle relazioni. Il tale ti è padre? appartientisi aver cura di lui; cedergli in ogni cosa; se ti rampogna, se ti batte, portartelo pazientemente. Ma egli è un cattivo padre. Forse che la natura ti obbliga al padre buono? non già, ma semplicemente al padre. Il fratello ti fa egli torto? tu non mancar però seco dell'officio tuo di fratello, e non guardare quello che si faccia egli, ma quello che abbi a far tu per procedere secondo natura. Perocchè già un altro non ti può far nocumento se tu non vuoi; ben sarai tu offeso se tu stimerai che altri ti offenda. Or dunque nel predetto modo, se tu ti accostumerai di por mente alle relazioni, troverai gli offici e i doveri che ti si appartengono rispetto al vicino, al cittadino, al capitano e a qualsivoglia altro.

La pietà verso gli Dei consiste massimamente in aver sane e rette opinioni intorno a quelli; cioè in credere che egli ci ha veramente iddii, e che questi iddii governano ogni cosa bene e con giustizia; e in assegnare a te medesimo questo ufficio e questa parte, di dovere ubbidire agl'iddii, e cedere in ogni cosa agli avvenimenti e acconciarviti di buon grado, come quelli che sono condotti dal miglior consiglio e dalla migliore volontà del mondo. Imperocchè avendo queste opinioni, tu non vorrai per cosa alcuna dolerti degli Dei, nè imputarli che non ti abbiano cura. Or tutto questo non può altrimenti essere che se tu ti distaccherai dalle cose esterne, riponendo il bene e il male in quelle cose solamente che sono in tua potestà. Imperciocchè se tu reputerai pure che alcune delle cose estrinseche sieno beni o mali, tu non potrai fare, quando tu non venghi a capo di ottener quello che avevi desiderato, o che tu incorra in quello che tu fuggivi, di non querelarti degli autori di questo effetto e di non pigliarli in odio; essendo che tutti gli animali per natura fuggono e odiano quelle cose che paiono loro nocive e le cagioni di esse, siccome per lo contrario le cose riputate utili e le cagioni di quelle seguono e pregiano. Laonde egli è impossibile che uno il quale si creda ricevere nocumento, ami quella tal cosa la quale egli si penserà che gli noccia, così come è impossibile che uno ami il nocumento medesimo. Di qui è che il figliuolo trascorre alle male parole contro il padre, quando costui non gli fa parte di quelli che la gente estima essere beni; e Polinice ed Eteocle per questo vennero tra loro in discordia, perocchè essi reputarono essere un bene il principato. Perciò l'agricoltore, perciò il navigatore e il mercatante bestemmiano gli Dei, e quelli che hanno perduto i figliuoli e le mogli bestemmiano gli Dei; essendo che la pietà segue sempre l'utile. Di modo che ciascheduno che procaccia di desiderare e fuggire solamente quello che è da essere desiderato e fuggito, procaccia al tempo medesimo di esser pio. Quanto si è alle libazioni, ai sacrifici, all'offerire delle primizie, queste cose si debbono fare da ciascuno, e ciò secondo le osservanze della propria terra, con purità e mondizia, e non trascuratamente nè in fretta, nè con soverchia strettezza nè sopra quello che comportano le facoltà.

Quando tu andrai per consultare qualche indovino, ricórdati che tu non sai per verità il come sia per succedere il fatto, e vai per chiederne all'indovino, ma ben sai da altro canto la qualità del successo, se tu sei filosofo; perocchè se esso è del numero di quelle cose che non dipendono dal nostro arbitrio, perciò solamente è manifesto che il medesimo non sarà nè bene nè male. Fa dunque, andando all'indovino, di non recar teco nè desiderio nè aversione, e non ti accostare a quello tremando, anzi risoluto che qual sia per essere il successo, è cosa, verso di te, indifferente e che non ti fa nulla, poichè in tutti i modi tu avrai facoltà di volgerlo in tuo profitto, e ciò non ti potrà essere vietato da chicchessia. Però con animo franco e sicuro va, come dire, a consigliarti cogli Dei: e fatto questo, avuto qualche consiglio, ricórdati che consigliatori sono stati i tuoi, e chi sono coloro ai quali tu mancherai di prestare orecchio se tu ti dipartirai dall'avviso che ti è stato porto. Egli si vuol poi, conforme ordinava Socrate, cercare il consiglio degl'indovini in quelle occorrenze nelle quali il bene o male deliberare si riferisce totalmente alla riuscita, e dove nè per ragione nè per alcuna arte si hanno espedienti da conoscere il partito che si debba prendere. Di modo che se egli ti si darà occasione di doverti porre a qualche pericolo per la patria o per un amico, tu non andrai per chiedere all'indovino se tu debba sottentrare a questo pericolo; perciocchè quando pure ti fosse detto dall'indovino i segni delle vittime essere di mala qualità, manifesto è che per questa cosa ti sarebbe significata o la morte o il troncamento o vero lo storpiamento di qualche parte del corpo, o forse l'esilio; ma ragione ti mostra che ancora con tutto questo egli si vorrebbe assistere all'amico e mettersi al pericolo per la patria; e per tanto tu obbedirai ad un maggiore indovino, io voglio dire ad Apollo Pizio, il quale scacciò dal tempio colui che era mancato di soccorso all'amico in quella che egli era messo a morte.

Stabilisci a te stesso, come a dire, un carattere e una figura la quale tu abbi a mantenere da quindi innanzi sì praticando teco stesso e sì comunicando colle persone.

Tacciasi il più del tempo, o dicasi quel tanto che la necessità richiede, con brevità. Solo qualche rara volta, confortandovici il tempo e il luogo, discendasi a favellare distesamente; ma non di cotali materie trite e ordinarie, non di gladiatori o di corse di cavalli, non di atleti, non di cibi nè di bevande, nè di sì fatti altri particolari di che si ode a favellar tutto il dì, e sopra ogni cosa, non di persona alcuna lodando o vituperando o facendo comparazioni.

Fa, se tu puoi, di raddirizzare e ridurre al convenevole i ragionamenti dei compagni. Se tu ti ritroverai solo tra persone aliene dalla filosofia, tienti senza far motto.

Poche risa, e non grandi, e non di molte materie.

Non prender mai giuramento, se tu potrai; se no, il più di rado che tu possa.

Schifa di trovarti a conviti di persone comunali e rimote dalla filosofia; e se ciò per alcuna occasione talvolta non si potrà schifare, ricorditi di star desto e attento più del consueto, che tu non trascorressi nei modi e costumi della comun gente. Imperocchè sappi che di necessità, se il compagno sarà lordo, e che tu gli praticherai dattorno, tu ti lorderai, ponghiamo che ora sii netto.

Le cose appartenenti al corpo, come dire il mangiare, il bere, il vestito, il tetto, la servitù, adoprinsi non più oltre che in quanto elle servono al puro uso. Tutto quel che è ad ostentazione o a delizia, taglisi via.

Innanzi alle nozze egli si vuole astenersi dai diletti carnali quanto si può, e usandogli pure alcuna volta, non si discostare in ciò dalle leggi. Ma tu non vorrai perciò riprendere e noiar con parole coloro che gli sogliono usare, e non istarai ad ogni poco a mettere in campo che tu non usi di così fatte voluttà.

Chi ti riportasse che il tale o il tal altro dicesse mal di te, non pigliare a scusarti e difenderti, ma rispondi che egli si vede bene che questi non ha contezza degli altri difetti che io ho, perocchè, sapendogli, ei non avrebbe tocco solamente questi.

A teatri non accade usar molto. Ma quando ti sarà nata occasione di trovarti in cotali luoghi, non dimostrar sollecitudine o pensiero di qualsivoglia altro che di te stesso, cioè non voler che avvenga se non quel medesimo che avverrà, nè che vinca altri che quegli a cui toccherà la vittoria; perocchè in tal modo non t'interverrà che il tuo desiderio abbia impedimento. Dal gridare, dal soverchio ridere sopra alcuna qual si sia persona o cosa, dal molto dimenarti e contorcerti, convienti astenere al tutto. E uscito che tu sarai di là, non andar troppo ragionando cogli altri dell'accaduto, se già non fosse di cose che potessero conferire a farti migliore. Perocchè tu faresti segno che lo spettacolo ti fosse oltre modo piaciuto.

Non andare alla udienza di certi dicitori, anzi schifa di trovarviti in ogni modo. Che se per ventura vi ti troverai, fa di serbare una contenenza grave e soda, e non però spiacevole nè superba.

Accadendoti di dover venire a qualche ragionamento o pratica con chicchessia, e specialmente con alcuno di quelli che sono reputati soprastare agli altri, proponti dinanzi agli occhi quello che avrebbe fatto in tale occorrenza o Socrate o Zenone; e tu non sei per mancare del modo di portarti convenientemente in ogni caso.

Andando a trovare alcuno dei potenti, mettiti nell'animo che tu non sei per trovarlo a casa, ch'egli si sarà serrato dentro, che non ti sarà voluto aprir l'uscio, che colui non ti darà mente. E se con tutto questo, per non mancar dell'officio tuo, ti conviene andare, pórtati in pace ogni cosa che t'intervenga, e non dir mai fra te stesso: egli non portava il pregio; che è un parlar da uomo ordinario e dato tutto quanto alle cose esterne.

Guarda bene nei cerchi e nelle compagnie, che tu non istéssi a far troppe parole intorno ad azioni fatte o a pericoli sostenuti da te medesimo. Perciocchè non siccome egli piace a ciascuno di raccontare i propri pericoli, così riesce dilettevole alle persone l'udir le avventure di chi favella.

Non istare anco a studiarti di muovere il riso; perchè ciò facendo, si porta pericolo di trascorrere ai modi e alla usanza dei più; oltre che di leggeri avverrebbe che i circostanti rimetterebbono più o manco della loro riverenza verso di te.

Egli è medesimamente pericoloso lo entrare in ragionamenti di cose oscene: e per tanto ove ciò intervenga, se egli ci avrà luogo, tu sgriderai quel tale che sarà entrato in così fatta materia; se no, col porti a stare in silenzio e collo arrossire e fare il viso brusco, tu darai ad intendere che quel cotal favellare ti spiaccia.

Se tu avrai concetta la immaginazione di alcuna voluttà, guarda che cotale impressione non ti trasporti, ma fa, per modo di dire, che la cosa aspetti, e impetra da te medesimo un poco d'indugio. Poi mettiti davanti agli occhi l'uno e l'altro tempo; quando tu ti godrai questa voluttà, e quando goduta che tu l'abbi, tu te ne pentirai e rampognerai teco medesimo; e a rincontro metti il piacere che sei per provare se tu te ne sarai astenuto, e le lodi che ne riceverai da te stesso. E se egli ti parrà tempo opportuno da venire a quel cotal fatto, poni cura di non lasciarti vincere da quella piacevolezza e da quelle lusinghe e da quel dolce della cosa, e metti a rincontro quanto ei ti saprà meglio se tu sarai consapevole a te medesimo di aver vinto tu questa così fatta vittoria.

Quando farai cosa che tu abbi considerato e giudicato di dover fare, non volerti nascondere che gli altri non ti veggano a farla, se bene il più delle persone fossero per interpretare il fatto sinistramente. Perciocchè o tu fai male, ed egli si vuole anzi fuggire il fatto medesimo; o fai bene, e che timore hai tu di quelli che ti riprenderanno a torto?

Siccome il dire: o egli è dì o vero è notte, quanto al senso disgiuntivo, afferma e ha gran forza, ma pigliato congiuntamente, tutto al contrario; per simile il prendersi la maggior porzione della vivanda, quanto al proprio corpo, sta bene ed è molto acconcio, ma quanto a quella comunione che vuolsi osservare nei conviti, sconviene e non è a proposito. Per tanto quando tu sarai a mangiare con qualche altro, ricórdati di non guardar solo a quella convenienza che avranno le vivande colla utilità e col piacere del tuo corpo, ma eziandio a quella che debbe osservarsi rispetto al convitatore.

Se tu prenderai a fare una persona da più che non comportano le tue forze, primieramente tu riuscirai con poco onore in questa figura, poi tu avrai lasciato indietro quella che avresti potuto sostenere compiutamente.

Siccome, andando per le vie, tu hai l'occhio a non calpestare un chiodo e a non ti storcere un piede, così abbi cura di non far pregiudizio alla parte principale di te medesimo. E se altrettanto osserveremo in ciascuno atto, noi faremo ogni cosa più sicuramente.

Misura dello avere si è a ciascheduno il proprio corpo, siccome della scarpa il piede. Per tanto se tu ti conterrai dentro ai termini di quel che è richiesto alla tua persona, tu serberai la misura, ma se tu gli passerai, di necessità da quell'ora innanzi andrai senza fine precipitando come per un dirupato. Non altrimenti che nella scarpa se tu passi più avanti di quello che si appartiene all'uso del piede, la scarpa ti diventa prima dorata, appresso di porpora, poi ricamata, gioiellata. Perocchè di là dalla misura non ci ha limite alcuno.

Le donne insino dalla età di quattordici anni incominciano a esser chiamate dagli uomini con titolo di signore. Sicchè vedendo che esse niun altro pregio hanno, ma solo sono pregiate rispetto all'usar cogli uomini carnalmente, dánnosi ad acconciarsi e ornarsi, e a riporre ogni loro speranza in cotale studio. Per tanto vuolsi por cura di far che elle si avveggano di non essere avute in pregio se non se in quanto si dimostrino costumate, vereconde e caste.

L'essere lungamente occupato dintorno ai servigi del corpo, come dire agli esercizi della persona, al mangiare, al bere, alle necessità naturali, alle carnalità, è segno di piccola indole. Queste cose si deono fare come per transito, e tutto lo studio si dee porre intorno alla mente.

Qualora alcuno o con parole o con fatti ti offende, sovvengati che egli opera o vero parla in quel cotal modo, stimando che di così fare o vero parlare gli appartenga e stia bene. Ora è di necessità che egli si governi, non conforme a quello che pare a te, ma secondo che pare a lui. Sicchè se a lui pare il falso, esso si ha il danno e non altri, cioè a dire, il danno è di colui che s'inganna. Pigliamo una verità di quelle che chiaman connesse: se uno la si crederà falsa, non la verità, ma questo tale, ingannandosi, porterà il danno. Per sì fatta guisa discorrendo, tu comporterai mansuetamente colui che ti oltraggerà; perocchè ogni volta tu hai da dire: così gli è paruto che convenisse.

Ogni cosa ha, per maniera di dire, due manichi: a pigliarla dall'uno, ella si sopporta, dall'altro no. Se il fratello ti farà ingiuria, non pigliar la cosa per modo che tu dica: egli mi fa ingiuria, perchè questo è quel manico dal quale se tu la prendi, ella non si porta; ma pigliala da quest'altra banda, e dì: mio fratello, nutrito e cresciuto meco insieme; e tu la piglierai da quel lato dal quale ella si può portare.

Queste cotali argomentazioni non reggono: io sono più ricco di te, dunque io sono da più di te; io più letterato di te, dunque io sono da più. Queste altre reggerebbero bene: io sono più ricco di te, dunque la mia roba è da più che la tua; io più letterato di te, dunque la mia dicitura val più che la tua. Ma tu non sei nè roba nè dicitura.

Uno si laverà in fretta. Non dire: ei si lava male, ma: egli si lava in fretta. Un altro berrà molto vino. Non dire: egli bee male, ma sì: egli bee molto vino. Perciocchè come puoi tu sapere se quelli fanno male, innanzi che tu abbi considerata e stabilita la opinione che tu piglierai? Per tal modo non t'interverrà di ricevere una impressione, e giudicare secondo un'altra.

Non darti mai titolo di filosofo, e tra gente comunale non volere, se non fosse alcune poche volte, entrare in ragionamenti di dottrina speculativa, ma in quella vece opera secondo cotal dottrina. A cagion di esempio, in un convito non istare a discorrere come si debba mangiare, ma sì bene mangia come si dee. Nè ti esca di mente che in sì fatto modo anche Socrate rimosse da se ogni ostentazione. Venivano a lui quando uno e quando un altro, chiedendo che ei li dovesse introdurre ora a questo ora a quel maestro di filosofia, ed esso menavagli dove volevano. Tanto ben sopportava di essere non curato e lasciato indietro.

Adunque, ponghiamo eziandio che tra uomini comunali il favellare cadesse per avventura sopra qualche articolo di materia speculativa, tu ti conterrai per lo più in silenzio. Perciocchè altrimenti tu correresti gran rischio di gittar fuori quello che tu non avessi anco smaltito. E quando alcuno ti dirà che tu non sai nulla, e tu per udir questo non ti sentirai pungere, allora sappi che tu cominci a far frutto. Vedi tu che le pecore non portano al pastore erba per dare a vedere la quantità ch'elle hanno mangiato, ma smaltita la pastura dentro, danno di fuori la lana e il latte? e tu similmente non isciorinare in sugli occhi dei non filosofi le dottrine speculative, ma da quelle ben digerite dentro, forma estrinsecamente e dimostra a coloro le operazioni.

Quando tu sarai perfetto quanto all'uso e al reggimento del corpo, non voler però pavoneggiarti e far mostra di questa cosa; e se tu berrai acqua, tu non dirai ad ogni occasione: io non beo che acqua. E se alcuna volta ti vorrai esercitare alla sofferenza per amor di te stesso e non delle cose estrinseche, tu non andrai ad abbracciare le statue, ma talora che tu arderai dalla sete, piglia una boccata d'acqua fresca e sputala, e di ciò non far motto.

Stato e contrassegno dell'uomo comune si è, nè beneficio nè danno aspettarsi mai da se stesso, ma sì dalle cose di fuori. Stato e contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilità o nocumento sperare o temere da se medesimo.

Segni che uno fa pro nella filosofia sono non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di se come di persona di qualche peso o che s'intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch'ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l'aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell'animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all'erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore.

Quando alcuno si vanterà o si terrà d'assai per sapere intendere o poter dichiarare i libri di Crisippo, dì teco stesso: se Crisippo non avesse scritto oscuro, costui non avrebbe di che gloriarsi. Ma che è poi veramente quel che io desidero? Intender la natura e seguirla. Cerco dunque chi sia quello che me la interpreti. E sentendo essere Crisippo, vo a lui. Ma non intendo il suo scrivere. Cerco dunque uno che me lo esponga. E fin qui non ci ha materia veruna di gloriarsi. Trovato lo spositore di Crisippo, resta che io metta in pratica gli ammaestramenti ch'io ricevo. E in ciò solo consiste quel che fa onore. Ma se io invaghirò della facoltà medesima della interpretazione, che altro mi verrà fatto se non che io diverrò un grammatico anzi che un filosofo? salvo che invece di Omero, chioserò Crisippo. Piuttosto dunque, se uno mi dirà: leggimi Crisippo, egli mi conviene arrossire, quando io non possa mostrare i fatti concordi e somiglievoli alle parole.

Ciascun proponimento che tu farai vuolsi osservare e mantenere come fosse una legge e un punto di religione. Che che poi si dica di te il mondo, non vi por mente, poichè questa parte non è in tuo potere.

In che tempo dunque ti riserbi tu ad aspirare ai maggiori beni dell'uomo, e ad osservare in che che sia la regola che distingue le cose nostre e le esterne? Tu hai pur avuto i documenti che erano da meditare e quasi da conversar con essi; tu gli hai meditati e usato con esso loro: che maestro aspetti tu anco, sotto la cui disciplina tu intenda di voler dare effetto alla riforma di te stesso? Tu non sei più mica un fanciullo, ma uomo fatto. Se tu ti starai così neghittoso e a bada senza pensare, accumulando ogni giorno indugi con indugi, moltiplicando in propositi, destinando ora un termine e fra poco un altro, in capo al quale incominciare ad attendere a te medesimo; tu non te ne avvedrai che senza aver fatto un progresso al mondo, sarai pur vissuto e morto uomo del volgo. Incomincia dunque insino da ora a studiar di vivere da uomo perfetto e che cresce in virtù; e tutto quello che ti parrà essere il migliore, siati in luogo di legge inviolabile. E come prima ti si farà incontro alcuna cosa dura e spiacevole o pur dilettosa e dolce, alcuna che porti seco la estimazione o la lode o vero il dispregio o il biasimo delle genti, fa ragione ch'egli sarà venuto il tempo dello aringo, e quella essere l'ora della solennità olimpica, e non ci aver luogo indugio; e che secondo che tu sarai per durare o vero per cedere in una battaglia, tu perderai o vero conserverai lo avanzamento tuo nel bene. Socrate in così fatta guisa diventò perfetto, a niente altro avendo riguardo in ciascheduna cosa che gl'incontrava, se non solamente alla ragione. Che se ben tu non sei per ancora un Socrate, tu déi però vivere come uno il quale desideri di esser tale.

Il primo e più necessario luogo nella filosofia si è quello delle proposizioni morali pratiche, come sarebbe, per modo di esempio, questa; che egli non si dee mentire. Il secondo è quello delle dimostrazioni; come, per esempio, provare con argomenti che non si dee mentire. Il terzo serve a confermazione e distinzione delle stesse cose, e trattavisi, ponghiamo, donde è che questa tale è dimostrazione, e che cosa è dimostrazione, che cosa sono conseguenza e repugnanza, verità e falsità. Di modo che il terzo luogo è necessario a rispetto del secondo, il secondo a rispetto del primo; ma il più necessario di tutti, e dove si dee restare, si è il primo. Ora noi facciamo al contrario; che noi soprastiamo nel terzo luogo, e in quello poniamo tutto lo studio e la industria; e del primo non abbiamo un pensiero al mondo. Sicchè avviene che egli si mente ogni dì, ma il come provar che egli non si dee mentire, questo si ha in sulle dita.

Abbiansi ad ogni occasione apparecchiate queste parole: menami o Giove, e con Giove tu o Destino, in quella qual si sia parte a che mi avete destinato; e io vi seguirò di buon cuore. Che se io non volessi, io mi renderei un tristo e un da poco, e niente meno a ogni modo vi seguirei.

Ancora: chiunque sa bene accomodarsi alla necessità, tiene appresso noi grado di saggio, ed esso ha il conoscimento delle cose divine.

Ancora in terzo luogo: o Critone, se così piace agli Dei, così sia. Anito e Melito mi possono bene uccidere ma non già offendere.