CAP. I

POLITICA E LINGUAGGIO:

SENTIERI DEL PRIMO PENSIERO FILOSOFICO

 

 

A) Nome e Cosa

1. Sostiene Platone: "Quello che la maggior parte degli uomini chiamano "pace" non è altro che un nome, ma nella realtà delle cose, per  forza di natura, c'è sempre una guerra non  dichiarata, di tutti gli Stati contro tutti" (LEGGI, I, 626a).

Ciò ci costringe fin da subito, in generale e ancor prima di approssimare il nostro tema, ad una distinzione tra "nome" e "cosa"; e, continuando, tra una "filosofia del nome" e una "filosofia della cosa". Ispezionato questo interstizio, potremo addentrarci a indagare la pace come nome e come cosa. Tenendo ben presente che, nello stesso testo platonico richiamato, la pace in quanto cosa appare  come guerra e, in quanto guerra, nome e cosa. Nella guerra, dunque, secondo questo passaggio, nome e cosa finalmente corrispondono. Il nome pace pronunciato dal discorso suona, perciò, falso. Ora, si tratta di vedere quanto la mistificazione sia il prodotto del nominalismo del logos e quanto, invece, ogni nome rechi celata  in  sé questa interna ambiguità. La risposta di  Platone è nota  e chiara: il linguaggio che nomina il nome lo  infetta, poiché il logos non può assolutamente corrispondere all'idea.

Se  quest'ultimo è il problema platonico, qual è l'idea  di pace?  Se, in Platone, non v'è coincidenza tra il nome di pace  e la cosa pace, con che cosa l'idea di pace può coincidere?  Qui  si radica il legame platonico tra l'idea di pace e di bene con  l'idea di 'politico' e "Stato ideale".

Per  ritornare al punto conclusivo del testo platonico  da cui siamo partiti, occorre, però regredire nel tempo e nella storia della filosofia e della cultura dei Greci. E, così, meglio afferrare i termini del problema.

2. Il primo salto epistemologico regressivo ci conduce alla polemologia eraclitea che definisce il primato di polemos in uno con la stoltezza dei più ritenuti dormienti, poiché in  discordia "col  logos che  governa tutte  le  cose"  (Frammento B72). Quest'ultimo, come noto, è per Eraclito il "logos xinos", il "discorso comune", che sovrasta nomi, uomini e cose: "la guerra  è comune e la giustizia è contesa e tutto accade secondo contesa  e necessità" (Frammento B80). Famosissimo è il seguente passaggio eracliteo: "polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela  come dei e gli altri come uomini, gli uni fa  schiavi e gli altri liberi" (Frammento B53). Polemos è la legge del mondo ed è legge divina, poiché fa  dèi  gli  dèi e uomini gli uomini. La città e  gli  uomini  si ispirano  alla legge di polemos: "Tutte le leggi umane infatti traggono alimento dall'unica legge divina: giacché essa domina tanto quanto vuole e basta per tutte le cose e ne avanza pure  di più" (Frammento 114). "Giustizia" e "armonia bellissima" attecchiscono su tensioni contrastanti. Dice Eraclito: "se non esistessero queste cose gli uomini non conoscerebbero il nome di Dike" (Frammento B60).

Polemos è nomos e logos. Ciò fa sì che al "nome" polemos effettivamente  corrisponda la  "cosa" polemos. Il  logos  nomina la cosa; ma, in quanto (anche) legge, polemos fa in modo che tra nome e cosa vi sia sempre corrispondenza. Un'idea di pace qui la rinveniamo sotto forma di giustizia: la pace è la giustizia che può scaturire di necessità solo da tensioni in collisione. Il logos corrisponde all'idea proprio come regola collisiva e risultanza  di contrasti. Perciò, polemos  è anche giustizia. Pure nel senso  che, attraverso il contrasto, riaggiusta le cose tra di loro: da  un grande  conflitto (può discendere) una grande armonia: "Congiungimento sono intero non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e  da tutte le cose l'uno e dall'altro tutte  le cose" (Frammento 10). Polemos e Dike sono qui due gemelli siamesi. O meglio: la filosofia eraclitea è questo Giano bifronte. Non si dà giustizia senza guerra, senza contrari. In ciò la superiorità armonica di polemos della filosofia a confronto del senso  comune e delle opinioni della maggioranza degli uomini.

Polemos interpreta e fa esprimere le stratificazioni più sotterranee della vita, dell'esistenza, della storia e della natura. Sa che solo sommovimenti profondi sono alla radice di  ogni vero e autentico sentire e agire. Mano a mano che si sale verso la superficie, si assesta  la  quiete  ingannevole della stasi, dell'uniforme e dell'immobile. Nomos e logos, nel governo di polemos, scavano sotto la  crosta del nome. È una lingua delle interiorità quella che trova  la corrispondenza profonda tra nome e cose. Polemos sa che in superficie tale corrispondenza non può sussistere: risalendo fino a essa, ogni cosa si è irreparabilmente separata dal suo nome. Sopra, alla superficie, non resta che interpretare questo distacco estremo. Le persone comuni e  l'opinione, addirittura, non sono consapevoli del distacco, interpretano e considerano ancora che al nome veramente corrisponda la cosa nominata. Ma nomi e cose  si sono separati.

L'ermeneutica nasce anche da questa separazione: non per interpretarla semplicemente, ma per non perdere al senso, alla  significazione e alla vita i termini che si sono  irrecuperabilmente separati. Si può, perciò, transitare per Eraclito; ma non ci si  può fermare a lui. Non  tutto si esaurisce nell'ermeneutica, nel senso, nell'immagine e nel mito di polemos.

3. Regrediamo ulteriormente, fino al detto di Anassimandro: le "parole prime" che ci sono pervenute della filosofia  occidentale. Anassimandro, come è noto, collega la sua "tavola genealogico-geografica" a una  costruzione razionale: cosmos. Quest'ultimo vale come "ordine del tutto" e in esso ogni  cosa  è unita e distinta. Ogni cosa che rientra nella tavola riordinatrice si oppone all'altra, nell'altra trovando il suo limite (péras). Anzi: ogni elemento è il limite dell'altro. Ciò indica che v'è un illimitato rinvio a qualche cosa d'altro, non  essendo  concepibile che  cose ed elementi siano senza limite. Lo spazio della  navigazione  degli opposti e degli uniti è, perciò, senza  limiti. Qui sta l'indefinito, l'àpeiron, di Anassimandro. Un indefinito, un  illimite, che non vieta di rinvenire i precisi contorni di ogni cosa e ogni elemento, contenendoli tutti. Principio (arché) di  ogni cosa è l'illimitato, l'àpeiron. Da qui nasce e viene ogni  cosa. Dice Anassimandro: "da  dove viene la vita degli esseri, là anche  si compie, secondo una legge necessaria, poiché tutti debbono pagare reciprocamente il fio e l'ingiustizia nell'ordine del  tempo" (Frammento B1). La conflittualità e la concordia pensate da Anassimandro sono conflittualità e concordia dell'àpeiron, di  ordine cosmico sia in relazione allo spazio che tempo.

Se l'illimitato è il principio, illimitati sono i nomi e le cose. Illimitata è la gamma delle unioni, dei conflitti e dei  limiti. È soltanto in un ordine cosmico che l'armonia subentra e "pacifica" i contrari. L'ordine del tempo è un esecutore testamentario del giudizio: nella successione e nel divenire del  tempo, ingiustizia  e concordia si raccordano, collidono e riscoprono un senso. In quanto riconducibile all'àpeiron, la pace è un illimite. Ma poiché è dentro l'àpeiron, è fortemente limitata: c'è il suo  opposto — la guerra — che la contrasta, opprime e anche  rinserra in uno spazio circoscritto.

Ma l'àpeiron è principio anche perché la pace paga il "fio" e "l'ingiustizia" alla guerra; esattamente come la guerra paga alla pace lo stesso scotto. Più che compensarsi e neutralizzarsi, qui pace e guerra si compenetrano: ognuna sta sul limite dell'altra. La rotta sul limite è qui navigazione al limite, tra pace e guerra.

La navigazione della politica è una di queste rotte: tra il "nome" e le "cose" della guerra e della pace. Tutto ciò che si genera è contenuto nell'àpeiron, che non ha bisogno di rigenerarsi. È, dunque, in quest'alveo contenuta la stessa generazione di pace e guerra. Il  carico corruttore della generazione  non  può toccare l'incorruttibilità dell'àpeiron. In quanto  principio, l'àpeiron non ha bisogno di generarsi e, quindi, non diviene e non si  trasforma. L'illimitato, proprio  in quanto illimitato, non ha  bisogno di mutare: è immutabile ed esiste sempre. La sua immutabilità è onnipresente: è la fonte delle mutazioni, delle opposizioni e delle unioni tra nome e cosa, tra pace e guerra. La pace tenta di valicare il limite dell'àpeiron, rendendosi protagonista di un'infrazione dell'ordine cosmico, recando ingiustizia alla guerra. Così, la guerra nei riguardi della pace. Nel doppio vortice di  queste infrazioni  l'ingiustizia aumenta. Ma  l'ingiustizia  è propria dell'ordine del tempo. Niente come e più del tempo  diviene e genera ogni altra cosa in termini di distruzioni e infrazioni. Proprio dell'atto del distruggere ogni altra cosa ogni cosa deve pagare il "fio" e "rendere giustizia". Ogni cosa è tenuta e portata  a rispondere del vizio che apporta e  dell'ordine  consolidato che infrange.

La politica può qui restaurare cosmos? Se la separazione  di tutte  le cose, ineliminabile e necessaria, si mantiene  pur  sempre all'interno di cosmos, non potendo eccedere l'illimitato, può la politica pensarsi e collocarsi come arché? come ordine cosmico, illimitato come l'àpeiron? Quello dell'àpeiron è un ordine universale. Nell'universo e nell'universalità della politica, può il particolare ritrovare e scoprire il proprio senso e la propria  identità di particolare? Se la politica è stata originariamente pensata ed appare come supremo intreccio e governo di universale  e particolare? Ecco  le domande che  possiamo  cominciare  a formulare; domande che costituiscono gli assi intorno cui  ruotano tutti i capitoli successivi.

B) Mito e Filosofia

1.  Risospingiamoci ancora più indietro. Come  si sa, anteriore alla  nascita della filosofia è il tentativo di  interpretare e spiegare la realtà con il ricorso alle "narrazioni". E mito vuole propriamente dire "narrazione". Il  mito, dunque, precede la filosofia. Osserva A. Lesky: "Sappiamo che la formulazione del  mito greco ebbe inizio nell'età micenea. Ma non si dovrà sottovalutare  la parte che vi ebbe il periodo successivo. Nel mito  degli elleni  si concentrarono i raggi da cui fu formata quella presentazione del mondo, immensamente ricca, che determinò per gran parte la filosofia greca, tanto nei suoi contenuti che nella disposizione spirituale. Avevano torto quanti hanno cercato di spiegare l'evoluzione di questi miti riconducendoli tutti a una sola radice... Anche il mito greco, come il popolo greco in quanto tale, è il prodotto di elementi indoeuropei e mediterranei. Basta  osservare che  il gran numero di dèi ed eroi porta nomi greci per  avere larga  idea dei problemi qui accennati. I quali si complicano  in quanto dobbiamo tener conto anche di una terza componente, ossia dell'influenza delle antiche civiltà orientali. Essa va tenuta presente  soprattutto per il periodo in cui, dopo il crollo della  potenza cretese (1400) e poi di quella micenea (1200), i fenici dominavano il commercio e agivano da capaci intermediari".

Si  è soliti considerare che la filosofia si sia staccata  dal mito, allorché, con  Talete, si  è chiesta: "di che cosa è fatto  il mondo?". Questo è ciò che ci è stato tramandato. Non è da escludere che  la filosofia sia cominciata prima di Talete. Ma  qui importa rilevare che si  è concepito il distacco  della filosofia dal mito, concependo la filosofia come "interrogazione razionale" sulla vita  e sul mondo. Filosofia e razionalità si  ergono, dunque, al  di sopra del  mito. La domanda di Talete esprime  questa rottura, per così dire, di paradigma: dal paradigma del mito al paradigma della filosofia. Afferma  F. Kitto: "La cosa importante che fece Talete  fu la formulazione  di  una  domanda  semplice  e  di una risposta errata. La  domanda era: di che cosa è fatto il mondo?  La risposta era la seguente: di acqua".

La filosofia interroga "razionalmente" e fornisce "risposte razionali" intorno alla vita e al mondo. Diversamente dal mito, non interpreta. Il mito è narrazione, proprio perché ha una natura  interpretante; si potrebbe dire: ermeneutica. I miti, dice ancora  Kitto: "In generale erano semplici interpretazioni delle cose, il  particolare colore e la particolare vita di ciascuna, elementi  senza i  quali i greci non avrebbero potuto accettarle. Non erano  perciò anche delle semplici spiegazioni. Vi era una enorme quantità di pratiche religiose e di tradizioni vagamente ricordate che chiedevano una spiegazione. Il vero era stato dimenticato, lasciando il posto all'immaginazione".

La narrazione mitologica ha una sua circolarità: proiezione dal reale all'immaginario e ritorno dell'immaginario al reale. Sul piano ermeneutico, la circolarità è perfetta. Reale e  immaginario si rimandano e spiegano a vicenda, restando fermamente separati. Ognuno  consente  di ritrovare l'altro che, da solo, si è perduto  e confuso, smarrendo il proprio senso e la propria identità.

Più in generale ancora, il senso del mito e la sua natura  interpretante sono il tentativo di risalire all'origine di ogni cosa. Se  la filosofia si  interroga sulle forme del  mondo  e  della vita, il  mito si  interroga intorno  alle  origini: interpreta  le cose, per  risalire alle origini. E risale  alle origini degli uomini, delle cose e, perfino, degli dèi.

Se  in principio era il caos, come dal caos ha preso  principio l'ordine?  E  come  l'ordine  non ha alimentato,  una  volta  per tutte, il caos? Così il mito delle origini è anche il mito della nascita e del tempo.

Il caos era l'"enorme vuoto". Fuori di questo principio c'era la terra. La terra era la "vera madre" di tutte le cose: dèi compresi. La terra generò Urano (il Cielo). Terra e cielo uniti generarono la notte, il giorno e le forze fisiche e psichiche sotto le sembianze di esseri mostruosi. Urano fu abbattuto e incatenato da  uno dei  suoi figli, Cronos. Eguale sorte tocca a Cronos: fu abbattuto e tenuto prigioniero nel più profondo dell'Averno da un figlio, Zeus.

Ogni passaggio da un ordine all'altro è intromissione  del caos: il  Figlio abbatte il Padre che pure era la sua  origine. Con Zeus questo ciclo si interrompe: egli diventa l'origine che  resta, poiché nessun figlio lo abbatterà mai. L'origine diventa, quindi, ordine morale e politico, duraturo e stabile. Si può ora, veramente dire: in principio era il caos; adesso è l'ordine di Zeus il nuovo principio originario e sovraordinatorio. Prima l'ordine  era interno  al principio originario del caos; ora è il caos ad  essere interno al principio originario dell'ordine. Origine, ordine e caos diventano tra i temi più ricorrenti della narrazione  mitologica.

Così li trova la filosofia che non fa altro che  "razionalizzare" la narrazione.

Lo stacco più perspicuo che la filosofia genera rispetto al mito risiede nella circostanza che essa collega le domande non solo in confronto all'origine, ma anche in proiezione verso il  fine, sviluppo necessario e possibile dell'origine; verso il cammino che nel corso del tempo assoggetta le origini e descrive una  trasformazione  del reale, della storia e del vivente. Le leggi di  necessità dell'origine si affiancano alle leggi di necessità della trasformazione e della costruzione logico-razionale della vita  e del mondo.

2. La filosofia greca, nascendo, apre uno spazio, che  rimane a tutt'oggi aperto, nella cultura, nelle istituzioni, nei  costumi, negli stili di vita, nell'immaginario individuale e collettivo, nei comportamenti delle masse. Lo spazio filosofico, a sua volta, si regge su ciò che mito e poesia avevano già aperto. Anzi, per molti versi, il mito e la poesia rivestono un carattere più spiccatamente aperturistico in confronto alla filosofia.

Diversamente da quello filosofico — e qui sta la differenza specifica —, l'aperturismo del mito non ha il carattere della  certezza, dell'incontrovertibilià e della inconfutabilità. La filosofia  nasce come sinonimo di logos (ragione), alétheia  (verità) ed episteme (scienza). In principio, è tutto questo nello stesso  tempo. In quanto scienza e ragione, è interrogazione che  fornisce  le risposte vere. È domanda intorno alla verità di ogni cosa. Qui  si scinde ancora di più dal mito, il quale semplicemente  è interpretazione e/o  favola della vita e del mondo. Qui  la filosofia  si stacca  irrimediabilmente dal mito e si congiunge carnalmente con la scienza. Soltanto qualche millennio successivo la  scienza  si staccherà compiutamente e definitivamente dalla filosofia, con Bacone, Copernico e Galilei.

Su un piano strettamente concettuale: quale il significato della critica filosofica al mito? E ancora: quale il significato della critica scientifica alla filosofia?

Non  pare lecito qualificare e interpretare la  critica  della filosofia al mito come critica filosofica della società basata sul mito. Parimenti, illegittimo sembra configurare la critica  della scienza alla filosofia nei termini della critica scientifica della società basata sulla filosofia. Risulta oltremodo complicato e aleatorio inquadrare filosofia e scienza come critica della  società. È qui, p. es., che mostra la sua labilità gnoseologica ed epistemologica l'XI Tesi di Marx su Feuerbach. Il piano gnoseologico ed epistemologico prevede che l'esercizio della critica  sociale abbia alle sue spalle una distinzione tra politica, da un lato, e filosofia e scienza, dall'altro: prevede una critica  politica del 'politico', della società e delle forme del  potere. Rispettando e sviluppando questa autonomia, diviene urgente e possibile  conferire un fondamento epistemologico, filosofico e scientifico  alla critica politica della società.

La filosofia, in quanto tale, inquadra le ragioni della pace  e della  guerra, l'osmosi e il nesso di alterità che le  regola. Ma  è una filosofia politica, non già la filosofia tout court, quella che costruisce le ragioni della pace e della guerra e che delimita  il rientro  dalle "vie della guerra" alle "vie della  pace" intorno all'idea  di bene. Questo tragitto è per la prima  volta  percorso nel cammino che va da Socrate a Platone fino ad Aristotele.

Ma,  ora, lo sviluppo della divaricazione tra mito e  filosofia riconduce a una rivalutazione dell'ermeneutica del mito,  accantonata dal discorso filosofico. Interpretare, risalire alle origini è altrettanto importante quanto ricercare la verità oltre  il  velo del mito; se non ancora di più. L'ermeneutica conserva la consapevolezza del distacco intervenuto tra nome e cosa. Il  mito  esprime questa consapevolezza e la rappresenta in mille forme cangianti. La filosofia, con la sua richiesta di assoluto e con la sua fame  onnivora  di verità e certezze assolute, è continuamente sospesa  sul punto  di perdere tale consapevolezza. Anche su un  altro  cruciale punto forme e figure del mito richiedono un recupero: il loro carattere di pluralità si oppone alla stabilità e all'univocità del logos filosofico. D'altro canto, il logos della filosofia è inabissamento ed elevazione al rigore e costituisce, perciò, una conquista irrinunciabile. Per la filosofia, rigore e verità hanno un carattere di certezza e di trasparenza e, in questo senso, una natura pubblica. È in contrasto con la saggezza pluralistica e privatistica riposante nel mito che è nata e si è sviluppata la filosofia. È nota l'indicazione eraclitea di "seguire il  comune". Ma, osserva ancora, Eraclito: "Pur essendo comune il logos, i molti  vivono come se avessero una loro saggezza privata". La saggezza privata è una pluralità di saggezze, così come plurali sono i miti. Sul "privato" la filosofia fa prevalere il "comune", la "verità pubblica" e le sue certezze rigorose e indiscutibili. Lo scioglimento del nodo vero/falso si dipana attorno al tema del "certo", del "rigoroso"  sul piano pubblico e scientifico. Il logos filosofico è (anche) verità scientifica e saggezza pubblica. Prevalgono criteri  di validazione rigorosi, certi e trasparenti che vengono posti come puntello forte e inattaccabile degli orientamenti e delle  scelte sociali.  La filosofia è qui, ad un tempo, saggezza che  ispira  il "pubblico agire" e sistema di riferimento dei "valori pubblici". In entrambi i casi, sostituisce il carattere privatistico, incerto  e pluralistico del mito. Si può ribadire che uno degli atti fondativi della filosofia sia stato il "fondamento dell'Uno", dell'unità originaria  da cui tutto discende e a cui tutto  deve  conformarsi, nella suprema e sublime chiarezza dell'essere. La metafisica  nasce, dunque, con la nascita della filosofia greca. Il logos filosofico è discorso sull'Uno e sul Tutto, anche quando, da Talete a Empedocle, sembra fornire risposte meramente "fisiche" e  "naturalisti-che".

Ma, ora, la politica è tra le più accese forme di "valorizzazione pubblica" e di riconduzione nella sfera "pubblica" delle  passioni e dei sentimenti del "privato". In un certo senso, sta sospesa tra la forma del mito e la forma del logos filosofico. Essa  stessa costruisce un immaginario collettivo e un sistema di regole erette  in relazione al governo pubblico dell'esistente sociale. Se il logos filosofico ricerca la verità e la scienza, il logos politico è alla ricerca dell'armonia e della pace, innervandole sulla disarmonia e sulla guerra. Più che impedire disordine e guerra, qui  la politica si propone di correggere il vizio dall'esplosione del vizio. Recupera in una dimensione esistenziale pubblica, certa e  saggia, un comune sentire e un comune agire in vista della costruzione della "società virtuosa". Fin dal principio, il logos politico  reca in sé il seme dell'utopia.

3. Che avviene di tutto questo di fronte  all'irruzione  di Parmenide nella scena del discorso filosofico?

Come si sa, con Parmenide la frattura tra "verità" e "opinione" si fa netta e incolmabile. È il "discorso scientifico" la condanna  più radicale del "discorso di opinione". Ma, per Parmenide, il "discorso scientifico" è "discorso dell'essere" e intorno all'essere. Se scienza e opinione si separano, il pensiero che pensa l'essere è pensiero inestricabilmente e ineliminabilmente  avvinto all'essere. Assurge alle vette del pensare soltanto il pensiero dell'essere. Pensare l'essere è filosofia. Altrimenti detto: filosofare è pensare l'essere. Il pensiero dell'essere pensa  l'essere come immutabile e come origine di tutto ciò che è. Niente è fuori dall'essere. Fuori dall'essere ogni cosa, semplicemente e rigorosamente, non è. Ogni ente, qualunque esso sia, non può contemporaneamente essere e non essere. Soltanto l'opinione ingannevole dei più "pensa"  il non essere. Nel  "Poema  sulla Natura ", Parmenide chiama costoro "uomini dalla doppia testa"; e doppi, poiché contraddittoriamente affermano che "l'essere non è". Diversa è la via  che mostra la Dea della "rotonda verità": l'essere è puro e il non  essere non può contaminarlo. Una cosa è oppure non è; se non è, non  è possibile pensarla. Dice Parmenide: "non si può né dire né pensare ciò che non è". L'essere è "essere solo" ed "essere Uno". L'"essere Uno"  è anche "essere  tutto". Non è declinabile. Non ha generazione. Non si corrompe. Non diviene. Osserva Parmenide: "l'essere è tutto  pieno  di  essere  com'è". Pensare l'essere è possibile, perché pensiero ed essere sono il medesimo. Se solo l'essere è pensabile, solo il pensiero può afferrare l'essere: è  l'essere. Individuando e afferrando i caratteri dell'essere, il pensiero  si autoindividua e autoafferma. Il pensiero dell'essere  è il pensiero  che pensa se stesso. Non i nomi delle cose, ma le  cose; o meglio: gli enti. E non a partire da cose ed enti, ma da se stesso. I nomi sono ingannevoli: troppo imparentati con le opinioni ed esposti alle cadute nei contrari che si negano reciprocamente. La verità è del pensiero, perché del pensiero è l'afferramento dell'essere.

Ma disponiamoci a sentire Parmenide direttamente.

"... Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa,/sia  l'animo inconcusso  della ben rotonda Verità…/sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità./Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze/bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi indaghi" (Frammento 1).

Ancora: "Perché mai questo può venire imposto, che le cose che non sono siano:/ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero" (Frammento 7).

Infine: "Né l'abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa  lungo questa via/a usare l'occhio che non vede e  l'udito che rimbomba di suoni illusori/e la lingua, ma che giudica col raziocinio la pugnace disamina/che io ti espongo. Non  resta ormai che pronunciarsi sulla via/che dice che è. Lungo questa sono indizi/in gran Numero. Essendo ingenerato è anche imperituro,/ tutt'intero, unico immobile e senza fine./Non mai era né sarà, perché è ora tutt'insieme,/uno, continuo. Difatti   quale origine gli vuoi cercare?/come  e donde il suo nascere? Dal non-essere non ti permetterò  né/ciò che non è. E quand'anche, quale necessità può aver spinto/lui, che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima?/Di modo che  è  necessario  o  che  sia  del tutto  o  che  non  sia  per nulla./Giammai poi la forza della convinzione verace concederà che dall'essere/alcunché altro da lui nasca. Perciò né nascere/né perire gli  ha permesso la giustizia disciogliendo i legami,/ma  lo  tien fermo. La cosa va giudicata in questi termini;/è o non è. Si è giudicato dunque, come di necessità,/di lasciare andar via una delle due vie come impensabile e inesprimibile (infatti non è/la via vera)  e che l'altra invece esiste ed è la via  del  reale./L'Essere come  potrebbe esistere nel futuro? In che modo mai sarebbe venuto all'esistenza?/Se fosse venuto all'esistenza non è neppure se  è per  essere nel futuro./In tal modo il nascere è spento e non c'è traccia del perire./Neppure è divisibile, perché è tutto quanto eguale./Né  vi é un di meno, ma è tutto pieno di essere./Per cui è tutto contiguo: difatti l'essere è a contatto con l'essere./Ma è immobile  nel  limite di possenti legami/sta senza  conoscere  né principio né fine, dal momento che nascere e perire/sono stati risospinti ben lungi e li ha scacciati la convinzione verace./E rimanendo identico nell'identico stato, sta in se stesso/e così rimane lì immobile; infatti la dominatrice Necessità/lo tiene  nelle strettoie del limite che tutt'intorno lo cinge;/perché bisogna che l'essere non sia incompiuto:/è infatti non manchevole: se lo fosse mancherebbe di tutto./ È la stessa cosa pensare e pensare che  è: perché senza l'essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare: null'altro infatti è o sarà/ eccetto l'essere, appunto perché  la Moira  lo forza/ad essere tutto intiero e immobile. Perciò saranno tutte soltanto parole,/quanto i mortali hanno stabilito,  convinto che fosse vero:/nascere e perire, essere e non essere,  cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore./Ma poiché vi è un limite estremo, è compiuto/da ogni lato, simile alla massa di ben rotonda sfera/di uguale forza da centro in tutte le direzioni;/che egli infatti non sia né un po' più grande né un po' più debole qui o là è necessario./Né infatti è possibile un non essere che gli impedisca di congiungersi/al suo simile, né c'è la possibilità che  l'essere sia dell'essere/ qui più là  meno, perché è del tutto inviolabile./Dal momento che è per ogni lato uguale, preme  ugualmente nei limiti./Con ciò interrompo il mio discorso degno di fede  e i miei pensieri/intorno alla verità; da questo punto le  opinioni dei mortali impara/a conoscere, ascoltando l'ingannevole  andamento  delle mie parole./Perché i mortali furono del  parere  di nominare due forme, una delle quali non dovevano — e in questo  sono andati errati —; ne contrapposero gli aspetti e vi applicarono note/reciprocamente distinte: da un  lato  il  fuoco  etereo  che   è dolce, leggerissimo, del tutto identico a se stesso,/ma non identico all'altro, e inoltre anche l'altro lo posero per sé/con  caratteristiche opposte, cioè la notte senza luce, di aspetto denso e  pesante./Quest'ordinamento cosmico, apparente come esso è, io te lo espongo compiutamente,/cosicché non  mai assolutamente qualche opinione dei mortali potrà superarli" (Frammento 8).

La politica qui può essere pensata unicamente oltre il mito e la mendace opinione: come "organizzazione assoluta" del bene. E l'"organizzazione del bene" appare qui come verità incorrotta  e incorruttibile, indivisa e indivisibile. Verità e bene accedono a una dimensione assoluta e assolutamente pubblica. La  politica, pertanto, non può che trovare nel pensiero filosofico la sua  fonte, il suo principio ispiratore. Questo motivo lo  reperiamo ampiamente sviluppato in Platone; ma indubbia pare la sua origine presocratica e, più ancora, parmenidea in senso stretto.

C) Verità e metodo

1. Il criterio della verità della filosofia è messo in discussione dai Sofisti, con i quali si afferma la critica della filosofia dall'interno della filosofia. Il transito che consente l'accesso a questo luogo è rappresentato dall'individuazione della relazione di alterità tra (i) i "fenomeni", le cose che sono così e come si manifestano nella loro esperienza e  (ii)  la "ragione". Tra "criterio fenomenico" e "criterio filosofico-razionale" si incunea uno  iato profondo: con l'atomismo di Leucippo e Democrito  diviene il  tema del filosofare medesimo. Con ciò la filosofia principia a filosofare  intorno al non essere, infrangendo il divieto parmenideo. La verità dell'esperienza confuta la verità del logos; e  viceversa. Intorno alla verità dell'esperienza fioriscono le tecniche e i metodi. La ricerca  della verità diviene  una  "questione  di metodo"; e  metodo applicato all'esperienza, non soltanto  concepito come proiezione razionale del logos. Su questo piano, ancora  prima degli Atomisti e dei Sofisti, interessante è la riflessione che  Anassagora matura ad Atene intorno alla metà V secolo nel pieno del "periodo aureo" di Pericle, di cui fu amico.

Sostiene Anassagora: "Per la debolezza dei sensi non siamo  capaci di discernere il vero: ma possiamo valerci della esperienza, della memoria e della techne nostre proprie; poiché ciò che appare è un fenomeno che non si vede con gli occhi". I  nostri sensi sono deboli. Ragion per cui non siamo capaci di  elevarci, attraverso di loro, al discernimento della  verità. Esperienza, memoria e techne suppliscono alla connaturata debolezza dei nostri sensi, costituendo gli elementi base che modellano  la  struttura dell'intelligenza. È, dunque, l'intelligenza che supplisce alla debolezza dei sensi. Tale supplenza ci proietta verso il vero, attraverso una vera e propria organizzazione metodica e metodologica dei dati dell'esperienza, fissati nella memoria, sceverati e  interpretati dalle tecniche. È l'intelletto, il nous, che discerne nella mescolanza dei dati e  dei fenomeni, in quanto esterno e anteriore alla mescolanza. Il nous è principio ordinatore, causa del movimento e della  aggregazione dei corpi: è "anima" e "vita" dei fenomeni e delle  idee. Ricondotta al nous ogni cosa diventa intelligibile e accessibile, senza il  bisogno di ricorrere ad alcuna esteriorità mitologica o razionale che sia. La ricerca del vero avviene per ipotesi basate sull'esperienza, ma  interne e riconducibili all'intelletto. Il nous "ragiona" e riflette sui fenomeni esperiti ed esperibili, strappa il mantello mitologico alla natura e, in questo senso, la sconsacra. La connessione dell'ipotesi intellettiva all'esperienza è, prima di tutto, insistenza dell'intelletto su se stesso che, così, laicizza il ragionamento filosofico e prolunga l'anima razionale del filosofare verso l'ottimizzazione metodologica dell'esperienza. Migliorare le capacità e le tecniche di  esperienza, da cui ricavare ipotesi di verità sempre più nobili  e razionali, è un impegno precipuo del nous. Il  nous diffida del logos e supremamente contesta il posto da esso occupato nella filosofia.

Quanto la critica di Anassagora alla razionalità (e, perciò, al quadro delle certezze e dei valori dominanti) fosse  culturalmente e politicamente rivoluzionaria, ben presto, lo scoprono i conservatori di Atene. Costoro, nel 432, riescono a promuovergli contro  un processo per "empietà", conclusosi con una sentenza di condanna che costringe Anassagora a fuggire da Atene.

D) Tecnica e Utile, Parola e Dominio

1. L'appello di Anassagora al nous coglie l'impossibilità propria del logos di afferrare la struttura della realtà e di pervenire, così, alla verità. Che è come dire che un sapere vero e certo non esiste e non è possibile, poiché una verità certa e  vera  non esiste. E non esiste in relazione all'essenza dei fenomeni. Ciò libera il metodo e le tecniche e fioriscono tecnici e  scienziati, in tutte le discipline e in  tutti i cam-pi della vita. Da qui, inoltre, l'emancipazione della parola e del dialogo per la costruzione più alta e nobile possibile: la città degli uomini. I Sofisti nascono intorno alla necessità di questa emancipazione: essi sono, letteralmente, gli "uomini che sanno".

Nello stesso periodo Sofocle, in un celeberrimo verso dell'Antigone (rappresentata in Atene nel 441), afferma: "Molte sono le cose meravigliose, ma nessuna è più meravigliosa dell'uomo". Per i Sofisti, la relazione fondamentale nel rapporto tra gli uomini è la parola. L'uomo, in quanto uomo, è rapporto; vale a dire: dialogo. Ma l'uomo, in quanto rapporto e dialogo, più propriamente ancora, è politico. Politica è, dunque: rapporto, dialogo. Gorgia è trasparentemente chiaro: "Gran dominatrice è la parola che con piccolissimo corpo e invisibilissimo riesce a compiere divinissime cose".

Il Protagora di Platone è ancora più trasparente: "Sì, riconosco di essere sofista e di educare gli uomini... L'oggetto del mio insegnamento consiste nel sapersi condurre con senno, tanto nelle faccende domestiche... che nelle faccende pubbliche, sì da essere perfettamente capace di trattare e discutere le cose  della città".

Commenterà Plutarco, molti secoli dopo: "Coloro che professarono quella cosiddetta sapienza che in effetti è abilità politica ed efficace intelligenza pratica... e l'unirono con l'arte dell'eloquenza giudiziale e trasferirono il loro esercizio dall'azione ai discorsi, furono chiamati "sofisti"".

La natura dialogica e intersoggettiva dell'uomo è natura politica. È la natura politica dell'uomo che spinge a ricercare l'utile, più ancora che la verità. Il primo è politicamente  perseguibile; la seconda è preclusa tanto al piano  filosofico  che  a quello scientifico. Costituzione della "città degli uomini" ed "educazione degli uomini" ruotano attorno all'imperativo  politico dell'utile pubblico e della virtù privata. Il sapere dei maestri si mette al servizio dell'edificazione della città, dei suoi uomini e delle sue istituzioni, trovando nell'Atene di Pericle un fecondo laboratorio.

Commenta Sesto Empirico: "Secondo Protagora l'uomo costituisce il criterio degli enti. Infatti tutte le cose che si rivelano agli uomini anche esistono; quelle cose, invece, che non si rivelano a nessuno degli uomini, neppure esistono".

Ma Protagora, a dire il vero, era stato ancora più preciso. In un passaggio di un frammento del suo scritto "La Verità" troviamo affermato: "L'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono". L'uomo, dunque, è assunto come misura della verità e dell'esistenza di tutte le cose. È questo un criterio sommamente  politico e sommamente antropologico. Ed è, appunto, una "antropologia politica" quella che fonda il predominio dell'uomo nella "città dell'uomo". Quella dialogicità e interrelazionalità della tecnica che ricorre all'illimitata possibilità del linguaggio e della parola di comunicare e di educare, al suo interno, reca un  ineliminabile risvolto di dominio: il dominio del sapere orientato politicamente. Linguaggio, parola e dialettica fanno violenza a tutto il resto, in ragione del perseguimento del fine politico: l'utile. La parola predispone e prepara non esclusivamente la  "società nuova" e ad essa educa gli uomini; essa plasma e costruisce i nuovi e futuri sovrani: le scuole dei Sofisti preparano i futuri "signori" e "padroni" della città. Come e più di ogni altro maestro e artefice, i Sofisti pretendono un compenso economico. Educano alla sublime arte del potere; vanno, perciò, supremamente ricompensati.

2. Ritornando al piano filosofico. Il dialogo e la dialogicità presuppongono la duplicità del discorso: "due logoi" (dissoi logoi). Di contro al logos Protagora erge le antilogie, in  virtù delle quali non esiste un logos che non sia contrastato e avversato da un altro logos. Dalla confutazione promana il vero, il quale risulta dal confronto serrato, dal convincimento e dalla  persuasione. La ragione e la verità non stanno nel logos, ma nel confronto, nel ragionamento che si istituisce tra gli opposti. È la discussione che seleziona e sceglie il vero. Le antilogie rendono possibile il ragionare per confronto (dialeghestai) intorno agli opposti e, con ciò, aprono alla dialettica.

La  dialettica  organizza l'utile in conformità di questa  o quella idea di utilità, di questa o quell'aggregazione di uomini, di questa o quella situazione esistenziale e  politico-sociale. Essa ha un'estrema mobilità. Varia col variare delle idee  di utilità degli aggregati umani e delle situazioni politico-esistenziali e storico-temporali. Sul piano gnoseologico ed  epistemologico, niente ha un valore meno universale della dialettica e niente  è più mobile di essa. Sul piano dell'effettualità e della politicità, niente è più onnipresente e onnivoro di essa. La dialettica è metodo, tecnica: presiede a ogni sistema di fini, a ogni situazione e a ogni costruzione istituzionale. Ed è metodo e tecnica caratterizzata da un interventismo esponenzialmente crescente. Lo statuto interno della dialettica si complessifica e differenzia. Alla brachilogia, la tecnica delle domande e delle risposte brevi, si accompagna la macrologia, il discorso oratorio e la conferenza strutturati con compiutezza organica, in ordine a ogni argomento specifico e a ogni situazione particolare.

Significativamente, nel "Teeteto", Platone fa dire a Protagora: "Nell'educazione si deve trasformare un tipo di abito in un altro migliore: il medico trasforma con la medicina, il sofista con i discorsi... così i sapienti e valenti oratori fanno sì che nella città si ingeneri l'opinione che giuste sono le cose  oneste di contro alle dannose. È vero, infatti, che quel che ogni città ritiene giusto e bello è per essa tale finché lo reputa tale. Ma il sapiente di contro a singole cose dannose per i cittadini fa in modo che siano e appaiano quelle utili. Ebbene, per  tale  ragione anche il sofista, per questa sua capacità di educare in questa arte i suoi discepoli, è, per i suoi discepoli, sapiente e degno di  molto denaro".

E) Disciplina e Felicità

1. La dialettica — e specificatamente: la dialettica sofista — è un vero e proprio codice disciplinatore e trasformatore delle  relazioni sociali e delle forme politiche della polis. È tecnica di educazione e regolazione dei comportamenti, delle passioni e delle opinioni degli uomini. È disciplinamento orientato alla "convivenza civile", alla utilità e felicità crescenti di tale convivenza.

Con Gorgia il dominio della parola si allarga smisuratamente. Se "nulla esiste" e poiché "se qualcosa esiste non é conoscibile", il mondo degli uomini e la "città dell'uomo" non possono essere che il mondo e la città dell'illusione e della rappresentazione. La parola coglie e penetra questa simbolica e la cattura in immagini. Ancora di più: la parola inventa e produce tale simbolica. Essa, pertanto, è più vera e sicura del  reale. In  quanto rappresentazione  di immagini e simulazione simbolica, essa  è il mondo dell'Arte; e qui la techne si eleva al suo strato semantico superiore e più nobile. Da questo strato semantico, la parola produce un'arte: la retorica o arte della parola. Si tratta di un passaggio fondamentale nella storia della cultura occidentale.

L'arte della parola produce immagini terse, come vere e proprie opere d'arte, in contrasto con l' opacità della realtà della vita e del mondo. La sua trasparenza è, perciò, un vortice che si inabissa nell'altrimenti insondabile vita degli affetti.

Disciplinare gli uomini è formarli ed educarli verso la  felicità. La parola, in quanto somma arte, è disciplina della felicità. Essa, dalla "città dell'uomo", risale più indietro: all'interiorità della vita dell'uomo. Il suo dominio è la vita affettiva ed è sugli affetti che domina. La parola disciplina gli affetti.

L'intervento attivo e disciplinatore nella vita affettiva degli uomini è essenziale all'opera di formazione della "società umana" e della "istituzione civile". Con Protagora, l'uomo era  rapporto, dialogo. Con Gorgia, l'uomo è scandagliato fino alla dimensione più profonda, dialogica e affettiva. La parola non si ferma alle tecniche che postulano e modellano l'utile. Porta alla luce l'intreccio sommerso di sentimenti e passioni, per costruire su questa superficie "forte" una dialogicità e una condizione meno illusoria.

Quanto più lo statuto della parola si fa complesso, tanto  più la parola riesce a stare dietro alla/e riesce a far emergere la complessità e la varietà dei sentimenti e delle passioni dell'uomo. Tanto più rende possibile il dialogo, il rapporto, il legame, la coesione. Tanto più modifica l'esistenza, rinvia alla trasformazione e alla costruzione di un nuovo mondo di "istituzioni civili" e di "sentimenti privati". Un mondo più felice, fatto di sentimenti e istituzioni più "virtuosi": l'utopia è l'origine nascosta e il fine ultimo della parola. Come si vede, questo arcano originario del pensiero filosofico greco è sorprendentemente vicino alle considerazioni sulla "letteratura come utopia" che Ingeborg Bachmann legge all'università di Francoforte, negli ultimi mesi del 1959 e i primi del 1960.

La retorica rende tanto più diversi un uomo e un mondo, un'istituzione e un sentimento, quanto più si intimizza nella loro singola specificità, fino a impadronirsene del  tutto, catturandola in immagini trasparenti. È così che può produrre ex novo immagini appropriate e specificamente adattabili a quell'uomo e a quel mondo,  a quell'istituzione e a quel sentimento. È così che da quell'uomo e quel sentimento, da quell'istituzione e da quel mondo  derivano, per generazione, un nuovo mondo e un nuovo sentimento,  una nuova istituzione e un nuovo uomo. Un mondo nuovo, un affetto nuovo, un uomo nuovo passano anche attraverso parole nuove; reperiamo, ancora, un nuovo "reperto bachmanniano". Questo il cammino felice e, insieme, infelice delle parole. Esse sono sempre sul limite: tra vecchio e nuovo; tra privato e pubblico; tra utile e giusto; tra interiorità e quotidianità; tra felicità e infelicità.

2.  Più in generale ancora, l'opera dell'uomo e l' arte  della parola trasformano la natura e la storia. A questa operazione  la stessa retorica non è indifferente. L'opera d'arte è qui costruzione e trasformazione di un mondo, ben dentro quello esistente. La storicità della parola è, prima di tutto, storicità della posizione e dell'attività dell'uomo.

Ciò indica che le parole e l'uomo hanno una storia. Non sempre, anzi quasi mai, storia delle parole e storia dell'uomo coincidono. La retorica ne insegue punti di incrocio e biforcazioni. Qui si innesta la ricerca di Prodico dell'origine delle parole. Nasce, così, l'etimologia.

L'etimologia è ricerca del significato originario e degli  usi originari delle parole, così come dalla natura (physis) sono scaturiti. Ne segue il decorso; ne attraversa le modificazioni semantiche progressive, sino a fissarne la struttura semantica ultima e più complessa. Comprendere il mondo dell'uomo, senza comprendere la storia delle stratificazioni della significazione simbolica e linguistica non è dato. Con Prodico, lo studio del linguaggio diviene analisi linguistica che acquisisce un carattere  scientifico e autonomo.

Avere  un linguaggio è cosa specifica e diversa dall'avere un mondo. Anche se è sempre in un mondo che si ha un linguaggio. Produrre un linguaggio è cosa altra che produrre un mondo. Anche se è sempre nella produzione di un mondo che si dà produzione di linguaggio. Il linguaggio di ogni mondo è il linguaggio dell'infinità di elementi che l'hanno partorito, costituito e che lo stanno conducendo verso il declino che apre alla rinascita. Ogni linguaggio, costituendosi e sviluppandosi, reca offesa e ingiustizia ai mille linguaggi che ne hanno costituito l'anteriorità: per essere fedele a se stesso, è costretto a tradirli. Disciplina è adattamento e invenzione. Così è nel mondo e nell'uomo. Così nel linguaggio. Felicità è disciplina e reazione creativa: da un linguaggio a un nuovo  linguaggio; da un mondo a un nuovo mondo; da un  uomo a un uomo nuovo; da un sentimento a nuovi sentimenti. In questo svolgimento sta la giustizia di ogni cosa.

3.  In Trasimaco, giustizia diventa sinonimo di dominio dell'altro: sua fascinazione per trasformarlo, eterodirigendolo. Felice e giusto è chi esercita la propria forza sull'altro: chi è capace di suggestionare l'altro, onde trasformarlo in prospettiva dell'ordine ritenuto giusto. Stare nel giusto significa qui detenere una forza di fascinazione e governare, con essa, gli uomini e il  relativo ordine sociale.

Infelicità è qui sinonimo di stupidità, poiché stupido è colui che non sa imporre la propria forza e l' "ordine giusto". A costui qui non rimane che soggiacere alla forza e all'ordine.

In questa prospettiva, fatta di sapienza antropologica cinica, la giustizia è l'utilità del forte. Giusto è qui chi è giusto con se stesso; vale a dire: chi costruisce la propria forza personale e il proprio potere sulla sottomissione e fascinazione dell'altro. Per Trasimaco, il giusto non può essere che ingiusto con l'altro: deve soggiogarlo. Felice è qui chi è ingiusto.

Pervenendo a questo estremo declivio del pensiero presocratico, ci si imbatte in contestualizzazioni a forte accentuazione egotico-politica. Tutte  le tes-sere principali del mosaico successivo si può dire che siano state, a questo punto, collocate. Anche per questo è necessario fare ritorno ad esse e ripensarle. Un salto di emancipazione si colloca sempre all'origine arcana e  primordiale del tempo e della storia degli individui e della società. Senza il contatto da parte degli individui e della società col loro continuum remoto e rimosso non vi può essere l'irruzione felice del discontinuo.