CAP. II

MATRICI DEI DILEMMI DEL ‘POLITICO'

 

 

1.

Aristocrazia, sovranità e le contrazioni del potere

Come è largamente noto, la polis designa una città sovrana autonomamente costituita in un sistema istituzionale, i cui poteri sono ripartiti tra magistratura, consiglio e assemblea dei cittadini. La storiografia meglio consolidata, pur entro una diversità di orientamenti piuttosto marcata, ha indifferentemente parlato di polis a riguardo sia dei regimi oligarchici (secc. VII-VI) che di quelli democratici (dal sec. VI in avanti). Questo orientamento appare ancora più condivisibile, ove si consideri che la struttura politica della polis interessa più da vicino la costituzione dello Stato che la direzionalità e la natura del potere. Una città-Stato, con istituzioni statuali, è polis indipendentemente dal regime politico che, di volta in volta, si dà. Tra struttura politica e sistema politico della polis va, perciò, colta una differenza. In ogni caso, quale che sia l'orientamento storiografico specifico, la formazione della polis viene uni-versalmente fatta risalire all'epoca del passaggio dalla monarchia all'oligarchia.

Sembrerebbe, pertanto, che il regime oligarchico abbia, di fatto, segnato la struttura politica della polis. Così non appare, considerando che la polis nella sua essenza si costituisce in un'alternativa oltrepassante la struttura politica della monarchia. Il quadro istituzionale della monarchia ha in dotazione una strutturazione rigida che, oltre che costituire e congelare in alto la sovranità, non conosce ancora un'effettiva ripartizione dei poteri e non riconosce ancora un ruolo nevralgico all'autonomia delle istituzioni e della cittadinanza. Nell'interconnessione sovranità/cittadinanza, anziché dislocare il potere, la monarchia occupa e soffoca la politica, riducendone progressivamente margini di manovra e spazi di legittimità. La polis si struttura, invece, come diversa dislocazione del potere, entro la maglia del rapporto intercorrente tra sovranità e cittadinanza. Meglio ancora: la polis struttura il potere come termine medio, anziché primo, nella sequenza politica sussistente tra sovranità e cittadinanza. Sovranità e cittadinanza costituiscono i poli opposti dello spazio istituzionale entro cui il potere viene calato e manovrato.

L'attrazione prevalente verso questo o quel polo, la particolarità della mediazione e del bilanciamento determinano il tipo di regime che la polis si dà come struttura politica. Se il potere pende verso la sovranità, il regime politico della polis si caratterizzerà come oligarchico; se, invece, il potere slitta verso la cittadinanza, il regime politico della polis si qualificherà come oligarchico; se, invece, il potere slitta verso la cittadinanza, il regime politico della polis si qualificherà come democratico.

Possiamo, pertanto, tentare una prima definizione di democrazia (e democrazia degli antichi, particolarmente): democratico è quel regime che nel rapporto tra sovranità e cittadinanza tende a spostare il potere verso la cittadinanza, su cui impernia e fonda la sovranità. Nella democrazia degli antichi, sovrana è l'assemblea dei cittadini. Ciò, almeno nell'enunciato formale della sovranità popolare, si conserva nella stessa definizione della democrazia dei moderni.

Tornando alla polis. La transizione dalla monarchia alla oligarchia è suggellata dal rilievo che assumono alcuni fenomeni e alcune dinamiche sociali, tra cui particolarmente menzione meritano: (i) il ruolo sempre più determinante assunto dalla nobiltà militare (al punto che l'ordinamento della polis fu dichiarato aristocratico); (ii) la nascita di un'agiata borghesia cittadina, collegata allo sviluppo del commercio marittimo intorno al secolo VII. Commenta Bonini: "Coloro che si erano maggiormente arricchiti, e che avevano impiegato le loro risorse finanziarie nell'acquisto di terreni, ebbero, a poco a poco, la possibilità di prendere parte più attivamente alla vita politica. Nasce così l'oligarchia timocratica, o plutocratica, nel senso che l'accesso alle cariche pubbliche era collegato al raggiungimento di un determinato censo, in genere elevato".

Rileva individuare come queste novità attinenti al piano storico- sociale introducano rettifiche e correzioni nella struttura del sistema politico. A tutta prima, sembrerebbe che l'ampliarsi della sfera delle attività sociali si porti dietro l'allargamento dell'azione politica. Indubbiamente, le trasformazioni sul piano storico e sociale non rimangono senza effetti su quello politico. Tuttavia, la subordinazione di quest'ultimo al primo suona come una concettualizzazione troppo rigida e astratta. Nello stesso accumulo di qualità, fatti e fenomeni sociali va letta l'azione e l'influenza del piano politico e delle strutture istituzionali. Più ancora in profondità: le trasformazioni del 'politico' non sono un fatto irrilevante e nemmeno un effetto della dinamica storico-sociale. Ritornando al nostro caso specifico, la trasformazione fondamentale introdotta dal regime oligarchico si può definire nei termini di un allargamento della sfera della cittadinanza, a cui accede a pieno diritto l'oligarchia plutocratica. Il baricentro della sovranità va spostandosi in questa direzione. La rigidità della struttura politica vigente fa sì che l'accesso al 'politico' valga a uno strato sociale la conquista del potere. L'oligarchia plutocratica accede al 'politico' esattamente per impossessarsi del potere. Accesso al 'politico' e accesso al potere si concentrano in una sola e intensa regione: l'accesso al po-tere avviene nelle forme della sua appropriazione e della sua detenzione. Una struttura politica statica e rigida non tollera la partecipazione al potere di una pluralità di classi e, a questo titolo, vieta loro tassativamente l'accesso al 'politico': per escludere dal potere, non include politicamente. Lo stesso regime oligarchico, per includere se stesso, non esclude soltanto la monarchia, ma anche tutti gli altri strati sociali. Possono già rinvenirsi qui le basi della tirannide e del passaggio successivo alla democrazia.

Nel disegnare la morfologia dell'oligarchia Aristotele ne seleziona quattro forme, incardinate tutte sulla individuazione e quantificazione del censo. Si tratta di una morfologia stratificata gerarchicamente e che, mano a mano che si sale verso l'alto, vede restringersi lo spazio dell'inclusione. Morfogeneticamente lo schema aristotelico delle forme dell'oligarchia appare come un sistema i cui meccanismi integratori, a misura in cui si evolve verso le forme superiori, vanno comprimendosi, mentre si estendono le istituzioni e gli effetti dell'esclusione. Il passaggio da un regime politico a un altro può essere qui spiegato, cogliendone la logica binaria. Premessa di ogni sostituzione di un regime politico ad opera di un altro è l'inclusione; conseguenza del passaggio di consegne è l'esclusione. L'evoluzione di ogni regime politico appare animata da una perversione sotterranea: la volontà dell'esclusione. Ogni regime politico perde progressivamente la sua natura mutante: più si afferma e consolida, più si territorializza come immutante. Tenta di catturare l'eternità, attraverso una immutabilità che si autoimpone e impone con ossessione. Ciò che precipita il potere verso la follia è proprio l'ossessione dell'autoconservazione infinita. Follia e ossessione macerano il potere dall'interno che, così, o si indebolisce a confronto di un potere più forte, oppure agonizza nell'autoconsunzione. Elias Canetti ha fornito una magistrale e capillare analisi di queste componenti ancestrali e profonde del potere.

Il modello delle forme dell'oligarchia fornito da Aristotele si presta magnificamente a una contestualizzazione di questo tipo. I livelli formalizzati sono: (i) il primo, in cui è richiesto un censo piuttosto basso, per cui le magistrature sono ampiamente accessibili; (ii) il secondo, in cui è richiesto un censo più elevato e i magistrati vengono selezionati attraverso il sistema della cooptazione; (iii) il terzo prevede un censo ancora superiore e le cariche vengono trasmesse e riprodotte in linea ereditaria; (iv) il quarto è quello in cui si forma una dinastia che prevale in forza delle sue ricchezze, per effetto delle quali si sottrae al controllo della legge che ancora assoggettava gli altri livelli oligarchici (politica, IV, 5, 1). La dinastia può leggersi come vertice parabolico, raggiunto il quale il potere oligarchico rende trasparente il sottosuolo di follia e avidità che lo divora, costituendone la più oscura e letale ragion d'essere.

Assumendo Sparta come modello della polis oligarchica, allo stesso modo con cui Atene è assunta come modello della polis democratica, risalta con maggiore evidenza come il potere sia più che altro detenuto dal consiglio e dai magistrati, essendo conferito un ruolo di minor peso ai cittadini riuniti nell'assemblea. A quest'ultima (Appella), al di fuori dell'elezione annuale di 5 magistrati (gli efori), vengono attribuiti poteri puramente formali. Veramente, altro potere dell'assemblea è quello di eleggere a vita 28 dei 30 membri della gherousia, scegliendoli tra i cittadini che avevano varcato la soglia dei 60 anni di età. La gherousia è investita di "ampi poteri", sia per gli affari interni, sia per le "relazioni con l'estero". Ma il fatto che i due componenti rimanenti fossero i diarchi rende complicato e problematico il rapporto di trasmissione lineare della volontà tra l'assemblea dei cittadini e quest'organo. A ciò è da aggiungersi il carattere di non revocabilità dei 28 eletti dall'assemblea: vigendo il sistema dell'elezione a vita, un nuovo membro subentra soltanto per colmare un posto lasciato vacante.

Da un lato, la gherousia trova in opposizione una simbiosi di elementi arcaici, i residui della monarchia nella forma dei diarchi. Dall'altro, tende a riprodurre un carattere di separatezza e superiorità a confronto dell'assemblea che pure l'ha eletta. In linea di espressione della volontà popolare, sono gli efori, eleggibili ogni anno e, dunque, revocabili ogni anno, che riducono il potere dei diarchi e incrementano il loro, che inizialmente era soltanto un "potere di controllo". Ciò non elimina tutti i problemi che, da sempre, sono intrinsecamente legati ai meccanismi della rappresentanza e che non fanno mai riscuotere agli efori (come a tutti gli organismi equipollenti, in ogni luogo e in ogni tempo) l'incondizionato favore popolare. Il punto cruciale non appare costituito dall'attenuazione del potere dei diarchi, quanto dall'occupazione dei luoghi e dalla detenzione degli strumenti effettivi del potere. È in questa prospettiva che consiglio e magistratura distanziano sempre di più l'assemblea dei cittadini. Nel consiglio e nella magistratura si consumano le più intense lotte per il potere. La costituzione oligarchica spartana regge più a lungo a confronto di quella delle altre città-Stato similari, poiché fa più organicamente dell'intreccio di consiglio e magistratura il vertice del potere, con esclusione non solo dell'assemblea, ma di ampie fette della nascente borghesia mercantile. In virtù di questa esclusione, la costituzione spartana si accompagna a un sistema politico che fa dell'aristocrazia militare l'asse dell'oligarchia. L' aristocrazia plutocratica occupa qui un ruolo ancora secondario. I meccanismi dell'inclusione/esclusione appaiono in particolare modo preoccupati di disegnare una ferrea geometria del potere, basata sull'autocontrollo delle proprie forze e sul controllo di quelle altrui.

La concentrazione delle forze e degli sforzi è il frutto di una selezione che riduce in maniera drastica gli assi e i punti dell'intervento. Quasi che si volesse ritardare il più possibile lo sviluppo della dinamica storica e dei suoi effetti. Questo rallentamento controllato dalla storia appare come il prolungamento del tempo del potere, il quale basa vigenza e durata non sull'accelerazione, bensì sulla contrazione. Il tempo del potere viene alla luce come contrazione del tempo della storia: eternità del potere è controllo e selezione della storia. Il carattere aristocratico del potere oligarchico spartano risiede in quest'oscuro recesso: aristocratico, poiché si erge a sovrano del tempo e della storia. Aristocrazia non solo e non tanto di una casta o di uno strato sociale, quanto di una dimensione qualificativa del vivere sociale e di una componente onnipresente negli aggregati umani e nelle relazioni intime. Tutto ciò che ribolle in queste stratificazioni profonde alla superficie diviene spettacolo di potenza e sovranità: il tempo del potere governa politicamente il tempo della storia. Questo assioma politico è un postulato aristocratico nel senso più denso del termine. Immodificabilità ed eternità sono qui le politiche del potere. Al culmine della sua iperbole, ogni potere disvela questo carattere aristocratico a lungo rimasto segreto; e ciò anche nei rapporti intimi. Si tratta sempre di strutture aristocratiche che, nel corso del tempo storico e a seconda della particolarità delle forme di potere che si succedono, descrivono un cangiante processo di aggiornamento. Ci troviamo sempre di fronte a una storia di mutazioni genetiche, alla cui conclusione vengono invariabilmente in luce gli aspetti millenari del potere, quelli più riposti, bramosi e distruttivi: come in un incantesimo ma-ledetto che si rinnova all'infinito. Eppure non tutto è maledizione e non è detto che la maledizione debba indefinitivamente tramandarsi.

La contrazione del potere congela le regole del 'politico', il cui quadro si fa stagnante. Il potere diventa intrasmissibile, poiché non riesce a pensarsi, se non come imposizione. La politica si trasforma in lotta per la sovranità, animata da ceti che si sentono marginalizzati o addirittura esclusi. La lotta non si istituisce soltanto tra le classi dominanti e gli strati inferiori, ma può annidarsi all'interno delle stesse classi dominanti, tra le diverse fazioni che le compongono: all'interno delle istituzioni esistenti e tra queste e tutto ciò che ancora non conosce legittimazione istituzionale. L'ostilità che va montando è sanabile in termini di compromesso oppure di rovesciamento. Il compromesso stesso ha un ampio raggio di incidenza, ammettendo diverse soluzioni. Compromesso organico tra le classi dominanti e gli strati inferiori; compromesso settoriale tra fazioni specifiche delle classi dominanti e gli strati inferiori. Nel secondo caso, il compromesso è il risultato di un'alleanza interclassista, su cui viene fondato il nuovo ordinamento giuridico e sociale che si spera esca vittorioso dalla contesa. Siffatta ipotesi compromissoria ammette una forma particolare di rovesciamento dal potere di una o più delle fazioni che in precedenza lo cogestivano. Per contro, l'impraticabilità del compromesso o conduce al rovesciamento delle classi al potere, oppure alla sconfitta degli strati inferiori ribelli. In tutti e due i casi, si assiste al fronteggiamento di due organiche e coerenti coalizioni di classe: dominanti contro dominati. In ballo è, appunto, il dominio: la sua natura e la sua rideterminazione sociale. La posta in gioco è qui la legittimità del potere e delle forme della sovranità.

Un particolare tipo di rovesciamento è quello rappresentato dalla tirannide. L'accordo che qui si statuisce tra le classi inferiori è nella ricerca e individuazione del capo, della guida carismatica del rovesciamento. L'unità si attiva in vista della fisicizzazione della direzione politica in grado di spostare il baricentro del potere. Rovesciamento del potere vigente è qui sottomissione al potere del tiranno, fin dall'inizio e ancora prima della conquista del potere per cui si scende in lotta. Ciò perché la sovranità carismatica del tiranno appare l'unica prerogativa in grado di controbilanciare l'asse del potere e, inoltre, di determinarne uno spostamento. Impregiudicata e intangibile rimane la progettualità politica, esclusivo e insindacabile possesso del tiranno. Non appare sorprendente, su queste basi, che, il più delle volte, la scelta del tiranno operata dalle classi inferiori sia caduta su figure appartenenti alle classi superiori. In realtà, si può dire che, più che richiedere un rovesciamento del potere, attraverso la tirannide gli strati inferiori inoltrino la richiesta di accedere e partecipare al potere. La tirannide compare come un particolare tipo di inclusione politica, soggetta come tutti gli altri tipi ai meccanismi e alle regole di funzionamento del potere. Correttamente, è stata riconosciuta alla tirannide "una precisa funzione nel passaggio dall'oligarchia alla democrazia". Ancora di più: è la dicotomia tirannide/ libertà che non ha un terreno solido sotto i piedi.

In tutte le forme di potere v'è un'ineliminabile componente tirannica, di cui è avvolto il 'politico' medesimo dall'antichità alla modernità. Evidenza non ignota alla filosofia politica italiana — e specificatamente fiorentina — dei primi decenni del `500. Francesco Vettori osserva: "a parlar libero, tutti i governi sono tiranni" (sommario della storia d'italia, 1511-1527); gli fa eco Francesco Guicciardini: "non si può tenere stati secondo coscienza, perché — chi considera la loro origine — tutti sono violenti" (RICORDI, 1528-1530). Ancora più intensa e drastica è la riflessione che, sul punto, propone E. de La Boétie (DISCOURS SUR LA SERVITUDE VOLONTAIRE), il quale "tocca e traduce, con singolare intensità, un'intuizione assolutamente inedita: la politica moderna e premoderna costruisce la tirannide, vive del suo mito negativo, della sua energia fondativa. Può distaccarsene, rimuoverla, rinnegarla solamente parlando il suo linguaggio: e ascoltando in quel linguaggio gli echi lontani della sua stessa voce".

2.

Platone e la tirannide: alla radice dei dilemmi del ‘politico’

Se Sparta rappresenta il modello meglio esemplificato di costituzione oligarchica, le riflessioni di Platone sulla tirannide costituiscono un abbrivio singolarmente denso e, insieme, un punto fermo del pensiero politico occidentale.

È noto che, in Platone, la contrapposizione 'politico'/tirannide è equipollente e consecutiva a quella tra virtù e vizio. La configurazione che ne deriva è così esemplificabile: 'politico' come virtù e bene; tirannide come vizio e male. E si tratta non di differenze di forme, bensì di sostanza, poiché l'un termine della contrapposizione è indeclinabile dall'altro. Il 'politico', platonicamente concepito, è unità, mentre la tirannide viene assunta come il disunito. Dall'unità spezzata, derivano i vizi del molteplice. L'unicità della virtù affiora come unicità dello Stato, dalle cui interiorità le sporgenze della conflittualità vengono espunte: "una sola è la forma della virtù, mentre infinite quelle del vizio" (REPUBBLICA, 445c). Il vizio è tale, poiché rompe l'unità della virtù. Grazie all'unità che la caratterizza, la virtù dà cittadinanza storica e reale all'ideale. La tirannide è rottura dell'ideale e dell'idealità della storia come ottimizzazione virtuosa della perfezione e della civiltà. Tale perfezionamento costituisce il punto alto e vibrante della riflessione platonica sul 'politico'.

L'infrazione dell'unità scaturisce dalla discordia che insorge tra i partecipanti all'universo politico. Solamente nell'unità politica risiede l'eguaglianza. Si è uguali solo mediante l'accesso al 'politico' e sono uguali solo coloro ai quali è concesso tale accesso. La virtù dell'eguaglianza sta ben protetta e trincerata nel 'politico'. Tutti coloro che connaturalmente non possono accedere al 'politico', non possono, per definizione, partecipare all'eguaglianza. Quest'ultima non è una condizione universale, ma la condizione del 'politico'. L'accesso al 'politico' costituisce l'eguaglianza. Il legame che lega gli eguali e li fa eguali è l'unità politica. Chi ne resta fuori, non può più farvi ingresso. Per farlo, rompe illegittimamente l'unità vigente, spezzando il 'politico' e introducendo il disordine. Chi non ha e non può avere accesso al 'politico', deve essere governato. Ecco l'altra faccia dell'ordine, dell'unità politica. La trama unitaria del 'politico', per Platone, non può essere spezzata. Sono le forme politiche reali, irreparabilmente distanti dall'unica forma di Stato ideale, a lacerare questa trama. In ciò finiscono con il somigliarsi tutte tra di loro. Il rovescio dell'ordine, il disordine, apparenta tutte le forme politiche reali: democrazia, oligarchia, tirannide. Il passaggio da una forma politica a un'altra, in quanto sospensione della concordia, ingenera il vizio. Ed è nel vizio che sta la tirannide. In un movimento ascendente, tutte le forme politiche tendono irresistibilmente verso la tirannide. È questa metamorfosi stessa, è questo passaggio stesso che rappresentano la tirannide. I modi del passaggio, nella loro essenza turbativa e turbolenta, sono strettamente imparentati: "Ed in un certo senso non avviene nello stesso modo con cui si passa dall'oligarchia alla democrazia che si passa dalla democrazia alla tirannide?" (REPUBBLICA, 562a-b). È il movimento delle forme, la metamorfosi politica, non importa quale sia la direzionalità, a costituire il vizio e, perciò stesso, la tirannide.

In questo esito filosofico e politico va rintracciata un'ascendenza epistemologica presocratica, risalente a Parmenide ed Eraclito, per i quali ciò che è in divenire non può essere oggetto di vero sapere. Platone riprende questo motivo nella "Repubblica" e nei "Dialoghi". Del divenire si può avere e farsi un' opinione: intorno a esso si può semplicemente congetturare. Il sapere effettivo, invece, si basa sulla verità e sulla certezza del vero: per Platone, ciò che è vero è stabile e non si corrompe nel divenire. La verità è una; il divenire, molteplice. Ciò che vale è l'uno non i molti. Ed è l'uno il fondamento della medesima molteplicità. Dalla molteplicità, dunque, si deve sempre risalire all'uno.

La filosofia negazionista dell'uno vale come critica del divenire. Non nel senso della sua cancellazione, ma in quello più pregno e preciso che ad esso non viene riconosciuto uno statuto di verità e scientificità. Da questo lato, la filosofia eraclitea si può assumere come la prima filosofia negativa. Qualche esempio: "la sapienza consiste nel dire e fare cose vere, comprendendole secondo la loro natura" (Frammento B112); la saggezza vera sta nella capacità di "comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto" (Frammento B108); "i molti non valgono nulla e solo i pochi sono buoni" (Frammento B40). In Platone, il divenire è degenerazione, poiché tradimento dell'essenza: o, meglio, dell'idea di idealità. È degradazione attraverso le forme e il mutamento delle forme. Tra forme e idee, mondo del sensibile e mondo dell'idealità, v'è una cesura netta. Il divenire è corruzione dell'idealità e, perciò, della filosofia. Quest'ultima rappresenta la forma più elevata della conoscenza, proprio nella qualità di riflessione pura avente per oggetto e soggetto niente altro che le idee. Platonicamente, la filosofia è produzione di idee per il tramite delle idee. Perciò, soltanto essa possiede quel carattere di unità che Platone pone come requisito della certezza e della verità. Alla partizione presocratica tra matematica e opinione Platone ne aggiunge una nuova ancora più rilevante: quella tra conoscenza noetica (la filosofia in senso puro) e conoscenza dianoetica (la matematica in senso altrettanto puro). Ne consegue che la conoscenza dianoetica prevale a confronto della doxa; ma soccombe rispetto al nous. Il sapere filosofico è, per Platone, la forma più alta di conoscenza e verità, poiché manipola esclusivamente idee, senza che nessuna forma o elemento sensibile intervengano col loro carico corruttore.

Osserva pertinentemente Umberto Curi: "a differenza di Eraclito, Platone non si limita a giudicare illusoria la conoscenza della quale si entra in possesso attraverso il "saper molto"; indica anche, senza alcuna ambiguità oracolare né alcuna concessione mitologica, in che cosa consista la scienza sulla quale si fondano anche la giustizia e la felicità. La condanna della polymathia è dunque solo il preludio di una dimostrazione più compiuta e articolata, relativa ai gradi di realtà e alle corrispondenti forme di conoscenza". Ciò che qui appare in rilievo, come non manca di cogliere Curi, è che la fondazione scientifica del sapere si mantiene inestricabilmente congiunta all'idea e alla ricerca del bene e della felicità. Si può dire che la stessa razionalità scientifica venga subordinata al bene e alla felicità, in quanto la scienza viene, al fondo, collegata all'idea del bene. Parimenti, si può cogliere un effetto di ritorno: l'idea di bene si dota di una fondazione sul medesimo piano scientifico. Si apre proprio qui una zona mediana nuova. L'incontro di filosofia e scienza, ben dentro l'idea di bene, crea il campo del 'politico'.

Ma ritorniamo un istante indietro, a un importante passaggio platonico: "nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedersi è l'idea del bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello; e nel mondo visibile, essa genera la luce, nell'intelligibile largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto" (REPUBBLICA, VII, 517b). L'idea di bene è il punto estremo dell'idea ed è lo spazio di esclusiva pertinenza dell'idea: essa è già in questo punto estremo. La ragione deve scoprirlo, muoversi in cammino per prenderne visione, figurarselo in una forma sensibile da ritenere. Essa memorizza le idee e la stessa idea di bene, se riesce a sospingersi fino al punto estremo. Qui scopre quello che c'è già e a cui dà forma: la causa di tutto ciò che è retto e bello. La causa sta tutta fuori della scienza ed esiste prima e indipendentemente da essa. La causa è possesso dell'idea. La ragione che si spinge al limite, al punto estremo, posiziona il bene come causa di tutto ciò che è retto e bello. Nel discoprimento di tale causa, essa diviene vero sapere.

La relazione verità/intelletto è una riverberazione della sovranità dell'idea di bene. La sovranità qui vale anche come ineliminabile orizzonte di riferimento. In Platone, è l'idea di bene che fonda la connessione tra filosofia e politica. Quale tremenda novità: la fondazione dello Stato ruota attorno al motivo etico-scientifico del bene, ma non è etica o scientifica la fondazione di questo Stato. Re e signori, dice Platone, debbono fare "genuina e valida filosofia", se si vuole "una tregua di mali per gli stati e per il genere umano" (REPUBBLICA,V, 473d). Lo Stato-unità di Platone è, giustappunto, questa ricomposizione tra filosofia e politica: il re filosofo nasce da qui ed è questo nell'utopia platonica. È vero: ci troviamo qui di fronte alla cura della politica grazie alla filosofia. Ma inveniamo anche la fondazione utopica dello Stato sull'intreccio indissolubile di filosofia e politica. Ed è proprio l'elemento utopico l'anima immarcescibile dell'intreccio. Qui l'utopia di Platone dispiega tutto il suo vigore: se l'idea di bene è causa del retto e del bello, lo Stato fondato sulla ricomposizione di filosofia e politica è causa che dà tregua ai mali sociali e del genere umano, in senso più lato. Filosofia e scienza là dove si incastrano, lì fondano il 'politico' e lì erigono l'utopia dello Stato retto e bello: ciò che regna è l'utopia dell'idea. Il processo di ricomposizione della filosofia e della politica e il processo di fondazione utopica dello Stato equivalgono a un vero e proprio processo di emancipazione del genere umano: il passaggio approssimato va dalla conoscenza alla liberazione; dalla vera conoscenza alla vera liberazione. Quale esito sorprendente e scardinante! L'evidenza non sfugge a Curi: "L'idea del bene costituisce, così, il fondamento, la pietra angolare, di una costruzione organica e rigorosa, mediante la quale Platone salda strettamente ontologia ed epistemologia, etica e politica...".

Il ciclo politico riproduce le forme ascendenti e discendenti della conoscenza; ma le riproduce in forma politica. Ricondotta fino al centro di governo e di equilibrio dell'idea di bene, la metamorfosi politica acquisisce una ragion d'essere: la sua causalità è sempre vista in funzione dello scostamento o dell' avvicinamento a tale centro gravitazionale. Un ciclo politico di lunga durata è platonicamente definibile come il movimento ascendente e discendente delle forme politiche reali. Dal basso in alto: qualora dalla democrazia, passando per l'oligarchia, si sale alla tirannide: Dall'alto in basso: qualora dalla tirannide, passando per l'oligarchia, si scende alla democrazia. Sia nella fase ascendente che in quella discendente, il ciclo politico trova nell'oligarchia il suo termine medio. Considerata come punto di arrivo della "anabasi", la tirannide ostruisce e blocca il divenire della dinamica storica. Non occorre dimenticare, tuttavia, che essa inoltre costituisce il punto di partenza della "catabasi". Sicché è lecito configurare una dinamica più larga che inquadra la tirannide come punto di passaggio della democrazia e la democrazia come luogo di transito della tirannide. Tirannide e democrazia, essendo gli elementi ultimi di un ciclo politico, possono esserne anche i termini primi.

Non solo la tirannide, ma anche la democrazia blocca il ciclo politico, conducendolo a un compimento determinato storicamente. Proprio in questo modo se ne può inaugurare un altro di bel nuovo. Nondimeno, questa stessa dinamica più larga si invischia in un movimento bloccato, in quanto si dipana invariabilmente tra forme già presupposte, senza che ne intervenga una veramente nuova. Detto altrimenti: ciò che nella dinamica muta sono le qualità della democrazia, dell'oligarchia e della tirannide, ma non compare mai una forma politica altra dalla democrazia, dall'oligarchia e dalla tirannide. Insomma: dalla democrazia alla democrazia; mai oltre. Già in Platone rinveniamo questo dilemma del 'politico'. La dilemmatica fallimentare delle forme politiche reali è qui conseguenza del tradimento dell'origine, dell'unità ideale e dell'eguaglianza. Sembra di poter leggere tra le righe che Platone, preliminarmente consapevole dell'inconclusione della metamorfosi politica, proprio per prevenire la corruzione del divenire delle forme, postuli l'unità utopica e inestinguibile del 'politico' e dello Stato ideale. Punto di partenza e punto di arrivo, al termine estremo del 'politico', trovano respiro e coincidenza. Il 'politico' ruota sempre su se stesso: contemporaneamente, punto di partenza e punto di arrivo. Non è soggetto a modificazioni, ma modifica. Meglio ancora: si modifica. È creatore di forme. Ma la sua forma rimane sempre la forma dell'utopia. Le modificazioni del 'politico' dentro il 'politico': da questo movimento si ingenera la strutturazione storica dell'utopia. Il 'politico' interpreta la storia e la trascende attraverso l'utopia. Presupposto dell'equazione 'politico'= bene è la poiesis utopica che anima il 'politico'. Il 'politico' compare come l'Olimpo degli uomini, la forma storico-umana accessibile, in virtù della quale gli uomini possono rendersi simili agli dèi. Lo possono solo gli uomini eguali: cioè, unicamente coloro ai quali è riconosciuta la legittimità dell'inclusione politica. Il 'politico', da critica delle forme della politica, si prolunga in trascendimento del destino degli uomini, in superamento della datità immediata a cui gli uomini sono incatenati. L'utopia platonica secolarizza gli dèi e assegna agli uomini il più umano dei destini: costruire ed edificare il retto e il bello anche sotto il monte di Olimpo. È, questo, un destino umano e storico; anzi, specificamente e storicamente umano. Al di qua degli dèi, ma non per questo senza significanza creativa. Anzi, proprio qui Platone ricerca la significanza più piena dell'umanità.

Interessante, sulla base dell'argomentazione platonica, è istituire una prima differenziazione tra 'politico' e politica. Il 'politico' è concepito come idealità e unità utopica e la politica considerata come metamorfosi delle forme e come attività. La metamorfosi è destinata alla tirannide: è la tirannide. Possiamo dire: il destino inevitabile della politica è la tirannide. Secondo l'assiomatica platonica, la politica non può emanciparsi dalla tirannide e rappresenta il rovescio oscuro, il polo antitetico e negativo del 'politico'. Mentre il rapporto 'politico'/libertà è di tipo lineare e causale, quello tra politica e libertà è antinomico. Tirannide è contraria a libertà, poiché situazione ontologicamente politica. 'Politico' è contrassegno della libertà, poiché è espressione ontologica del bene e dell'ideale. La sequenza positiva è: ideale-'politico'-libertà. Quella negativa: vizio-politica-tirannide. In Platone, la possibilità della libertà può configurarsi come la irrealtà del 'politico'. Platone stesso è consapevole di questo effetto dirompente della sua posizione. Nel dialogo tra Socrate e Trasimaco, sul finire del capitolo sulla tirannide, leggiamo: "Capisco — soggiunse —, tu parli di quello Stato che noi abbiamo fondato e discusso e che non ha realtà, se non nei nostri discorsi: ché io non credo, qua sulla terra, si trovi in qualche luogo" (repubblica, 592a-b). Sulla terra, la politica tende a sospendere il 'politico', lo rimuove e lo mette in mora. L'irrealtà del 'politico' è costretta nella camicia di forza del realismo della politica. Quale fatale e infelice destino!: "... non è forse necessario allora, anzi fatale per un simile uomo o morire per mano dei propri nemici, o farsi tiranno e da uomo trasformarsi in lupo? — Assolutamente necessario esclamò" (repubblica, 566a).

Ma il 'politico' irrompe sulla scena, squarciando dall'interno la destinalità infelice dell'uomo. Quale formidabile paradosso! L'uomo esiste per un destino che vuole trasformarlo in lupo o farlo soccombere per mano dei nemici e, nello stesso tempo, per un destino superiore, in vista del retto e del bello. Il 'politico' ricorda questo all'uomo e questo fa vivere nella storia. Platonicamente, 'politico' è discorso, progetto. Di contro si erge la politica: caotica e spezzata realtà, serrata nella crescita esponenziale del potere. La politica è al servizio del potere e si modifica soltanto con esclusivo riferimento alla genesi a allo sviluppo del potere. La genesi della politica è soggiacente alla genesi del potere. Il 'politico' è tutto fuori questa genesi e si specifica come critica permanente.

Occorre che nella sua evoluzione la politica ritrovi il discorso e il progetto del 'politico'. Occorre che il 'politico' spinga a decisioni che, dal basso della malvagità e della tragicità fatale del destino degli uomini, recuperino l'alto del destino della condizione umana. Non bisogna farsi impaurire e paralizzare dagli esiti tirannici e oppressivi del destino umano. Anzi, in essi si deve avere il coraggio di scavare e indagare, come malviste generazioni di pensatori e poeti ci hanno insegnato, dall'antichità ai giorni nostri. Ma non si può invariabilmente cantare o lamentare la libertà come un ideale allo stato puro. Il progetto del 'politico' va posizionato come costante atta a rischiarare il black out della politica, a trascenderne i limiti e i cortocircuiti. Allora, il 'politico' si staglia come fattore di regolazione, controllo ed emancipazione del potere. Una tesi del genere, per quanto abbia una indubbia matrice platonica, fa saltare in aria il nucleo portante dell'impalcatura platonica.

3.

Il ciclo politico tra decisione azione, utopia e praxis: Platone, Aristotele e il ritorno del tragico

È opportuno insistere sulla dinamica del ciclo politico, sia che lo si riconduca a una scala temporale ristretta, sia che lo si voglia far echeggiare sulla lunga durata. Gli elementi nevralgici del ciclo si possono così isolare: da un lato, la decisione del 'politico'; dall'altro lato, l'azione della politica. Si può qui meglio intendere l'elemento tragico che ineliminabilmente accompagna lo sviluppo del ciclo politico. La dialettica del tragico si proietta ben dentro quella del ciclo politico: la condiziona, senza, beninteso, governarla. La differenziazione delle forme politiche non impedisce che, all'interno di una contrapposizione spietata e radicale, l'una trapassi nell'altra, descrivendo la traiettoria di una sorta di fato necessario. Le forze della creazione e della distruzione si accaniscono le une contro le altre, ma anche partorendosi le une dalle altre. L'intreccio di ripetizione e originarietà esplica una forza terribile; altrettanto forte è la portata della commissione tra unità e differenza. Su questo profilo tragico, il ciclo politico è invariabilmente situato sul limite estremo tra tirannide e libertà, vita e morte.

La circolarità del ciclo è subordinata alla necessità, ma non espunge l'insorgere del caso e dell'imprevedibile: assegna spazio rilevante alla decisione e all'azione. Distaccandosi sul punto da Platone, polo positivo e polo negativo non si pongono più in alternativa reciproca. Politica come polo negativo del 'politico': ecco la scissione platonica che qui non trova più posto. Positivo e negativo rientrano come polarità ineliminabili del ciclo. Qui lo storicismo (Erodoto) e la tragedia (Eschilo e Sofocle) si collocano in un orizzonte di senso più avanzato della concettualizzazione politica che, in argomento, propone Platone.

All'interno del ciclo (così come nell'intrico di Pathos ed Eros, patire ed agire della tragedia greca), positivo e negativo si colpiscono e afferrano a vicenda. Il ciclo politico diviene, dipanandosi e avvolgendosi attorno alle sue regole e mutamenti di forme. Nei mutamenti delle forme si cala l'intromissione degli uomini che fanno politica, l'irruzione del discorso politico. La lotta e la metamorfosi da una forma politica all'altra non vale a occultare il dissidio tra (i) l'irruzione della soggettività nel divenire storico e (ii) lo svolgimento storico necessario del divenire. A ben vedere, è in questo dissidio che si misura lo scacco o il successo del 'politico' come decisione e della politica come azione.

La posta in gioco è questa: sottrarsi all'imperio della storia e della natura. Ed è proprio siffatto tentativo che è suscettibile del più mostruoso dei capovolgimenti che sia dato di vedere: il dominio dell'uomo e della civiltà umana sulla storia e sulla natura. Esito politico che ha uno sfondo metafisico, rinvenibile allorché dalla fenomenologia del tragico — e segnatamente del tragico in politica — ridiscendiamo alla struttura ontologica della tragedia. Molto ci soccorre Hölderlin, per il quale il "mondo di tutti i mondi" si rappresenta nel "divenire del momento e nell'inizio di un tempo e di un mondo", geneticamente conficcato nel declino e nell'inizio. L'irruzione storica della soggettività apre una relazione agonale tra soggetto e storia. L'agone può irrigidirsi; e, allora, declino e inizio non trapassano l'uno nel l' altro, ma tendono ad affermarsi l'uno contro l'altro. Ancora più estesamente: declino e inizio del soggetto giocano contro declino e inizio della storia; e tutt'all'inverso. Da qui la difficoltà della rappresentazione di quella che Hölderlin chiama "una totalità vivente", che è sempre tessitura di declino e inizio. Subentrata la cesura, l'unità vivente della metamorfosi resta senza linguaggio. La politica si fa azione e il linguaggio si circoscrive al discorso del 'politico'. Ed è qui che il ciclo politico paga un pesante tributo alla dialettica del tragico.

Come ha ben mostrato Aristotele: "la tragedia non è mimesi di uomini, bensì di azione e vita, che è come dire di felicità e infelicità; e la felicità e l'infelicità si risolvono in azione, e il fine stesso è una specie di azione non una qualità" (POETICA, 1450a). Nella tragedia l'agire prevale sul patire: suo punto focale è l'azione, non la sofferenza. La politica è alla ricerca della metamorfosi che ottimizzi il potere e che lo renda produttivo in ragione del governo dei nessi sociali, del decorso storico, dei limiti e dell'ostilità della natura. Privilegia, perciò, l'azione, gettando in secondo ordine la sofferenza. Risiede qui il nodo oscuro entro cui sprofonda la sua tragicità: l'aver scisso il declino dall'inizio e l'aver separato l'agire dal patire. Su questo crinale, dal linguaggio del 'politico' accediamo al codice della politica. Al 'politico' resta e spetta il linguaggio. Nel suo progetto è ancora possibile rintracciare e sanare la dolorosa unità, l'intreccio spinoso di decisione e necessità, declino e inizio, agire e patire.

Il discorso del 'politico' è strategia, poiché ricomprende le ragioni, le cause della sofferenza; poiché è l'unica risposta che sa ascoltare il lamento e la conclusione tragica del dialogo tra Socrate e Trasimaco: lamento tragico e rassegnato. Il 'politico' non si rassegna a questo fato crudele, a questo rovescio bestiale del destino umano, pur riconoscendone, in tutta la drammatica ampiezza, la cruda e cancerosa realtà. Misurandosi sulla secca alternativa tra il bestiale e l'umano, vera alternativa senza alternative, vuota e indigente, il 'politico' si fonda e decide. Il nesso di etica e politica è qui reperibile ancora avvolto e circonfuso in un alone indistinto: una compatta unità avvolge entrambe le determinazioni. Soltanto in epoca moderna, etica e politica conosceranno un effettivo processo di differen-ziazione. Ma già in Platone è possibile cogliere l' elemento utopico che connota il 'politico', il "possibile progettuale" del suo discorso critico e del suo linguaggio decisionale.

Completamente diversi sono i sentieri battuti da Aristotele. Come si sa, il forte accento prasseologico da lui impresso alla politica discende dalla ripartizione con cui classifica le forme del sapere, suddividendole in due forme di razionalità: quella epistemica e quella congetturale (ETICA NICOMACHEA, Cap. VI). La prima riveste un vero e proprio carattere di immutabile, in quanto scientifica; la seconda, poiché incastro di possibilità, previsione e scelta, assume una caratterizzazione di conoscenza pratica, attività pratica. Le modalità del sapere articolano episteme, a un polo, e praxis, all'altro. Nel primo caso, i domini cognitivi sono possesso della scienza; nel secondo, della prudenza (e/o saggezza). Paradigmaticamente, la prudenza ha in Aristotele il tratto necessario di "disposizione pratica, accompagnata da ragione verace, intorno a ciò che è bene e male per l'uomo" (ETICA NICOMACHEA, VI, 1140b). Il sapere epistemico tende alla conoscenza dell'immutabile; e qui Aristotele rimanda alle figure emblematiche di Anassagora e Talete. La prudenza, invece, è ponderazione calcolata delle deliberazioni umane intorno al nesso di male e bene: è agire sempre per il meglio, a fronte di situazioni in movimento, non sempre semplici e prevedibili; in questo caso, come figura emblematica viene assunto Pericle. C'è un passaggio aristotelico straordinariamente chiaro, al riguardo: "si dice che Anassagora e Talete e siffatti uomini sono sapienti e non saggi, giacché si vede che non conoscono ciò che giova a loro stessi, mentre si dice che conoscono cose eccezionali, meravigliose, difficili e sovrumane, ma inutili, giacché essi non indagano intorno ai beni umani. Invece la saggezza riguarda le cose umane, ciò intorno cui è possibile deliberare; e diciamo che il compito dell'uomo saggio è soprattutto deliberare bene" (ETICA NICOMACHEA, VI, 1141).

Le coordinate del quadro che ne scaturisce sono le seguenti: politica come praxis; praxis come prudenza: indagine e azione attorno ai beni umani. La praxis politica è qui la mediazione sociale attraverso cui gli uomini — e, sopra di loro, la sovranità — riconoscono i beni, li proteggono, li accrescono e li migliorano. Gli uomini giovano a se stessi, per il tramite della prudenza politica. Spezzato o deformato questo tramite, la rincorsa e l'ottenimento dei beni si fanno incerti e problematici. La sovranità sta nella giusta ponderazione tra bene e male ed è specificamente finalizzata al bene e ai beni. Qui sta la sua legittimità. Dove la ponderazione viene a mancare, lì subentra lo spazio illegittimo della sovranità, con i suoi vizi. In questo paradigma politico, saggezza e prudenza possono essere visti come prerequisiti della sovranità e della legittimità.

Lo scarto a confronto della posizione platonica appare fin troppo evidente. La torsione della praxis di contro alla episteme, però, non assume la dimensione di una scissione drammatica. Piuttosto, ridisloca il sostrato utopico del 'politico', dal possibile verso il necessario: dal possibile progettuale al necessario progettato, ecco il passaggio che possiamo concettualizzare. Se in Platone l'etica appare inestricabilmente avvinta al 'politico', in Aristotele essa si incardina strettamente sulla politica. Nel rapporto etica/'politico' primeggia l'elemento utopico; in quello tra etica e politica la scena è occupata dalla praxis. Assemblando criticamente la posizione platonica con quella aristotelica, è possibile incuneare una connessione tra la progettualità del possibile e la progettazione del necessario. Da qui il passo successivo è quasi scontato: ritematizzare il nesso utopia/praxis.

Aristotelicamente, la politica ha nella prudenza la sua virtù eccellente. Può essere assimilata e praticata con molte difficoltà, transitando per difficili esperienze, soltanto da cittadini superiori. Platonicamente, lo Stato non è risultato dell'esperire, bensì modello presupposto a cui conformarsi: non è mai diverso dalla progettualità eguale a se stessa; mentre, in Aristotele, la prudenza politica ha per oggetto "le cose che possono essere altrimenti". Questa distinzione è cruciale; così come è cruciale lo scarto complessivo che si coglie nel passaggio da Platone ad Aristotele. Come rileva con precisione V. Dini, incentrare unilateralmente l'attenzione sulla distinzione fa paradossalmente perdere di vista la polpa innovativa della posizione aristotelica: "Rischia di collegare troppo strettamente il pensiero aristotelico ai precedenti di Socrate e Platone e soprattutto di restringerlo, all'interno di questa tradizione, ad una contraddittoria evoluzione nel dilemma del prevalere ora della vita contemplativa, ora della vita attiva; ora della teoria, ora della pratica". Lo stesso Dini, sulla linea interpretativa proposta da Aubenque, correttamente individua come sostrato della riflessione matura di Aristotele sulla prudenza non il contributo di Socrate e Platone, "bensì la tragedia e, allo sfondo di questa, la tradizione popolare, dunque una tradizione preplatonica". Dal canto suo, afferma Aubenque: "L'originalità di Aristotele consiste, in realtà, in una nuova concezione dei rapporti della teoria e della pratica, conseguenza essa stessa di una rottura consumata per la prima volta nell'universo della teoria. Ciò che è nuovo in lui, non è un interesse inedito per l'azione — né Socrate né Platone erano stati dei puri speculativi —, ma la scoperta di una scissione all'interno della ragione, e il riconoscimento di questa scissione come condizione di un nuovo intellettualismo pratico". Sempre Aubenque, e ancora più densamente: "Se tutto fosse chiaro non ci sarebbe niente da fare, e rimane da fare ciò che non si può sapere. Perciò non si farebbe niente se non si sapesse, in qualche modo, ciò che si deve fare. A metà strada di un sapere assoluto che renderebbe l'azione inutile, e di una percezione caotica, che renderebbe l'agire impossibile, la prudenza aristotelica rappresenta — nello stesso tempo che la riserva, verecundia, del sapere — la possibilità e il rischio dell'azione umana. Essa è la prima e l'ultima parola di questo umanesimo tragico che invita l'uomo a volere tutto il possibile, ma solamente il possibile, e lasciare il resto agli dèi". Coglie ancora nel segno Dini, allorché legge in Aristotele, in accordo con Aubenque, nei "limiti della metafisica il cominciamento dell'etica".

Al confine della metafisica, in una direzionalità che si risospinge di nuovo tutta verso la terra, dunque, comincia l'etica. Su questo territorio limite e di scarto, il 'politico' e la politica non rappresentano più l'Olimpo degli uomini, ma il mondo del possibile necessario progettato. Per gli uomini, il possibile del possibile è il necessario.

Dove si situa qui il possibile progettuale? C'è un rischio umano ancora più tragico dell'umanesimo tragico di Aristotele? Pare di sì. Si tratta di una zona tra il progettuale e il progettato che non trova ancora accoglimento nello spazio della riflessione politica aristotelica. Nondimeno, è proprio Aristotele a spingere insistentemente verso questa zona. Riflessività del progetto e azione dell'intersoggettività non sono presenti nelle costellazioni dell'universo teorico aristotelico.