CAP. III

LA RADICE DEL DILEMMA DELLA SCIENZA POLITICA

 

 

1.

La filosofia e la metafisica di Platone al vaglio della critica aristotelica: due direttrici di sviluppo della metafisica occidentale

Il Platone dei "Dialoqhi" e delle "Lettere", non solo quello del "Fedro", teorizza l'insufficienza qualitativa e l'immaturità del linguaggio in confronto alla filosofia, al punto da consigliare di guardarsi bene dal lasciare per iscritto le proprie idee filosofiche. Nel "Protagora", con riferimento ai sofisti e ai politici, mette in bocca a Socrate parole categoriche e sprezzanti: "Se uno fa delle domande, succede loro come ai libri: non hanno nulla da rispondere né da domandare; ma se uno chiede loro anche solo un poco di quanto sta scritto in essi, risultano come vasi di bronzo percossi, non smettendola se qualcuno non li ferma" (PROTAGORA, 329a). Ed è Platone stesso a scrivere direttamente a Dionigi: "Guardati che questa mia dottrina non capiti tra uomini ignoranti. Non ci sono infatti dottrine capaci più di questa a muovere il riso della gente; come d'altra parte non esistono dottrine che, in chi è adatto, formino oggetto di più alta ammirazione, dottrine capaci di infondere più viva fiamma di entusiasmo. Bisogna farsele dire più e più volte, bisogna incessantemente ascoltarne l'esposizione, per molti anni; finalmente, come fossero oro, purissime appaiono" (II LETTERA, 314a). Nella stessa lettera possiamo leggere: "Guarda di non aver da pentirti per qualche indiscrezione che ti ha fatto oggi divulgare quanto non si doveva. Provvederai nel modo più sicuro a salvare la dottrina non affidandola alla scrittura. Sarà bene imparare tutto a memoria. Vedi, le cose scritte è impossibile che non finiscano preda del volgo. Per questo motivo appunto io non ho mai affidato alla scrittura una sola parola relativa a questo argomento. Non vi è quindi una scrittura di Platone, nessuna; non ce ne sarà mai; e quelle che si vanno indicando come tali, sono di Socrate, quand'era nel tempo bello e nella pienezza della vita" (314b-c). Ciò perché il pensiero filosofico - e il suo in particolare - "non è possibile esprimerlo con parole come l'oggetto delle altre scienze. Ma dalla lunga convivenza, dalla trattazione in un comune di esso, nasce improvvisamente una luce nell'anima, come accesa da un fuoco sfavillante e poi ci nutre di sé medesima" (VII LETTERA, 341b-d).

La stessa legge scritta è una specie di uscita dal senno: "Se poi si vedono scritti di qualcuno, siano leggi di un legislatore o scritti di qualsiasi altro tipo, se quegli è davvero serio, non è stata questa per lui la cosa più seria, la quale sta nella parte più bella che egli possiede. Ma se la cosa più seria è stata da lui con piena serietà affidata allo scritto, allora davvero non gli dèi bensì gli uomini gli hanno tolto il senno, per dirla con Omero" (VII LETTERA, 344c-d). E, infatti, quando capita a lui di scrivere "Leggi" (per Siracusa e per il suo Stato ideale), così autoironicamente commenta: "Questo ora dobbiamo prendere in considerazione ed esaminare bene noi che con le leggi giochiamo un saggio gioco da vecchi e così ovviamo alle fatiche del viaggio" (LE LEGGI, 685a). Gioco: perché le cose più serie dell'uomo sono riposte nel fuoco sfavillante della luce dell'anima; non nelle legqi. Saggio: poiché le leggi si ispirano alla giustizia e attorno ad essa ruotano. Princípi ispiratori e linee direttrici dell'azione del sovrano - e della sovranità - sono scienza e giustizia (POLITICO, 293d). La luce dell'anima umana va oltre la scienza e la giustizia e sta più in profondità radicata. Ecco perché la verità non è delle leggi, ma delle idee che improvvisamente accendono la luce dell'anima: "Le leggi sono copie della verità" (POLITICO, 300c). La dimensione della scienza e della legge è mimesi; quella dell'anima e delle idee è vita. L'arte stessa è mimesi e la poesia, in particolare, cattiva mimesi: "il poeta è un cattivo ordinatore politico dell'animo del singolo" (REPUBBLICA, 605b). Al pensiero filosofico soltanto è affidato il compito di accedere al mondo delle idee e delle essenze e, per questo, "stimola nell'uomo la vera serietà" (TIMEO, 59d). Un motivo in più per non giocare a prendere sul serio la filosofia, la quale è verità a misura in cui non è scienza e legge. Il sapere più alto è quello che nasce dallo sguardo rivolto alle idee; non, invece, quello costruito nella caverna sulle ombre della mimesi (FEDRO). L'anima produce idee: cioè, vita. Scienza e leggi producono opera: cioè, mimesi.

La dialogicità eidetica costituisce uno dei fuochi della filosofia platonica ed è questo fuoco che non rinveniamo corposamente presente in Aristotele; fuoco che, più tardi, scompare addirittura in Hobbes, poiché assunto come contraltare negativo del sapere matematico (ELEMENTI DI LEGGE NATURALE E POLITICA, 1640 circa). Se riconduciamo l'alterità platonicamente istituita tra scrittura e oralità, filosofia e linguaggio, vita e mimesi a quella da Aristotele concettualizzata tra essenza e qualità, meglio risalta la svolta aristotelica.

Come abbiamo visto, in Platone non è rintracciabile un rapporto di coincidenza speculare tra linguaggio e verità, attenendo il primo al come, alla qualità, e la seconda al che cosa, all'essenza. Nella risposta di Socrate a Menone, Platone ribadisce questa fondamentale mancanza di relazione simmetrica: "Non sapendo che cosa essa sia come potrei conoscerne le qualità? Ti sembra che forse senza conoscere che sia Menone si possa sapere ad esempio, se sia bello, ricco, nobile, o il contrario?" (MENONE, 71b). Tra essenza e qualità, verità e linguaggio si fissa una connessione asimmetrica e, ancora più decisivamente, non si dà qualità e non si dà linguaggio, se non a partire dall'essenza e dalla verità. Costituita l'essenza, si può parlare di qualità. Il linguaggio nomina le qualità dell'essenza: perciò, non è la verità. L'essenza stessa è la verità.

Quanto consistente dev'essere stata questa ontologia eidetica, se la ritroviamo intatta agli inizi del XX secolo nel "Tractatus" di L. Wittgenstein, opera convenzionalmente classificata come la summa del neopositivismo. Nel "Tractatus" (segnatamente nell'articolato della proposizione n. 3: "L'immagine logica dei fatti è il pensiero"), Wittgenstein afferma: "Gli oggetti li posso solo nominare. I segni ne sono rappresentanti. Posso solo dirne, non dirli. Una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa essa è". Come ha modo di osservare G. Agamben, relativamente alla VII lettera di Platone, qui ogni "significazione linguistica" ha una "struttura necessariamente scissa", governata dalla "insanabile differenza" tra essere e qualità, che ne affonda la "specifica debolezza". La dissimetria, che lo stesso Wittgenstein scandaglia come pochi altri, è interna al medesimo piano del linguaggio: tra nome e discorso proposizionale. Veramente, come osserva Agamben, l'origine della dissimetria va fatta risalire ad Antistene, il fondatore della scuola dei Cinici, da cui è successivamente ripresa da Platone. Ecco il punto di partenza: l'aforisma di Antistene, "Vedo il cavallo non la cavallinità". Il nome appare indifferente in confronto al fatto sensibile. Da qui il soggiacere della regola scritta o consuetudinaria alla natura autosufficiente del nome e dei bisogni naturali ed etici. Il nome qui esclude il discorso: "Il piano del discorso è sempre già anticipato dall'ermeneutica dell'essere che è implicita nei nomi e della quale il linguaggio non può rendere ragione". Ancora Platone: i primi elementi "non hanno logos. Ciascuno, esso stesso su se stesso, può soltanto essere nominato, ma non è possibile aggiungervi altro col discorso, né come è né come non è; così gli aggiungerebbero l'essere e il non essere, e, invece, se si vuole dirlo esso stesso, non si deve aggiungere nulla" (TEETETO, 201e).

Il linguaggio nomina; il nome chiama. Linguaggio e nome si escludono costantemente: il nome non ha logos. Nulla può aggiungersi alla sostanza prima: "non le appartiene altro che di potersi nominare, ha soltanto il nome" (TEETETO, 202b). Il discorso non aggiunge e non toglie. Il possesso del nome è nel nome: è del nome. Il nome possiede il nome e nessuna altra cosa può possederlo. Sottraendosi al discorso, al logos, il nome si sottrae alla dialettica parmenidea vietata tra essere e non-essere. Eppure, sempre e ancora in sintonia col divieto eleatico di pensare il non-essere, il nome finisce proprio con il rappresentare la dialettica dell'essere. Altrimenti detto: il logos è senza dialettica; soltanto il nome ha dialettica ed è dialettico. Quanto cammino rispetto a Parmenide! Ma quanto si rimane ancora troppo vicini a Parmenide! A proposito del rapporto tra Platone e Parmenide si è, giustamente, parlato di "parricidio". Eppure, in questo "parricidio" qualcosa resta di inconcluso, di interrotto e non portato fino alle estreme conseguenze. Sarà proprio Aristotele a portare fino in fondo il "parricidio" nei confronti di Parmenide.

Che il possesso dell'elemento primo altro non sia che il suo nome, indica la debolezza del logos che, attraverso la proposizione che nomina le cose, non può far altro che costruire ímmagini del mondo. Per Wittgenstein, il pensiero è immagine logica dei fatti. La razionalità del discorso non impedisce che il logos sia anche concatenazione e stratificazione di immagini. Oppure, come direbbe Platone, copie e imitazioni del vero: mimesi. E infatti: "Uno stato di cose è "pensabile" vuole dire: Noi ce ne possiamo fare un'immagine". Ma è vero, come dice Wittgenstein, che la "totalità dei pensieri veri è una immagine del mondo"?. E che, dunque, "Ciò che è pensabile è anche possibile"?. Sul punto, le proposizioni di Wittgenstein si discostano dagli asserti platonici: la dissimetria tra nome e logos viene meno. La razionalità del logos afferra il pensiero e lo riduce a immagine logica del mondo, ponendolo in colleganza lineare con il pensabile. Ma il possibile pensabile è cosa altra dal possibile sensibile. Solo quest'ultimo è pensabile ed accoglibile entro una logica. Il nome, in Platone, è essenza originaria; non già, come nel Wittgenstein del "Tractatus", segno primitivo. Non può smembrarsi, perché è, platonicamente, il prima e il tutto. È, perciò, essenza a cui possono essere attribuite soltanto qualità. Platone intende sottrarsi alle paludi degli universali, proprio non facendo impigliare l'essenza e il nome nella logica del logos(). Per lui, il logos è la dimora degli universali che fanno perdere l'individualità e la soggettività. La dialettica dialogica di Platone fa del rigetto dello scientismo del logos il suo perno forte. Il logos sottostà al nomos. Nell'irriducibilità del nome rispetto al nomos sta la primarietà e la superiorità del nome. Tutte le rivalutazioni del linguaggio hanno, perciò, un carattere immediatamente antiplatonico e descrivono una curva ontologico-ermeneutica difforme che principia con Aristotele e tocca il suo punto più alto nel XX secolo con Heidegger, in cui il nesso di essere e linguaggio è consustanzialità dell'un termine all'altro e la stessa esperienza della morte passa attraverso il linguaggio.

Tra i tanti paesaggi misti che la curva ha disegnato nel XX secolo uno, in particolare, merita di essere segnato. A un lato del panorama, troviamo il Wittgenstein del "Tractatus", nel quale la potenzialità del linguaggio è riconosciuta e ripartita tra il saper e poter dire e il poter e dover tacere: tutto rimane fermo e impigliato nelle maglie del linguaggio, anche quando esso rimane impotente e, perciò, deve restar muto, poiché: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere". All'altro lato, scorgiamo Heidegger, per il quale il linguaggio è la casa dell'essere, il modo specificamente umano col quale l'uomo abita il tempo e si spinge a fare esperienza della morte: parlando e tacendo, il linguaggio dice e decide della vita e della morte.

Nell'ultimo paragrafo del presente capitolo, si esaminerà espressamente la reazione aristotelica al corpus dottrinario vitale della costruzione filosofico-metafisica di Platone e la svolta, così, in positivo delineatasi per la storia del pensiero occidentale.

2.

Dallo Stato-unità di Platone allo Stato-pluralità di Aristotele

In Platone, la filosofia è come rigettata e rifiutata dalla politica e si riversa e rinserra nel 'politico'. Ma, al tempo stesso, essa opera la scissione, la differenza. Da qui la conseguenzialità del passaggio di rottura aristotelico: non la filosofia può scardinare la metamorfosi politica che conduce alla tirannide, bensì la prudenza, la saggezza. Platonicamente, la metamorfosi politica è viziosa, poiché la tirannide altro non è che un "cambiamento che si opera nella democrazia" (REPUBBLICA, 654a). Se in Platone è il sapere a "salvare" il potere, in Aristotele il potere è "salvato" dalla prudenza, dalla praxis deliberatrice che scevera tra bene e male e opera per il buon vivere, sulla base del contingente e del mutabile. La "riduzione a uno" presente nello Stato ideale platonico viene confutata alla radice: "È chiaro che se uno Stato nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà più neppure uno Stato, perché lo Stato è per sua natura pluralità e diventando sempre più uno si ridurrà a famiglia da Stato e a uomo di famiglia" (POLITICA, II, 1261a). Nella metamorfosi tendente all'unità, dunque, riposano le ragioni del vizio e della distruttività. Il capovolgimento della posizione platonica non poteva essere più secco: la tirannide non è nella metamorfosi plurale, bensì nell'impedimento che di essa viene fatto dall'alto: nel processo di costruzione dello Stato-unità. Ne discende che: "chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe lo Stato" (POLITICA, II, 1216a).

Ma la critica aristotelica allo Stato-unità di Platone procede in uno con la confutazione della democrazia, considerata forma specifica di riduzione a uno. Sono le forme politiche dell'unità che rappresentano, in Aristotele, il centro politico vizioso: non importa, se nelle sembianze del totalitarismo di Stato o in quelle dell'assemblearismo democratico. Se in Platone il passaggio vizioso irreparabile è democrazia-tirannide-democrazia, in Aristotele non meno irreparabile appare l'inevitabile prolungamento della democrazia in demagogia. La polis democratica consegna il potere all'assemblea dei cittadini e, pertanto, non a tutte le classi sociali, ma ad una in particolare, per quanto la più numerosa. Aristotele la assume, perciò, come deformazione e degradazione della politeia, modello ottimale di co-stituzione politica, in cui il governo dei più resta finalizzato all'interesse di tutti (POLITICA, IV, 4 e 5).

Tra sovranità e cittadinanza non esiste un legame di coincidenza immediato. La costituzione politica è il ponte che coniuga reciprocamente l'una in funzione dell'altra, in vista dell'interesse di tutti e, per questa via, di un'eguaglianza che tenga conto delle diseguaglianze. Essa non può essere che opera complessa, modellata sulla varietà sociale. La metamorfosi politica è necessariamente quanto di più complesso si possa immaginare ed è essa che si erge quale contrappeso ai limiti della tirannide e della democrazia.

Nella sua dinamica, la costituzione politica appare come la risultante della riflessività della politica su se stessa. La prassi politica, riferita a un modello costituzionale, si verifica e corregge proprio producendo prassi politica. Il quadro ideale di riferimento, recepito dalla costituzione politica, rimane l'invariante di fondo della ricerca dei beni, a cui è, in ogni caso e sempre, subordinata la prassi politica. Il circolo chiuso "dalla democrazia alla democrazia" viene sottoposto a strappo: democrazia e tirannide sono due forme specifiche di unità politica, oltre le quali si insedia la critica operata dalla costituzione politica, alla ricerca delle forme politiche della pluralità. Tirannide e democrazia vengono egualmente, anche se ognuna in forma autonoma e differente, individuate come avversarie di un effettivo processo di arricchimento sociale. Non costituiscono soltanto il risultato di una dinamica bloccata, ma sono anche tra gli agenti principali del blocco politico. Parafrasando le fini e approfondite riflessioni di E. Canetti sul nesso paranoia-potere, possono concettualizzarsi come forme politiche dell'anti-mutamento.

L'aporia dell'utopia platonica è implicata dall'assunzione dei giochi di rovescio tra democrazia e tirannide come orizzonte insuperabile del gioco politico. In altri termini: il 'politico' non riesce ancora a pensare se stesso al di sotto e al di sopra della democrazia e della tirannide. Nel loro ripetersi fatale, il sopra e il sotto del ciclo politico rimangono insuperabili. Aristotele, invece, ha il coraggio di pensare la politica oltre le forme esistenti, recuperando alla prassi le dimensioni del possibile. Non cessando di essere critica della tirannide, la politica si pensa al di là della democrazia.

Tuttavia, le costellazioni del possibile non trovano ancoraggio nella soggettività che precede il contingente. La praxis interviene a cose fatte e sui fatti; così come il linguaggio, in Aristotele, non interviene mai nel pre-linguistico e nel pre-verbale. L'utopico, quale progettuale possibile, viene letteralmente fagocitato dal decorso del necessario e del possibile. L'aspetto tragico della politica in Aristotele sta propriamente qui: il titanismo umano contro la dura necessità è giocato interamente nei domini del possibile, ma deprivato dell'elemento utopico. Critica delle forme politiche e autoriflessività della politica restano senza un decisivo elemento di oltrepassamento: l'utopia, la quale viene sempre prima della politica e sta sempre tutta fuori della politica. Per tradurre in espressioni più moderne: il piano politico e la pianificazione restano senza progetto e progettualità. L'utopia, quale trascendimento operato dalla soggettività storica e quale movimento discontinuo della storia, è assente. Il soggetto della politica si incarna nella costituzione politica, la politeia, che regola nella direzione ottimale la metamorfosi. Il tragico sta qui proprio nell'assenza del "soggetto politico" titolare della metamorfosi; proprio nell'interpretazione continuistica e realistica della storia.

Oggetto della politica è la regolazione costituzionale della metamorfosi. Ma questa regolazione è senza soggetti che non siano pure e semplici istituzioni, meri reticoli e aggregati di potere. Se Stato-pluralità in Aristotele non è sinonimo di democrazia, anzi è confutazione della stessa democrazia, quale il soggetto plurale deputato alla costruzione storica di esso? Questa la domanda senza risposta. Il medesimo pluralismo contemporaneo è elusivo su questo terreno.

La fondazione utopica dello Stato è anche richiesta di fondazione storica, la quale ha anche un carattere di fabbricazione soggettiva. Sul piano del 'politico' e della politica, l'utopia e la storia possono incontrarsi, se le espressioni del potere non si ritorcono in forme di dominio. Il possibile progettuale utopico costituisce la critica più fertile e fondata non tanto delle forme del potere, ma del potere come forma. L'esercizio di tale critica deve trovare un centro di applicazione e vivificazione nella soggettività storica. L'operazione marxiana di focalizzare l'asse del trascendimento del dato storico nella logica della lotta di classe, imperniata su una classe investita di universalità e assunta come unica e più alta "forza produttiva" dell'emancipazione sociale e della liberazione umana, si mostra sicuramente restrittiva. Nondimeno, aperta rimane la questione di chi opera il trascendimento, del come e del verso dove dell'emancipazione e della liberazione. In Aristotele, tale questione trova risposte etiche. In maniera veramente singolare e imprevista, l'attenuarsi della politicità della politica corrisponde al grado zero della presenza della utopia nella politica. L'etica non solo si confonde con la politica, fino a esercitare un'azione di supplenza nei suoi confronti, ma surroga l'elemento utopico.

Non è ancora sufficiente pensare la politica oltre la democrazia. Per l'oltrepassamento della democrazia viene richiesta un'opera di fondazione storica che attinga al fuoco dell'utopia. Autocritica della politica e critica del potere debbono procedere in parallelo. Con Aristotele, la politica si conquista definitivamente uno statuto plurale, al cui interno sono ricondotti i più densi momenti dell'attività speculativa e intellettuale. Fuori, lo spirito dell'utopia rimane senza materia umana. Il coraggio politico di perseguire e attingere il possibile resta attaccato ad una autolimitazione di partenza: l'agire politico è sempre un'azione secondaria, una reazione alla storia. Il ciclo politico viene a subordinarsi linearmente al ciclo storico. La politica si trasforma, in un certo senso, in un sottosistema della storia. Se da Aristotele gli uomini hanno appreso il coraggio politico, è stato Platone a trasmettere loro il coraggio storico.

Conciliare coraggio politico con coraggio storico ha il senso di riprendere il cammino da un punto di frattura, da una interruzione, per aprire e condurre il passo della storia e della politica a una territorialità nuova. Se con Aristotele, lo Stato è capace di accogliere in sé le diversità, perché non dovrebbe essere possibile ricercare forme di unità superiori e più generali che ricomprendano la differenza specifica di storia e politica? Una forma di governo politico è tanto più esecrabile e oggetto di critica, quanto più si erge ad assoluto universale comprendente la stessa storia. All'opposto, non va sottaciuto che più una forma politica si subordina al divenire storico, più incatena l'emancipazione e la liberazione dell'umanità a un punto morto, le cui sofferenze e i cui tormenti sono inenarrabili. Molteplice e diverso non risiedono unicamente nella politica e nella storia. Giustamente Aristotele: "uno Stato non consiste solo di una massa di uomini; bensì di uomini specificamente diversi, perché non si costituisce uno Stato di elementi eguali" (POLITICA, II, 1261a). Uno Stato di elementi diversi, inoltre, si costituisce sempre nella storia, le cui condizioni sono sempre un concentrato di differenze articolate. La potenzialità del differente, il suo carattere di individualità, viene cantata da Aristotele con un trasporto quasi poetico: "é il bene di ciascuna cosa che conserva ciascuna cosa" (POLITICA, II, 1251b). Ma ancora, e più politicamente: "se il giusto non è lo stesso in rapporto a tutte le costituzioni, è necessario che ci siano anche differenze di giustizia" (POLITICA, V, 9, 1309a).

La politica e lo Stato hanno una connotazione plurale, come plurale è la dimensione del contingente e della dinamica storica. La giustizia stessa e i paradigmi della costituzione politica debbono ispirarsi al principio delle differenze. Il principio dell'inclusione politica, in Aristotele, è modellato su quello della differenza. Criterio politico regolativo diviene la molteplicità delle strutturazioni e rappresentazioni sociali. La politica si genera come impossibilità dell'esclusione del molteplice. Si potrebbe dire: dove il molteplice viene respinto e l'uno cristallizzato, lì non v'è politica. La politica si costituisce e costruisce sul molteplice. Nella sclerotizzazione dell'unità la politica muore e, morendo, scatena effetti distruttivi. Lo Stato veramente politico è, perciò, lo Stato-pluralità. Politica è operare e mantenere differenze, per modo che ciascuna cosa abbia, possa ricercare e mantenere il proprio bene. Di contro stanno le costituzioni politiche che non operano per il "vivere bene", per quanto tutte legittime: siano costituzioni fun-zionanti come orpello formale per la "dittatura della minoranza"; siano esse il fondamento politico e giuridico della "dittatura della maggioranza".

Qui tra dittatura e democrazia non viene istituita un'antinomia assoluta. Esse si diversificano per una diversa intensità e concentrazione del potere e per una differente consistenza della loro base di rappresentatività. Nella stessa polis democratica e fino a tutto il periodo aureo di Pericle, a prescindere dall'esclusione degli schiavi, degli stranieri, dei minori e delle donne, la dialettica assembleare dell'agorà accentua il frazionismo fazioso e lo stillicidio di alleanze mobili e contingenti attorno a interessi particolaristici. È nella logica della democrazia il tendere alla formazione di maggioranze e minoranze, in una sorta di dialettica a catena di stimolo/risposta che attorno a ogni domanda costituisce una risposta maggioritaria, senza spesso riuscire a entrare nel merito dell'efficacia e della legittimità della soluzione di maggioranza e della proposta di minoranza. Da qui il frantumarsi della volontà in una miriade di interessi escludentisi a vicenda e il conseguente attivismo frenetico, per il prevalere di questo o quell'interesse particolare. Sempre da qui un formidabile effetto di riverbero: la paralisi decisionale, l'estenuante immobilismo politico sulle questioni costituzionali veramente rilevanti. Aristotele è ben consapevole di questo cortocircuito della democrazia, nella stessa misura con cui respinge ogni forma più svelatamente assolutistica, unica e, perciò, distruttiva assunta dallo Stato.

Lo Stato-pluralità aristotelico tiene l'assieme delle determinazioni sociali e il suo carattere di molteplicità non poggia sull'eliminazione della singolarità. È "sintesi sociale" e, al tempo stesso, forma gravitante attorno al pullulare di centri motivazionali e di interesse, a ognuno dei quali riconosce cittadinanza. Conosce e sa la necessità. Ma non perde mai di vista l'occasione storica. Si cimenta sempre con il vario irrompere del caso. Il fine del "vivere bene" non è strutturato su prescrizioni etiche rigide, in base alle quali modellare i mezzi. Mezzi e fini sono liberi gli uni rispetto agli altri, ma anche per proprio conto. Il perseguimento del "vivere bene" è una ricerca ininterrotta. L'approntamento dei mezzi è il prima e il dopo di tale ricerca. Mezzi e fini hanno un valore in sé stessi, oltre che nella colleganza che li interconnette.

Quello aristotelico è Stato-pluralità, poiché non spezza mai la trama continua di collegamenti e distinzioni fra quattro determinazioni fondamentali: caso, occasione, necessità e fine. La sua è un'architettura pluralistica sul piano genetico-cognitivo, ancor prima che sul piano strettamente politico e storico. La scoperta e la tematizzazione della categoria della prudenza è la chiave di volta dell'intero edificio. È la prudenza che fa si che caso, occasione, necessità e fine "vengano messi in opera per spiegare la possibilità di scegliere razionalmente nel campo del futuro e del possibile". Stato-pluralità anche perché si insinua nella pluralità del tempo, delle sue forme e delle sue articolazioni. Scelta consapevole e prudente che parte dal presente è, nel contempo, scelta ragionevole e prudente del futuro possibile. Davvero qui la decisione è saggia.

Ma è sufficiente la decisione saggia a costruire il futuro possibile, sul groviglio inestricabile di caso, occasione, necessità e fine? Una deviazione possibile e ragionevole, parafrasando Aristotele e ammiccando a Platone, sembrerebbe quella di affiancare alla decisione saggia l'utopia saggia. Ciò che non troviamo ancora tematizzato in Aristotele è proprio il nesso utopia/decisione, alla cui individuazione siamo condotti proprio da Platone e Aristotele. In epoca post-aristotelica, il pluralismo della prudenza di Aristotele si sfalderà, partorendo il primato dell'occasione con i Peripatetici; quello del caso con gli Epicurei; quello della necessità con gli Stoici.

Intercalare la decisione tra utopia e saggezza smuove il panorama di alcune delle concettualizzazioni più accreditate. Niente può parer così lontano dalla saggezza come l'utopia. Niente più contrario alla saggezza dell'utopia: questa stratificazione di senso accompagna gran parte della storia della civiltà e della cultura. Eppure, elementi decisionali e saggi sono agevolmente rinvenibili ben dentro il "regno" dell'utopia. Altrettanto evidenti appaiono le tracce dell'elemento utopico all'interno del processo della responsabilità etico-politica, della creatività storico-sociale e dell'immaginazione artistica . Si tratta ora di addossarsi ancora più strettamente al crinale filosofico, epistemologico e politico della posizione di Aristotele.

3.

Filosofia, scienza e politica in Aristotele: alla radice del dilemma della scienza politica

La svolta aristotelica ha premesse assai profonde e profondamente muta e capovolge la filosofia e la metafisica di Platone. Investito è il rapporto tra teoria e prassi, a partire dalla scissione della modalità di sapere, distinte in sapere teoretico e sapere pratico. Fin dalle "Categorie", questa è una costante aristotelica. La prassi ha un carattere e una matrice scientifica, in quanto si relaziona specificamente al particolare, alla dinamica peculiare di ciò che è in movimento. Attraverso la prassi, il sapere si relaziona alla dinamica storica del divenire. Con ciò la prassi diventa connota virtuosa che sapientemente distingue e opera per il bene. La molla etica, rimasta troppo a lungo rinserrata nei confini del sapere teoretico, si prolunga e misura con la conoscenza del bene, ormai compiutamente traslata in pratica del bene. Suprema virtù politica è questa conoscenza, è questa pratica concreta: è Pericle al posto di Talete. Ritroviamo ancora il modello platonico di prassi come modalità del "vivere bene". Ma, ora, essenza e qualità del bene implicano una relazionalità che non conserva molto della posizione platonica.

Aristotele disseziona la struttura semantica della posizione etica di Platone, distinguendo tra bene come fondamento e virtù come movimento. Al fondamento spetta una natura eminentemente astratta-teorica, mentre il movimento riveste qualificazioni prevalentemente storiche. Il nesso platonico di teoria e prassi si spezza. Si riunifica, mantenendo ben ferma l'autonomia delle differenze, a un livello di densità concettuale più alto. La virtù etica è prassi della virtù, entro cui si coglie la conoscenza della verità. Verità e prassi si ricongiungono attraverso la conoscenza: nella prassi buona germoglia il fiore della conoscenza.

La verità si dota di un doppio statuto: (i) l'immaterialità pura della riflessione speculativa propria del sapere teoretico; (ii) la materialità storica della condotta virtuosa. È noto come Aristotele correli il bene all'essenza e la virtù alla qualità (ETICA NICOMACHEA, 1096a). Ne segue che il bene sta al fondamento come la virtù sta al movimento. Ma cosa è fondamento?: "Il fondamento non può essere detto su un presupposto. Altrimenti vi sarebbe un fondamento del fondamento. Il fondamento è presupposto, e sembra essere anteriore a ciò che viene predicato" (Fisica, 189a). Siamo qui prossimi a quel tornante concettuale in cui Aristotele definisce il "principio di non-contraddizione" (METAFISICA, IV libro).

Affinché si possa dire la singolarità, è necessario che il singolo sia singolo e non altro: eguale a sé e, perciò, se stesso. Il fondamento è detto dal linguaggio, poiché presupposto e antecedente al linguaggio medesimo; anzi, l'occasione e la possibilità del linguaggio attecchiscono sull'anteriorità del fondamento. Il linguaggio pensa e predica la singola cosa, perché essa è una e altera. Il linguaggio significa A, proprio perché A esiste ed è proprio A: il linguaggio ne discopre il senso irreconciliabile con tutto quello che non è A. La possibilità di significazione del linguaggio nasce da qui. Aristotele approssima un punto limite, in cui "il linguaggio non significa più su-qualcosa, ma significa-qualcosa... Solo perché vi è un punto in cui i linguaggio significa-uno, è possibile significare su quell'uno, pronunciare proposizioni dotate di senso".

Già nelle "Categorie" è approssimata questa area semantica: "Sembra per altro che ogni sostanza debba significare un "qualcosa". Ora, per le sostanze prime è incontestabile e vero che esse significano un tode ti: ciò che viene rivelato è infatti indivisibile ed uno di numero; per le sostanze seconde sembra però che esse significhino un tode ti data la forma della denominazione - quando si parla si parla ad esempio di un uomo o animale - ma in effetti ciò non è vero ed esse significano piuttosto una qualità - il soggetto non è affatto uno come la sostanza prima, ma invece l'uomo e il cavallo si dicono di molti. D'altra parte nemmeno significano semplicemente una qualità come il bianco. Il bianco infatti non significa niente altro che una qualità. La specie e il genere determinano invece la qualità rispetto alle sostanze: significano infatti una certa sostanza qualitativamente determinata" (CATEGORIE, 3b). Il significar qualcosa è del fondamento che è "sostanza prima". Tutti gli altri soggetti possono esclusivamente qualificarsi. In base alla distinzione aristotelica di essenza e qualità, possiamo distinguere non soltanto tra soggetto e soggettività, tra uomo e l'uomo A, ma anche tra tutti i diversi uomini A, B, C... Non solo: possiamo distinguere le molteplici e diverse qualità che hanno i molteplici e diversi uomini. L'effetto liberatorio della significazione linguistica è tremendo. Aristotele costruisce la proliferazione linguistica e la germinazione del senso, incardinando il logos sulle qualità, sulle forme. Se il dubbio platonico in ordine alle potenzialità del logos, e segnatamente della significazione linguistica, è imparentabile col Wittgenstein del "Tractatus", la ridondanza aristotelica della significazione è familiarizzabile col Wittgenstein delle "Ricerche".

Il fascino e l'arcana complicatezza dell'avventura filosofica di Wittgenstein risiedono, in gran parte, nella circostanza che nella vita e nell'opera di un solitario filosofo rinveniamo intrecciati e vertiginosamente condensati tutti i motivi intimi e collisivi su cui Platone e Aristotele fondano la metafisica occidentale. Interrogandosi intorno all'essenza del linguaggio, della proposizione e del pensiero, Wittgenstein così si esprime: "Infatti, anche se nelle nostre indagini ci sforziamo di comprendere la natura del linguaggio - la sua funzione, la sua struttura - tuttavia non sono queste le cose a cui mira questa domanda. Essa non vede nell'essenza qualche cosa che già è aperta alla vita, e che diventa perspicua rimettendola in ordine; bensì qualche cosa che sta sotto la superficie. Qualcosa che sta all'interno, che possiamo vedere se penetriamo la cosa con lo sguardo, e che un'analisi deve portare alla superficie. "L'essenza ci è nascosta": questa è la forma che assume ora il nostro problema. Chiediamo: "che cos'è il linguaggio?" "Che cos'è la proposizione?". E la risposta a queste domande deve essere data una volta per tutte; e indipendentemente da ogni esperienza futura"". Fatte salva questa fissità sotterranea, queste anteriorità e interiorità, in superficie quello che si coglie è un movimento secondo ordine, regole, usi: "in realtà, se le parole "linguaggio", "esperienza", "mondo", hanno un impiego, esso dev'essere terra terra, come quello delle parole "tavolo", "lampada", "porta"". Il tragitto compiuto dal-le parole è una sorta di metafisica alla rovescia, si giunge al terra terra dal superiore: "Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano". L'area semantica dell'impiego quotidiano è quella del gioco linguistico, in cui ogni linguaggio è una forma di vita: ecco il motivo conduttore, il tema onnipresente in tutte le proposizioni delle "Ricerche". Nella storicità materiale del linguaggio, della dialettica della variazione all'infinito dei giochi linguistici, la produzione di senso non ha tregua e la comunicatività è ogni volta irripetibilità e rotazione: qualità si aggiunge (e moltiplica) a qualità e l'essenza in questo gioco non mette naso. Il significato, pertanto, non è un'atmosfera "che la parola ha con sé e che si porta dietro ogni sorta di impiego". L'uso stesso del linguaggio è un gioco linguistico. E gioca anche chi usa il linguaggio: "non possiamo dire che chi usa il linguaggio non possa non giocare un tale gioco... chi pronuncia una proposizione e la intende, o la comprende, sta eseguendo un calcolo secondo regole ben definite". Il fatto è che: "I giochi linguistici sono... termini di paragone, intesi a gettare luce, attraverso somiglianze e dissimiglianze, sullo stato del nostro linguaggio" . Termini di paragone: ponti gettati tra le qualità per commensurarne il grado di somiglianza e dissimiglianza. Il linguaggio, dunque, è anche tecnica cognitiva, interna a un sapere pratico: "Comprendere una proposizione significa comprendere un linguaggio. Comprendere un linguaggio significa essere padroni di una tecnica". Seguire una regola è prassi diversa dal credere di seguire la regola: tra la presupposizione del fondamento e l'essenza, da un lato, e la proposizione predicata (l'attività) dall'altro, v'è una differenza incolmabile. Nel suo atto, la significazione linguistica si biforca e crea punti di incrocio all'infinito: "Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un'altra parte, e non ti raccapezzi più". Come si vede, il filo argomentativo qui estrapolato dalle "Ricerche" è fortemente in sintonia con la posizione aristotelica. Altrettanto chiaro è lo scarto. Ma, al di là del legame di implicazione/differenziazione tra la posizione di Aristotele e quella di Wittgenstein, questi temi sono in se stessi da sottoporre a scandaglio, a lato della crucialità del nesso fra tradizione e storia, libertà e tempo, responsabilità ed esistenza.

Aristotelicamente parlando, la significazione linguistica può significare soltanto le qualità. Ma, al tempo stesso, è soggetto logico dell'ente (uomo, animale, etc.). Tale duplicità funzionale, nota opportunamente De Carolis: "permette di nominare le cose e garantisce così la dicibilità degli enti individuali". Ci imbattiamo qui, effettivamente, in un'aporia platonica che soltanto nella "Metafisica" Aristotele supererà risolutamente. La designazione dell'ente è (appunto, platonicamente) inseparabile dalla significazione della qualità. Coglie ancora nel segno De Carolis: "Giacché solo la loro relazione permette in generale il discorso: un certo soggetto può essere infatti designato solo da un termine che in sé significa una sua qualità, e viceversa può essere significata nel linguaggio solo la qualità che appartiene ad un soggetto".

Nel Wittgenstein delle "Ricerche", come si è appena visto, questa inseparabilità è rotta: per così dire, è separata fin dall'inizio. In realtà, ciò che propriamente Wittgenstein separa è qualche cosa di strettamente autobiografico: si accomiata dalla presenza di Platone aleggiante nel "Tractatus". È nella definibilità e inventività dei soggetti che si radica la più fertile e pregna produzione di senso. Ciò richiede anteriormente la più radicale delle fratture tra essenza e qualità, designazione e significazione. Il retaggio platonico nelle "Cate-gorie" di Aristotele sta al retaggio platonico nel "Tractatus" di Wittgenstein.

La rottura dell'orizzonte platonico richiede la riformulazione della domanda originaria: non più il "che cosa è", bensì il "perché": dalla domanda intorno al fondamento alla domanda intorno alla causa. L'interrogazione ricomprende nel quesito il "che cosa" è" col "perché": "conoscere il "che cosa è" è anche la stessa cosa che conoscere il "perché"" (Analitici Secondi, 90a). Ancora più esplici-tamente: si dà conoscenza scientifica di ciascuna cosa, "quando riteniamo di conoscere la causa per cui la causa è e di sapere che essa è la causa di quella cosa e che non è possibile che abbia luogo in modo diverso" (Analitici Secondi, 71b) Curi al riguardo, giustamente argomenta di "prima vera e propria teoria epistemologica della storia del pensiero occidentale". Per Aristotele, la conoscenza effettiva, il sapere vero, non è - come ancora presso i Sofisti - questione meramente accidentale, bensì: "versa intorno alle cause e ai princípi" (METAFISICA, VI, 1026b). Attraverso il disvelamento della causa, il soggetto identifica l'oggetto della pratica scientifica. Altrimenti detto: la causa è l'oggetto della scienza. Trovando il proprio oggetto, la scienza assume un carattere di necessarietà. Aristotelicamente: "l'oggetto della scienza dunque è necessario" (ETICA NICOMACHEA, VI, 3, 1139b). La modalità del sapere scientifico ha, perciò, una struttura dimostrativa: dimostra la causa, risalendo ai perché. È attraverso la dimostrazione che si accede alla scienza. Trovare le cause è la dimostrazione mediante la quale la scienza si fonda e si mostra come scienza, erigendo la propria superiorità a confronto delle forme del sapere congetturale e dell'immaginazione simbolica caratteristica dell'arte. Il linguaggio della scienza ha una valenza scientifica, poiché linguaggio dimostrativo: non intuisce e non crea; bensì dimostra. La scienza è ontologicamente separata dall'essere. Le pratiche scientifiche non ineriscono all'essere in quanto tale; piuttosto, ne dissezionano parti limitate, insistendovi sopra unilateralmente. La distinzione tra filosofia e scienza risuona più marcata: la filosofia soltanto "studia l'essere in quanto essere e le sue proprietà essenziali" (METAFISICA, IV, l, 1003a). Essere, enti e princípi primi degli enti rientrano nel dominio della filosofia, in quanto "studio universale" dell'essere, "considerazione dell'ente, e di ciò che ad esso appartiene in quanto ente"; in quanto afferramento degli stessi assiomi, quali princípi primi pertinenti e "riguardanti tutti gli enti in quanto enti" (METAFISICA, IV, 3, 1005a). La dimostrazione degli assiomi non è afferrabile dalla scienza. Anzi: non si dà dimostrazione alcuna degli assiomi. Dimostrare gli assiomi è impossibile, poiché è sugli assiomi che si regge la dimostrazione. La scienza, nella dimostrazione delle cause, si serve degli assiomi: non può revocarli in dubbio, essendo indiscutibili e non soggetti alla dimostrazione. Un assioma, proprio perché lo si qualifica come principio primo, non è oggetto della scienza. La struttura dimostrativa della scienza non può risalire oltre i princípi primi; bensì parte da essi. Aristotele è lapidariamente esplicito: "chi si applica allo studio delle scienze deve conoscerli già questi assiomi e non chiederne la dimostrazione nel corso dello studio" (METAFISICA, IV, 3, 1005b). Ancora più netta e salda si staglia, a questo punto, la differenza tra filosofia e scienza: "colui che ha conoscenza degli enti in quanto enti, deve possedere i princípi più saldi di tutti. Questi è il filosofo. E il principio più saldo di tutti è quello intorno al quale è impossibile trovarsi in errore, perché è necessario che tale principio sia il più noto di tutti" (METAFISICA, IV, 3, 1005b).

La scala dei princípi delimita la struttura delle proprietà dell'ente. Il principio più saldo è quello che si spinge alla proprietà primordiale dell'ente: il "principio di non-contraddizione". Niente può trovarsi di più intimo e di più giusto e assiomatico: quanto maggiore sarà la sua indimostrabilità, tanto più numerose e salde saranno le dimostrazioni delle cause che è possibile da esso inferire. Aristotele definisce, così, questa specie di "principio dei princípi": "è impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga a una stessa cosa e per il medesimo rispetto" (METAFISICA, IV, 3, 1005b). Qui la divaricazione tra filosofia e scienza si spinge fino alla distinzione delle cause e degli enti. Ogni ente è riconducibile a una specificità causale e soltanto a quella. Ogni causa rientra nella storia di un ente e, ove compaia nell'evoluzione di un altro ente, non avrà mai lo stesso peso e gli stessi effetti. Ogni causa, pertanto, ha un effetto univoco; tutt'al più, effetti omogenei. La coppia causa/effetto descrive una parabola specifica a seconda della specificità dell'ente in causa.

Si colloca qui uno spartiacque tra epistemologia e scienza. La prima ha un carattere prescrittivo; la seconda, un carattere denotativo. Se è vero, come osserva Curi, che questa linea epistemologica rimane ancora avvinta al filone parmenideo-platonico, è pur vero che la distinzione aristotelica tra epistemologia e scienza è di capitale importanza. L'interconnessione aristotelica di modello logico- epistemologico e di procedimento pratico-scientifico si specifica, in particolare, come autonomia del modello a confronto del procedimento. L'individuabilità e separabilità di modello e procedimento vengono da Aristotele affiancate da una crescente mobilità del campo della dimostrazione, articolato tra (i) ciò che non può essere diversamente da ciò che è e (ii) "accadimenti che si verificano per lo più" (ANALITICI SECONDI, A30, 87b).Tanto il modello logico quanto la procedura scientifica ineriscono, così, anche al campo dei possibili (ANALITICI PRIMI, A13, 32b). Vi sono, pertanto, cause che hanno valore universale, con riferimento a ciò che necessariamente è e deve essere; e, inoltre, cause probabilistiche legate a eventi e fenomeni per lo più verificantisi. Nel primo caso, la prescrizione logica è una sorta di anticipazione epistemologica; il teleologismo epistemologico appare come una seconda natura della scienza, attraverso cui prende corpo l'avvicinamento alla natura prima delle cause. Nel secondo, il vincolo epistemologico si flette in termini probabilistici, onde risalire alla natura più vicina e "per lo più vera" del vero. La flessione epistemologica annette alla teleologia scientifica il probabilismo del caso, assunto come causa possibile e probabile.

Entro la divaricazione epistemologia-scienza non compaiono soltanto le invarianti della struttura logica, a cui fanno eco le varianti regolate dalla procedura scientifica, ma anche le variabili che la struttura logica non riesce a prescrivere e la procedura scientifica, necessariamente, non riesce a dimostrare. Il campo di ciò che per natura è "atto a verificarsi", non è senza un residuo. Aristotele concettualizza il residuo come campo di ciò che in natura non deve necessariamente verificarsi e che, nondimeno, "per lo più" si verifica. Tale flessibilità consente alla struttura logico-epistemologica delle regole prescrittive di categorizzare e prevedere non soltanto il necessario e il certo; bensì anche il "per lo più" possibile e il più probabile. La struttura della dimostrazione compie una conquista fondamentale: alla dimostrazione per asserto, incardinata sulla logica binaria inclusione/esclusione, vero/falso, si accompagna la dimostrazione per ipotesi. Come "di ogni cosa noi diciamo o che è sempre di necessità o che è per lo più" così "ogni scienza è di ciò che è sempre o per lo più" (METAFISICA, XI, 8, 1065a). Epistemologia e scienza anche in riferimento al "per lo più", dunque.

Tuttavia, esistono scienze che oltre al necessario e al "per lo più" debbono ammettere ulteriori livelli di articolazione. Soltanto la matematica è, per Aristotele, scienza esatta: presa in mezzo all'itinerario tra il necessario e "il per lo più". Ma oltre e al di qua di tale itinerario? Qualunque sia l'orizzonte di senso a cui si fa riferimento e qualunque sia il campo delle attività: "é proprio dell'uomo colto richiedere in ciascun genere di ricerca tanta esattezza, quanta ne permette la natura dell'argomento" (ETICA NICOMACHEA, I, 3, 1094 b). Le scienze della natura, proprio in quanto tali, sono scienze inesatte, poiché il loro oggetto è fornito dalla materia, la quale "può essere altrimenti da come lo è per lo più" (METAFISICA, II, 2, 995a).

Sicché la scienza politica, platonicamente finalizzata al retto e al bello, si dota di argomentazioni e procedure in via di svolgimento per ipotesi. La materia oggetto della scienza politica, esattamente come la natura, non è suscettibile di esattezza. Ciò non impedisce alla scienza di essere vincolata e di fare impiego di asserti prescrittivi. Strana scienza quella politica: una scienza che non può essere scienza e che è e rimane scienza. Dalla radice platonica dei dilemmi del 'politico', perveniamo al dilemma aristotelico della scienza politica: la distanza è stellare.

In Platone, l'abbraccio ricompositivo di filosofia e scienza aveva costituito il campo del 'politico'. In Aristotele, la divaricazione di epistemologia e scienza fonda la scienza politica, come scienza veramente autonoma, dotata di una propria razionalità. Ora, la scienza politica presuppone la razionalità politica, indipendente e non più ottenuta per ricalco negativo da quella filosofica o scientifica. Ma la scienza politica condivide con tutte le scienze della natura uno statuto dilemmatico. In essa troviamo tutti gli elementi del passaggio (i) dal necessario al più probabile e (ii) dal più probabile semplicemente al possibile. Diversamente, nella scienza esatta - la matematica - la sequenza si ferma al primo passaggio: dal necessario al più probabile. Donde sta, dunque, la dilemmaticità propria ed esclusiva della scienza politica? Quella di essere idea e forma. L'antinomia platonica lascia qui spazio a una unità dilemmatica. Le forme costituzionali e le componenti sensibili, storiche e sociali che le costituiscono e ne sono regolate non compaiono semplicemente come elementi corruttori delle idee del retto e del bello, ma anche come rigenerazione dell'idea.

Politicamente, il nesso idea/forme è aggressione operata dal carattere di finitezza delle forme avverso il carattere imperituro dell'idea: aggressione dalla quale l'idea, senza perdere il suo statuto, ricava una significazione storica. La vita delle forme politiche non è sempre o soltanto corruzione, degradazione delle idee. È pure storicizzazione e vitalizzazione delle idee. La metamorfosi delle forme politiche è atto di rinascita e di verificazione del possibile progettuale, dell'elemento utopico connaturato alla idealità del 'politico'.

In Aristotele, è vero che il 'politico' dismette i panni dell'utopia, per farsi scienza politica nel senso appena indagato. Non viene perduto, però, il legame con l'idealità che regge il gioco politico e pilota verso il giusto e il bello le costituzioni politiche e il genere umano. Rimane, questo, un presupposto fondante e fondativo, a tal punto forte che Aristotele, il più delle volte, può permettersi di darlo per implicito. Del resto, è praticamente impossibile che una scienza politica, veramente tale e veramente autonoma, possa svilupparsi, senza il costante riferimento storico progettuale al retto e al bello. Lo spostamento operato da Aristotele è, piuttosto, un altro: l'insistenza sull'articolazione e lo sviluppo delle forme politiche a scapito della progettualità pura del 'politico'. Ma anche questo è un passaggio obbligato: in quanto scienza, la scienza politica non può essere altro che scienza della genesi delle forme politiche. La scienza politica rigenera l'idealità del 'politico', ma non può essere niente di più di un reagente alla corruzione innescata dalla genesi delle forme politiche.

Se qui appare tematizzato il tragitto di ritorno dalla forma all'idea, inesplorato ed enigmatico permane il percorso che conduce dall'idea alla forma. Ora, un itinerario di tal genere è impercorribile per la scienza politica e per qualsiasi altra scienza. Occorre una teoria della genesi delle idee in campo politico. Il salto dal 'politico' di Platone alla scienza di Aristotele ha ancora vacante questa regione intermedia. Ciò che in Platone diviene ricomposizione di filosofia e politica, con conseguente primato della filosofia, in Aristotele restringe troppo la sfera di espressione delle idee, privilegiando oltremodo la vita delle forme. Ai dilemmi del 'politico' si cumula il dilemma della scienza politica, mancando ancora l'intermediazione perspicua della teoria politica. Tra filosofia e scienza, qui la teoria politica compare come il "terzo escluso". Tra unità e molteplicità, tra idee e forme rimane vuoto il posto specifico della mediazione e della significazione della teoria. La dialettica della metamorfosi politica colloca sempre agli estremi trasformazione e passaggio, da un opposto all'altro, imperniati sulla polarità costruzione/ distruzione: "Innanzitutto è chiaro che se conosciamo ciò per cui le costituzioni si distruggono, conosciamo pure ciò per cui si conservano: i contrari producono i contrari e la distruzione è l'opposto della conservazione" (POLITICA, V, 8, 1307b). Ne discende che le idee non intervengono mai nel gioco delle forme contro/e verso le altre forme. Così come in Platone nel gioco delle idee a mezzo delle idee non interferivano mai le forme. Sul punto, la dialettica aristotelica rovescia specularmente quella platonica.

Il dilemma della scienza politica, in Aristotele, risiede anche nel rilievo che essa compare come un dilemma: opposizione irreparabilmente divaricata dalle idee. La divaricazione ha una valenza positiva, giacché consente di fondare una specifica scienza poliica. Ammette un residuo negativo, in quanto non viene colmato dal campo della teoria lo spazio vuoto, così, creato tra filosofia e politica. La produzione e la mediazione filosofico-teoriche risultano troppo risospinte indietro verso lo sfondo. La recisione del legame teorico: ecco il nodo irrisolto che si lascia dietro la riflessione politica aristotelica. Fondazione e autonomizzazione reciproca di filosofia, scienza e politica debbono accompagnarsi con la fondazione e l'autonomizzazione della teoria politica. Sarà Machiavelli a colmare il vuoto e a fornire prime soluzioni del complicato rompicapo. In lui il triangolo filosofia/teoria/scienza diverrà meglio discernibile nei suoi elementi portanti. Ma senza la riflessione di Platone (prima) e Aristotele (dopo) non solo le soluzioni sarebbero state di difficile reperimento, ma il problema stesso non si sarebbe potuto porre nel suo più pregnante significato.