Cap. I

CRISI DELLE REGOLE E DEMOCRATIZZAZIONE DECRESCENTE

Stato, lavoro e sindacato nell'itinerario di Gaetano Vardaro

 

1. Questo libro non è semplicemente il riconoscimento del valore di un itinerario culturale che ha avuto il manifesto merito di innovare la ricerca in materia di diritto del lavoro, con una apertura insolita e stimolante verso altre discipline (dalla filosofia alla sociologia, dalla storiografia alla politologia e all'economia). Esso salda anche un vecchio debito di riconoscenza. Difatti, uno dei primi contributi di Gaetano Vardaro in tema di diritto positivo (nella classica veste delle "Note a sentenza") commentava una sentenza relativa ad una controversia di lavoro individuale che aveva per "protagonista" chi scrive; il legale di fiducia era proprio lui, Gaetano Vardaro. Pur nella limitatezza dell'argomento e del fatto, quelle note di Gaetano Vardaro sono indicative dell'acume col quale veniva impostata e risolta una problematica assai vasta (1).

Secondo gli approcci prevalenti e la prassi consolidata, a quel tempo (ma non solo) si era come delineato uno spartiacque funzionale tra le controversie individuali e collettive, limitando l'intervento attivo del sindacato esclusivamente alle seconde. Nel caso specifico. si trattava dell'intervento di "sostegno" del sindacato per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro in una controversia di lavoro individuale. La coordinazione era tra l'art.28 dello Statuto dei Lavoratori e il nuovo rito del lavoro del 1973. Pochi, se non nessuno, erano i precedenti in materia; ancora più scarno il contributo della dottrina sul tema. Nella impostazione e conduzione del processo prima e nelle note alla sentenza dopo, Gaetano Vardaro con rara perizia e solido ragionamento riuscì a far affermare l'idea forza che dimostrava come interessi e diritti collettivi ben potevano venir vanificati o denegati anche in micro-avvenimenti pertinenti all'orizzonte delle controversie individuali. Era una lettura quasi "eretica" della problematica in questione; non per questo infondata o illegittima sul piano dell'interpretazione e dell'adesione alla norma (anzi). Soprattutto, era un "atto politico" assai coraggioso e poco convenzionale all'interno della stessa sinistra.

Si era, infatti, in un momento storico in cui alla interpretazione estensiva dello Statuto dei Lavoratori dei primissimi anni '70 stava subentrando un'ermeneutica assai restrittiva da parte della giurisprudenza. È, quella, l'epoca in cui andava incubandosi, in maniera strisciante, un atteggiamento di netta contrarietà e preclusione alle fondamentali conquiste in tema di diritti individuali e collettivi fatte dai lavoratori e che avevano trovato il loro più alto punto di garanzia nello Statuto del maggio del 1970. Contrarietà e preclusione che esploderanno con grande fragore e clamore nel decennio successivo. Gaetano Vardaro allora "prese partito", avversando questo incipiente processo di restrizione degli spazi di "legittimità costituzionale" che, al contrario, lo Statuto dei Lavoratori, suggellando quella stagione di grande mobilitazione collettiva e rinnovamento culturale che fu il biennio 1968-69. Portare la Costituzione nei luoghi di lavoro era stato un "avvenimento epocale" che aveva letteralmente rotto gli "equilibri di potere" esistenti, i quali non riconoscevano ai lavoratori nessun margine di azione e di espressione, all'infuori della pura e semplice annessione alla "macchina produttiva". Non pare un azzardo concludere che Gaetano Vardaro, già nei suoi primi lavori degli anni '70, andasse muovendosi contro quel clima di ristagno culturale e restaurazione politica che caratterizzò i secondi anni '70 e che non risparmiò nessuna delle grandi forze della sinistra e del movimento sindacale. Ristagno e adattamento che furono e sono particolarmente evidenti nel campo del diritto del lavoro, il luogo che Gaetano Vardaro promuove come territorio elettivo e, nel contempo, come crocevia dei suoi molteplici interessi culturali. È, questa, un'elezione politica in un'accezione molto alta e assai particolare che, in un "doppio mulinello", lo porterà al "giuslavorismo weimariano" e, più ancora indietro nel tempo, alla ricerca delle "determinazioni ebraiche" del diritto del lavoro, facendolo collocare permanentemente all'ascolto delle tendenze della contemporaneità, come il "realismo americano" per esempio. Ma sempre ricercando nuove strade di uscita che solcassero avanti e indietro le distese del tempo.

La politicità di fondo delle sue scelte sta, forse, proprio nel suo particolare rapporto col tempo: col tempo, nei suoi studi e nelle sue ricerche; col tempo, nella sua personale esistenza. In ambedue i casi, sono rinvenibili un'ansia di cambiamento, un impegno radicale per approdi più significativi, dove il fuoco interno della passione, della speranza e dell'intelligenza riuscissero a trovare abitazioni più accoglienti. Forse, partendo da qui si può mantenere in vita all'infinito la sua opera e la sua vita fuggita potrà continuare a parlarci di lui e del tempo. I vivi parlano dei morti e i morti continuano a parlare dei vivi. Occorre mantenere aperto il dialogo e continuarlo, disponendo sullo stesso orizzonte di attesa e ricerca gli interrogativi nostri con gli interrogativi delle persone scomparse e che mancano. Dobbiamo a tutti delle risposte. perché tutti ci interrogano. Ed è soprattutto la morte che, muta, interroga la vita. Facciamo in modo che anche la vita interroghi la morte. Non per trovare "risposte razionali", ma per conservare dell'indicibile racchiuso nella vita e nella morte un respiro e un'immagine. per averne una cura strenua. Solo così i morti possono ritornare e dimorare con noi con una presenza amica e insostituibile. È necessario far posto alle loro domande e lasciarle scorrere. Dalla voce delle loro domande, ripercorrendone e allargandone l'eco, si può risalire alla vita che non è più e attualizzarla, facendone più intima esperienza e allestendo più ricche occasioni di trasformazione e libertà per noi stessi.

 

2. Fatta questa premessa, ci possiamo approssimare al "laboratorio teorico" di Gaetano Vardaro, cercando di sezionarne alcune costellazioni di senso fondanti. Come riferimento assumeremo l'antologia postuma curata da L. Gaeta, A. R. Marchitiello e P. Pascucci.

Uno dei primi nuclei tematici ad attrarre l'interesse di Gaetano Vardaro è quello che delimita il rapporto legittimità/legalità/ordine politico. I "problemi costituzionali" del conflitto e la crisi delle forme della politica borghese di fronte al conflitto rappresentano il livello che egli si accinge ad indagare in profondità. La sonda che egli impiega è quella della formalizzazione giuslavorista, in relazione alla metamorfosi degli apparati concettuali e degli ordigni statuali nella transizione di fine secolo verso la "società di massa". Non può sorprendere, se questo è lo sfondo, che egli sia tanto un attento lettore di Kafka. Musil e tutti gli altri protagonisti della straordinaria avventura culturale mitteleuropea a cavallo fra Otto e Novecento, quanto osservatore acuto dei nuovi orizzonti che, nello stesso periodo di tempo, il pensiero sociale, politico, economico e giuridico andava aprendo. Riprendendo una formulazione di G. Marramao, egli è stato fra i più qualificati indagatori del .'Laboratorio Weimar". Ora, questa espressione va probabilmente intesa come metafora che trascende lo specifico dell'esperienza della Repubblica di Weimar, per assumere il senso heideggeriano di "immagine di un'epoca". Del resto, è noto che egli approccia la tematica giuslavorista con chiavi di lettura pluridimensionali, con una attenzione costante e tutta particolare alla "questione della tecnica". Non appare casuale che uno dei suoi ultimi scritti (forse, il più complesso e denso di implicazioni, come acutamente suggerisce G. Giugni nella sua densa presentazione della antologia di scritti qui presa in esame) ritorni prepotentemente ad occuparsi della tecnica, in aperta correlazione con un tentativo di "rifondazione" della problematica giuslavorista. Similmente, non sorprende che questo tentativo sia accompagnato, se non preceduto, da una dura "resa dei conti" col funzionalismo sistemico, particolarmente nella versione "illuministica" di N. Luhmann. Tuttavia, questa dichiarata passione per il confronto teorico e per formalizzazioni concettuali di alto livello non fa velo sui problemi reali e sul destino, a volte angoscioso, che inquieta la collettività e i singoli. Entro questa luce va interpretato il suo interesse per un fine critico letterario e un originale e profondo "pensatore del negativo" come M. Blanchot e per la stessa parabola catastrofica emblematizzata dalla finis Austria.

Il diritto del lavoro è, per lui, universo e linguaggio precipuo che dice dell'articolazione e della trasformazione delle forme del potere. Costituisce la "linea rovente" specificamente deputata alla normazione aperta del conflitto sociale: dalle forme del conflitto industriale ai micro-conflitti pubblici e privati tipici delle società complesse. Per questo, il suo sforzo di addivenire ad una più rigorosa e articolata contestualizzazione della problematica giuslavorista è palesemente una riflessione sulla democrazia; e una riflessione critica, si tratta di aggiungere. Ciò che, in una certa misura, lo angosciava era il dover rilevare il restringimento costante dello statuto bifronte del diritto del lavoro, nella dottrina e nella giurisprudenza sempre più ridotto a mera leva di neutralizzazione codificatoria del conflitto e delle sue forme contemporanee di espressione. Il lato rigeneratore ed emancipativo su cui, con Weimar, il diritto del lavoro si era codificato andava progressivamente evaporando. È per rinvenirlo che egli si riconduce e parte dal "laboratorio Weimar", scoprendo e riscoprendo autori ingiustamente dimenticati e tematiche misconosciute. Il "dopo Weimar" ha segnato la perdita secca del segno e del senso del riscatto e della "resurrezione" immanenti al diritto del lavoro. Questa perdita gli pare proiettare la sua ombra nera ben oltre la terribile disavventura del nazionalsocialismo. Suo intento costante era proprio quello di ricostituire e ricostruire il profilo ambivalente del diritto del lavoro, nelle condizioni nuove e inedite della complessità sociale.

Le intenzioni di Gaetano Vardaro sono esplicite e subitaneamente dichiarate: "a Weimar si può tornare con l'occhio rivolto al presente" (2). In tale impostazione, il tempo presente ispira e guida lo sguardo sul passato. Ma il presente è, altresì, aperto al tempo futuro. Una nascosta, ma non per questa ineffettuale, tensione al futuro costituisce, pertanto, uno dei presupposti che fondano la riflessione e la ricerca teorica di Gaetano Vardaro. Questi appaiono il retroterra e l'orizzonte prospettico, a lato dei quali ancora più illuminante diventa la seguente affermazione: "Come va ormai sottolineando da qualche anno la storiografia più avvertita, l'esperienza weimariana può essere assunta a punto di partenza di una linea iniziale che, attraversando sia il new deal roosweltiano sia le diverse forme di fascismo in Europa (soprattutto il corporativismo italiano), congiunge fra loro un po' tutte le nuove forme politiche ed economiche dei sistemi occidentali" (3). Dunque: Weimar come transito condizionante delle forme politiche e degli assetti economici dei paesi capitalistici nel XX secolo. A Gaetano Vardaro interessa ispezionare tale transito a lato di due nodi tematici particolarmente aggrovigliati: "a) la novità dei meccanismi che nel sistema weimariano presiedono ai rapporti fra stato ed economia, da un lato, e a quelli fra politica e diritto, dall'altro; b) le modificazioni che parallelamente si determinano nel rapporto fra cultura (nel nostro caso cultura giuridica) e politica" (4). Ciò allo scopo di isolare sia la "spinta innovatrice" che "investirà il diritto del lavoro", sia le "ragioni del fallimento di quello specifico sistema giuslavoristico" (5). Il fatto rilevante, per Gaetano Vardaro, è che il diritto del lavoro, in Germania come altrove, si fonda come tale con Weimar (6). Ora, datare alla Repubblica di Weimar la fondazione di un veramente compiuto e organato sistema giuslavoristico vale come una triplice critica: (i) al sistema repressivo bismarckiano e guglielmino; (ii) alle stesse tensioni prerivoluzionarie e rivoluzionarie che si sviluppano in Germania a cavallo degli anni Dieci e Venti; (iii) alla posizione elaborata e fatta vivere dalla dottrina progressista, in specie dal "socialismo della cattedra" e dall'intellettualità più organicamente vicina alla Spd. In questo frangente del tutto particolare, Weimar e il processo che ne costituisce la gestazione assumono effettivamente il senso di un "punto di svolta". Sotto il profilo economico-istituzionale, il 1918 segnò non solo il tramonto del "laissez faire", ma anche il ribaltamento delle tradizionali politiche sindacali. Lo Stato, "mentre interveniva legislativamente nella disciplina dei rapporti dei privati (e soprattutto in quelli di lavoro) in maniera sempre più massiccia, abbandonava l'atteggiamento di repressione o di tolleranza per il sindacato, per passare alla fase del riconoscimento. Il lavoratore continuava ad essere visto come contraente individuale che, per non trovarsi in una posizione di inferiorità (economica e giuridica) nei confronti del datore di lavoro, aveva bisogno dell'intervento "perequatore" della legge. Ma la protezione statale accordata livello individuale non veniva più pagata (come avveniva sistema bismarckiano) con la repressione dell'attività collettiva: viceversa, quest'ultima veniva promossa sia sul piano aziendale (consigli aziendali), sia su quello professionale (sindacati)" (7).

Ricorrendo al contributo di due pensatori "weimariani" (Potthoff e Sinzheimer), Gaetano Vardaro può attestarsi su due iniziali e importanti livelli di indagine. Con Weimar, il diritto del lavoro:(i) si afferma come "diritto di coloro che, non disponendo di mezzi di scambio, si trovano obbligati a prestare lavoro salariato" (Potthoff); (ii) si distacca dal firmamento del diritto privato e si qualifica come "diritto degli uomini (formalmente) liberi" (Sinzheimer) (8). Le conseguenze sono con prontezza e acume individuate: "L'eguaglianza e la libertà venivano concepite non come formule vuote dietro le quali si nascondevano le più evidenti sperequazioni e illibertà, ma come obiettivo di politica legislativa. II contratto individuale di lavoro continuava ad essere visto come la 'cellula' del diritto del lavoro: solo che stavolta veniva interamente in rilievo la carica di illibertà e di disuguaglianza che esso celava"(9). Si stabilisce, così, un sistema di contrappesi normativi alla ridondanza del "potere contrattuale" del datore di lavoro. La legge, come già scrive K. Gerig nel 1914, funge quale elemento "moderatore e pacificatore fra le classi sociali" (10). Assieme a questa messa in forma della legge "la libertà di organizzazione sindacale, intesa come realizzazione al più alto livello della parità contrattuale compromessa sul piano individuale", doveva divenire uno degli "strumenti destinati a bilanciare l'acquisizione da parte del datore di lavoro di un potere contrattuale superiore a quello del lavoratore, individualmente considerato: in una, dovevano divenire gli strumenti idonei a ristabilire l'uguaglianza-parità nel contratto di lavoro"(11). Ecco qui identificata la struttura genetica bifronte del diritto del lavoro, di cui prima si argomentava. Siamo al cospetto di due facce della stessa medaglia, non sempre in accordo; anzi, sovente in aperta contraddizione. La razionalità di questo modello percorre la "legislazione sociale" di Weimar, trovando qualche precedente nelle "politiche sociali" di Bismarck e proiettando ben oltre Weimar le sue ripercussioni. Già Kelsen aveva avuto modo di affermare - come puntualmente colto da Gaetano Vardaro - che si assiste all'impiego politico della legge "come strumento di tecnica sociale per il raggiungimento di scopi politici" (12). La logica e la filosofia che plasmano questo modello li rinveniamo tanto nei modelli della "razionalizzazione" che in quelli della "socializzazione". Osserva prontamente Gaetano Vardaro che questo uso politico della legge, "benché inaugurato già da Bismarck, veniva ora ad essere non solo esplicitato, ma anche ribaltato politicamente" (13). Il progetto di socializzazione immanente alla cultura politica e giuridica di Weimar: (i) "smaschera" la funzione politica della legge; (ii) inserisce "immediati contraccolpi" nella cultura giuridica, dalla dottrina alla giurisprudenza (14). Nel contesto così determinato attecchisce e prolifera l'innovazione del diritto del lavoro: "L'insegnamento del diritto del lavoro ebbe uno straordinario incremento al punto che non vi fu università tedesca che non lo prevedesse" (15).

Alcune risultanze vanno analizzate più attentamente. Il distacco del diritto del lavoro dal diritto privato e la sua relativa autonomizzazione segnano lo spostamento dell'attenzione giuridico-politica dalla "legislazione sociale" alla "legislazione sindacale". Lo smascheramento del contratto quale forma di occultamento del potere e della discrezionalità dell'imprenditore e dello Stato - come già capillarmente investigato da Marx - porta ad interpretare il movimento sindacale e i conflitti di lavoro come controparte attiva dell'ordine politico-economico. Come è noto, la ricetta lasalliana prevedeva la ricomposizione di queste forme di conflittualità nel sistema democratico, attraverso l'integrazione legalizzatrice del movimento sindacale (16). Altrettanto nota è la dura critica sferrata a questo approccio da K. Korsch (17), uno dei massimi e più originali teorici - negli anni '20 - dell'autonomia della soggettualità operaia. Nel caso di Korsch, è mantenuta un'impostazione marxiana: si tratta, segnatamente, del discorso di Marx sul "doppio carattere" del lavoro vivo. Discorso che ispirerà in Italia, negli anni '60, un particolare filone di "operaismo teorico" (18), a cui attingerà, negli anni '70, il segmento dell'Autonomia Operaia che più si ispirerà all'elaborazione teorica di Toni Negri (19). Il punto limite negativo della posizione lasalliana è il postulato che instaura una identificazione tra movimento sindacale e movimento dei lavoratori, trasformando il rapporto di rappresentanza e riconoscimento sindacale in una pura e semplice articolazione dei poteri della società democratica. Ora, il processo di riconoscimento e integrazione del sindacato e dei lavoratori nelle sfere di decisione, azione e comunicazione del sistema democratico non per questo trasforma sindacato e lavoratori in soggetti deprivati di autonomia, non più titolari del "diritto di critica" e del "principio di libertà". Ma all'interno della socialdemocrazia il discorso lasalliano trovò entusiasti proseliti. Ancor oggi, a dire il vero, il movimento sindacale nelle società avanzate è variamente attratto da consistenti tensioni integrazionistiche che, con i "diritti del conflitto", rimuovono i diritti della critica, finendo col subire oltre misura la crisi dei meccanismi della rappresentanza politica e sindacale. Esiste un collegamento diretto tra la crisi del "doppio carattere" del diritto del lavoro e la crisi del "doppio carattere" dell'azione sindacale (19 bis). In tutti e due i casi, la prevalenza dei diritti di integrazione sui diritti della critica e del conflitto intenziona una crisi di identità. Crisi che isterilisce lo statuto del diritto del lavoro e fa girare a vuoto i ricorrenti modelli di rifondazione dell'azione sindacale. Appare quanto ma necessario cercare un nuovo bilanciamento costitutivo tra integrazione e conflitto. Recentemente, O. Negt ha pertinentemente e suggestivamente argomentato di fondazione di un nuovo "mandato sindacale". Ora, appare molto significativo che l'esplorazione di Gaetano Vardaro sul "Laboratorio Weimar" ci metta nelle condizioni di disvelare questa parabola critica in uno dei suoi punti di applicazione originari e nel suo corrispettivo sviluppo. Assai interessante, entro questa prospettiva di analisi. è valutare la soluzione che H. Sinzheimer dà al problema; soluzione destinata a influenzare grandemente la strategia della Spd. In Sinzheimer, non v'è posto per l'identificazione del movimento sindacale col movimento dei lavoratori (20). Solo il movimento sindacale ha, per Sinzheimer, "rilevanza giuridica". Sono le istituzioni sindacali che, in questo modello, vengono integrate nelle istituzioni politiche e non il movimento dei lavoratori in quanto tale. Col che il rapporto di rappresentanza sindacale, nel filone della migliore tradizione istituzionale tedesca, viene letto (anche se in maniera eterodossa) secondo la prospettiva del "dispositivo corporativo". Il sindacato è equiparato ad una sorta di "comunità" in rapporto di mutualità reciproca con le altre istituzioni/corporazioni della società. È possibile da qui inferire una nozione di "sindacato popolare", anziché di "sindacato operaio". Ne rimane pregiudicata la stessa idea di Stato: in quanto "rete di comunità corporative", non può che essere "Stato popolare". Ed è appunto lo "Stato popolare" la nuova forma Stato pensata per la Repubblica, come figura riconciliatrice del rapporto tra Stato e movimento sindacale, largamente compromesso in epoca bismarckiana e guglielmina. Stante questo retroterra concettuale, si può plausibilmente definire il discorso di Sinzheimer come una teoria organicistico-corporativa dello Stato. Se Lasalle conferiva al movimento sindacale un "mandato" onnipervasivo e totalizzante sui lavoratori, Sinzheimer assegna al sindacato un "mandato comunitario" non tanto in funzione della rappresentanza degli interessi, quanto in direzione della costituzione dello "stato popolare" come Stato delle comunità. I conflitti sociali e di classe, in tal modo, vengono trasformati in istituzioni delle differenze poste in comunicazione dallo Stato. Lo "Stato popolare" è, così, anche metacodice comunicativo, depositario del più alto senso e segno della comunità. Nella forma di istituzione comunitaria e comunicativa, il conflitto viene acquisito qui come figura attraverso cui ritorna la riconciliazione. Lo Stato che trasforma il conflitto in istituzioni e le istituzioni in comunità può essere definito come lo Stato della comunicazione e della riconciliazione. Se il conflitto è eccezione, il diritto del lavoro diviene conseguente regola dell'eccezione, proprio per le istanze comunicative e riconciliative che lo informano. La circostanza non è indicativa di una ricomposizione del diritto del lavoro nello Stato o di una identità Stato/diritto del lavoro. Piuttosto, il diritto del lavoro assurge al rango di uno dei criteri base di identificazione, formazione e costruzione dello "Stato popolare" e/o della Repubblica. Il "Laboratorio Weimar" ci consegna, in maniera non esplicitata coerentemente, ma tuttavia cogente, una nozione di diritto del lavoro quale criterio di identificazione dell'azione riconciliatrice e conflittuale dello Stato, tesa alla costruzione di un comune e superiore destino per tutti i gruppi (e/o comunità). Come si vede, questo approdo ricombina in un unico contesto il "pluralismo" di H. Preuss con l'"istituzionalismo comunitario" di O. von Gierke (21).

Otto Bauer, in uno scritto del 1924, definì il pre-Weimar e Weimar una situazione di "equilibrio tra le classi sociali" (22). Stante questo equilibrio, conclude Gaetano Vardaro, "costituzione non poteva non equivalere a compromesso" (23). Preciso è, al riguardo, il giudizio di F. Neumann, cui prontamente si rifà Gaetano Vardaro: in quelle condizioni storiche la "formazione della repubblica" denuda la sostanza nascosta di alcuni istituti contrattuali fondamentali, proprio edificandosi sopra di essi (24). L'equilibrio tra le classi sociali e la conseguente funzione equilibrante della costituzione di Weimar sono anche il frutto coerente dell'incompiutezza della rivoluzione del 1918, incapace di risolvere e prolungare sul piano della "legittimità" il problema della "legalità". L'aporia interna alla rivoluzione si risolve e proietta in un'aporia interna alla costituzione. Questa dilemmatica è finemente individuata da Gaetano Vardaro: "La costituzione doveva rappresentare la principale (anche se tardiva) forma di legittimazione politico-giuridica di quella contraddittoria rivoluzione del novembre del 1918. La quale, essendo priva di una sua immediata legittimazione politico-conflittuale, aveva scelto il piano della legalità come suo fondamento. Orbene, e proprio a causa di questo intreccio strettissimo che la legava alla rivoluzione del 1918, come quest'ultima fu una rivoluzione mancata, così la costituzione di Weimar fu, secondo la notissima definizione di Otto Kirchheimer, una 'costituzione senza decisione'" (25). I temi in questione sono di assoluta rilevanza e meritano un approfondimento.

È risaputo che, per Schmitt, nello "Stato legislativo" il parlamento assume una posizione di predominio, configurandosi come una vera e propria "corporazione legislativa". È altrettanto noto che nella sistematica schmittiana lo "Stato di diritto" è, in realtà, da intendersi quale "Stato legislativo", in quanto il potere viene esercitato "sulla base di una legge" e/o in "nome della legge" (26). Il "principio di legalità", in questa teorica, regola e domina l'azione di governo: nel senso che la legalità è qui postulata come termine opposizionale del governo. Ne discende, per Schmitt, che la "istanza legislativa non governa, né rende esecutive o applica le sue leggi, ma si limita soltanto a produrre le norme vigenti, in nome delle quali poi organi esecutivi soggetti alla legge possono esercitare il potere statale ... Il significato ultimo e più proprio del fondamentale 'principio di legalità' di tutta la vita statale consiste nel fatto che alla fine non si governa o comanda più, poiché vengono fatte valere soltanto norme impersonalmente vigenti" (27). Schmitt definisce un siffatto dispositivo "sistema di legalità chiuso". Il quale fonda la pretesa dell'ubbidienza e giustifica il fatto che venga accantonato ogni diritto alla resistenza. Qui la legge è una specifica manifestazione del diritto e la legalità è una specifica manifestazione della coazione statale" (28). Su questa base, Schmitt può isolare un postulato della filosofia del diritto contemporanea: la contrapposizione tra la legalità della norma ("il sistema chiuso") e la legittimità della volontà conforme al diritto, all'interno del dispiegamento verso lo "Stato totale che alla libertà antepone il piano" (29). In altri termini, si esprime una "tendenza verso la Stato amministrativo. Lo Stato totale è per sua natura uno Stato amministrativo, anche se si serve, sia come strumento sia come correttivo, della giustizia penale, civile, disciplinare, amministrativa o costituzionale" (30). Il "piano" della legalità, dunque, si oppone alla "libertà" della legittimità. Da qui, ancora, un contrasto tra legalità e libertà che nelle democrazie parlamentari si spinge fino all'estremo dell'irresolubilità. Le forme dell'irresolutezza qui indagata si palesano come coincidenza normativa tra il livello della legalità e quello della legittimità, con il secondo che finisce risucchiato nel primo. Che sarebbe come dire che l'ordine normativo legale risucchia e fagocita la libertà e il suo quadro di legittimità e legittimazione. C. Schmitt, anche sulla scia dell'analisi di O. Kirchheimer, coglie con precisione questo processo, salvo poi a rappresentarlo e a torcerlo verso soluzioni altamente conservative: "Legittimità e legalità sono qui ricondotte da un concetto comune di legittimità, mentre la legalità si pone proprio in contrasto con la legittimità. Perciò io considero corretta la formulazione del saggio di Otto Kirchheimer su legalità e legittimità il quale afferma che la legittimità della democrazia parlamentare "consiste ormai soltanto nella sua legalità" e che oggi manifestamente il limite legale viene equiparato alla legittimità" (31).

Dentro la "costituzione senza sovrano" irrisolto rimane soprattutto il nodo legalità/legittimità. Il "sistema chiuso della norma" non si sbilancia e dischiude né verso lo schmittiano Stato decisionale, né verso le forme della procedimentalizzazione amministrativa. Da questo lato, costituzionalmente parlando, Weimar resta chiusa in se stessa: non riesce né ad equilibrare i poteri, né a normativizzarli, né a sintetizzarli. Ma la questione non risolta della decisione non lascia il sistema giuridico-politico senza decisore. Piuttosto, mancano a decisore e decisione le fonti della legittimazione democratica. Sicché il celebre sintagma di Kirchheimer necessita di una non secondaria precisazione: costituzione senza legittimazione e decisione democratiche. Il sovrano, nell'architettura di Weimar, non riesce ad ancorare le fonti del proprio potere alle fonti della legittimazione democratica. Il che implica il ristagno delle forme e dei diritti, degli spazi e dei movimenti della libertà; e non riduttivamente con riferimento esclusivo ai meri processi di autodeterminazione della classe operaia nel rapporto di lavoro. Gaetano Vardaro coglie puntualmente questo limite interno profondo di Weimar, allorché osserva che il costituzionalismo weimariano non "ha saputo scegliere fra le due possibili strade dell'autodeterminazione; quella collettivo-sindacale e quella legislativo-protezionistica", limitandosi a "giustapporle" (32). Sta qui l'origine del "contrattualismo impossibile emergente dalla costituzione di Weimar" (33).

 

3. Nell'Introduzione (34) all'antologia degli scritti giuslavoristi di F. Neumann (35), Gaetano Vardaro ha modo di sottoporre a serrata verifica alcune "scatole concettuali" del pensiero giuridico-sociale weimariano, predisponendo al meglio, nel contempo, l'attrezzatura del suo magazzino teoretico. Alcuni dei temi cardine presenti. Sin dall'inizio, nella sua ricerca sono quelli del "corporativismo" e della "democrazia corporatista", assunti dai pensatori di Weimar come l'unica ancora di salvezza delle società post-liberali; ovviamente, in una versione radicalmente altra da quella fornita dai regime politici fascisti affermatisi in Europa. Ora, questi temi ritornano ad occupare il centro della discussione politica e filosofico-giuridica negli anni '80, sia sotto le versioni neoutilitaristiche che quelle neocontrattualiste.

Importante è, pertanto, registrare la "reazione" di Neumann a Weimar. Sinteticamente ed acutamente Gaetano Vardaro: "Neumann, attraverso la critica della democrazia collettiva, avvia quella revisione del concetto di democrazia corporatista che lo condurrà, nel corso dell'esperienza americana, ad aderire ad una visione ultrastatale del pluralismo: lo stato sarà visto non più come la sintesi delle pluralità sociali, ma come uno dei soggetti del pluralismo sociale e non esclusivamente statale. Pur continuando a riconoscere che Weimar ha costituito il primo esempio di organizzazione politico-economica della società post-liberale (e quindi il prototipo del Welfare State), Neumann comincerà progressivamente ad avvertire che quest'esempio, essendo stato costretto in una concezione staticamente panstatualista, ha finito col contraddire se stesso: e quindi ha impedito, anziché facilitare, la costruzione di quella 'democrazia contrattata', che pure egli considera ancora come l'ultima spiaggia delle democrazie occidentali, ed ha generato solo un sistema 'semicorporativo'" (36).

I concetti in ballo e che cominciano a "danzare" sono, dunque, quelli di "democrazia corporatista" e di "democrazia contrattata". Da qui uno spostamento dei baricentri concettuali dal "panstatualismo" weimariano al "pluralismo" anglosassone. Fondamentale in questo mutamento di prospettiva è, per Neumann, l'incontro con H. Laski e con la "London School of Economics", come ben mette a fuoco Gaetano Vardaro (37). Il "panstatualismo" weimariano viene mitigato e rettificato dal "pluralismo" inglese. Fermo, tuttavia, permane l'orizzonte strategico della "democrazia contrattata" che, però, è ora il prodotto dei "soggetti del pluralismo". Lo Stato non si configura più come la sintesi organicistica delle "comunità" e/o delle "istituzioni corporative"; diviene esso stesso una comunità tra le altre. un'istituzione corporatista fra le altre istituzioni corporatiste. È lo scambio contrattato ora il metro di misura della risorsa politica e il codice comunicativo infra/intra/extraistituzionale. Scambio fra le comunità e contrattazione tra le istituzioni e gli istituti della rappresentanza, dunque, come nuova "base" della democrazia. Pare questa, a Neumann, la via d'uscita dall'impasse weimariana. Ma questa soluzione, come ripetutamente coglie e sottolinea Gaetano Vardaro, non riesce a recidere del tutto il cordone ombelicale con l'architettura dei saperi giuridici e delle prassi politiche di Weimar. Soprattutto, è la figura del "contratto" (in tutti i suoi derivati giuridico-politici) che aporeticamente viene, da un lato, disvelata nella sua funzione reificante e opprimente e, dall'altro, innalzata e ribaltata come nuovo codice normativo-comunicativo.

Nel saggio su Khan-Freund, innanzi citato in nota, Gaetano Vardaro ha modo di inseguire i rivoli fluenti della discussione sulla "democrazia contrattata" da un'altra e ben diversa angolazione di osservazione: quella della contrattazione collettiva, all'interno di un modello di diritto del lavoro pluralista. Per Khan-Freund, il collective bargaining si regge non sul diritto del lavoro; bensì sui diritti del lavoro (38). Ma sentiamo Gaetano Vardaro: "L'esaltazione della struttura procedimentale della contrattazione collettiva, collegata come è, da un lato, all'esclusione della qualificabilità del contratto collettivo alla stregua di un comune contratto di diritto privato e, dall'altro, al recupero delle radici naturalistico-prestatuali dei rapporti contrattuali, equivale ad ammettere l'esistenza di aree di produzione normativa integralmente extraslatali, e quindi a configurare il diritto statale non più come, 'il' sistema di produzione normativa che esaurisce o comunque ricomprende tutte le possibili forme di produzione normativa, ma solo come 'uno' di questi molteplici sistemi. Se accanto al diritto statale esiste un processo normativo che si sviluppa in ogni sua fase (da quella della produzione a quella dell'applicazione) fuori dello Stato, vuol dire che quest'ultimo è solo uno dei sistemi normativi in cui si organizza la società: è insomma un 'sottosistema' del sistema sociale, come ne esistono tanti altri, prima fra tutti il (sotto) sistema di relazioni industriali" (39). Come egli osserva con acume, viene qui recuperato criticamente e ricontestualizzato un elemento portante del paradigma dei "socialisti della cattedra". L'intervento di sostegno della legge alla contrattazione non avviene più a livello di struttura, bensì a quello di funzione: il movimento strutturale rimane infrastatuale; quello funzionale è decisamente extraistituzionale e in esso la legge compare "come semplice legal Framework di una contrattazione collettiva che rimane extrastatale" (40).

Il dilemma è qui tra (i) l'interventismo statuale autoritario nella sfera della contrattazione collettiva e, più in generale, sul terreno costitutivo dell'autonomia della rappresentanza e della condotta sindacale, e (ii) il non-interventismo vigente nell'area del Common Law. Come è noto, tutta l'esperienza teoretica post-weimariana di Khan-Freund è votata alla integrazione critica delle due tendenze. È grazie alla penetrante "assimilazione" di tale esperienza che Gaetano Vardaro si avvia a sciogliere il nodo: "interventismo sì/interventismo no". Non senza prima aver assunto un'altra importante categoria concettuale: quella della società asimmetrica, elaborata nel 1972 da S. Coleman. In forza di tali acquisizioni storico-teoriche, per Gaetano Vardaro, riproporre negli anni '80 la stessa scelta "non-interventista" operata nel 1948 dal costituente repubblicano significa "... non solo dimostrare una persistente dipendenza culturale dall'esperienza del ventennio fascista (perché allo spettro dell'interventismo autoritario si opporrebbe solo un liberalistico non intervento), ma anche dimostrare di non comprendere quanto la "asimmetria fra individui in carne ed ossa ed individui artificiali si destinata a diventare uno dei fondamentali banchi di prova del carattere pluralistico delle società occidentali"" (41).Lungo questo tornante di analisi va sottoposto a confutazione un mito: "il mito dell'inconciliabilità fra immunities e rights ... se questo mito, in qualche modo trasmesso dall'esperienza inglese, comincia ormai a messere in discussione anche nel Regno Unito (ove si riconosce, anzi, che proprio la sua conservazione ha costituito la premessa politico-giuridica della legislazione tathcheriana sulle Trade unions), la sua acritica conservazione nel nostro paese rischia di rivelarsi un fattore di compressione e non di sviluppo della libertà sindacale. Soprattutto il concetto di sindacato maggiormente rappresentativo può rappresentare una minaccia in questo senso: nato da un'esigenza di 'effettività' sindacale, esso tende nella legislazione più recente a trasformarsi in strumento di legittimazione dell'organizzazione sindacale, opportunamente compensata da una rilegittimazione statale dall'alto" (42). Ne consegue che: "Il contributo legislativo alla definizione di 'nuove regole di organizzazione sindacale' può diventare perciò non uno strumento di surrettizia intrusione statale sulla libertà sindacale, ma un'occasione per rilanciare questa funzione 'effettuale' con cui il concetto di sindacato maggiormente rappresentativo era stato originariamente introdotto" (43). La questione, dunque, non è più: se giuridificare; piuttosto, diventa: come e cosa giuridificare" (44).

Gaetano Vardaro riprende il tema e lo affronta frontalmente in un intervento del 1988 (45). Egli afferma immediatamente che il vero "problema di fondo" non è dato dall'estenuato e sterile dibattito su "autoregolazione o eteroregolazione", quanto, piuttosto, dall'approntamento di un "modello di regolazione integrata", capace di far fronte e oltrepassare la "crisi funzionale" che differenziatamente attanaglia legge e contrattazione collettiva (46). Crisi funzionale che vede inverarsi un singolare doppio movimento: il trasferimento di "funzioni regolative" dal legislatore alla contrattazione collettiva e la richiesta delle organizzazioni sindacali di un intervento legislativo che faccia loro superare lo stallo della "rappresentatività senza rappresentanza"(47). Ne deriva uno scenario così rappresentabile: "...questa riscoperta sindacale della legge sarebbe l'immagine speculare di quella riscoperta legislativa della contrattazione collettiva come strumento di alleggerimento della crisi regolativa della legge, e sarebbe perciò destinata a produrre un intreccio fra autoregolazione ed eteroregolazione, che sarebbero solo la sommatoria di due crisi regolative"(48).

La "persuasione delle regole" gioca, indubbiamente, un ruolo fascinatorio occulto. Ma la situazione presente, ancor più di quella dell'epoca, descrive un'altrettanto inoppugnabile "crisi delle regole" e dei "criteri regolativi", soprattutto nelle loro versioni universalistiche. In questa crisi rimane già avviluppato e disgregato il colossale tentativo di ingegneria giuridico-politica di Weimar. Le costituzioni formali post-weimariane - come quella italiana - hanno l'innegabile vantaggio di collocare il loro "spazio di esperienza" e la loro "stella della redenzione" in un quadro di recupero e rideterminazione delle forme della democrazia e dei valori democratici. Su quest'assialità strategica è possibile superare decisamente l'orizzonte weimariano che rimane amaramente e vistosamente al di qua della prospettiva e del codice della democrazia, indulgendo verso modelli pancomunitari e panstatuali. Ma non sembra che le costituzioni formali e materiali post-weimariarne abbiano saputo fertilizzare adeguatamente tale risorsa. È , perlomeno, dagli anni '60-70 che in tutta l'area capitalistica avanzata la "crisi della democrazia" si accompagna ad una ben più preoccupante crisi delle regole democratiche. Il deficit di democrazia, più che come "paradosso" o "dilemma", viene configurandosi come ineffettualità della democratizzazione della società. In altre parole: la democrazia democratizza in misura progressivamente decrescente la società democratica. Il contesto in cui si sommano la crisi regolativa dello strumento legislativo e dello strumento contrattuale è ben espresso dalla polarizzazione a forbice fra democrazia formale e democratizzazione decrescente. La ridondanza simbolico-comunicativa della democrazia formale copre e occulta le strutture funzionali che selezionano e riducono la democrazia. Così come l'istituto giuridico del contratto occulta e mistifica la reificazione e l'oppressione della situazione in cui versa il prestatore d'opera. La democratizzazione decrescente è un portato della democrazia minima che caratterizza i sistemi politici delle società complesse. La crisi regolativa della legge evita, per questa strada, esiti catastrofici. Ciò non significa, semplicisticamente, che l'intervento legislativo è minimo. Al contrario, indica che il carattere alluvionate della produzione legislativa solo minimalisticamente è ancorato a congrui e larghi criteri e princìpi democratici. Cosicché, attraverso la crisi regolativa della legge, "gruppi di interesse" e oligarchie politiche, economiche e finanziarie fanno accesso all'ordigno della produzione normativa e nel meccanismo istituzionale-amministrativo, condizionandone più direttamente che in passato la progettazione e l'azione. La democratizzazione della società è patita come fattore entropico. Rientro dall'entropia è qui fuga dalla democrazia. Ecco perché autoregolazione ed eteroregolazione fanno da supporto l'una dell'altra: debbono, dal loro punto di vista, scongiurare la minaccia entropica della proliferazione democratica. Ecco perché i tronconi più conservativi del movimento sindacale non vogliono e non sanno fare i conti socialmente con la crisi del mandato sindacale, in vista di una rifondazione ormai indifferibile del sindacato nella società complessa. Il rischio più grande, per il movimento sindacale e la democrazia, è quello di trasformare il mandato sindacale in una "struttura dissipativa" che prospera sotto l'ombrello della "deregulation" normativa della democrazia e della rilegittimazione del sindacato da parte dello Stato.

Gaetano Vardaro ha ben chiara la possibilità di questo esito catastrofico per la democrazia: la profonda e originale rilettura di Weimar gli serve anche a questo. La sua analisi è tanto più critica della posizione sindacale, quanto più tenta di individuare e proporre vie d'uscita da questo vicolo cieco e implosivo. Si tratta, per lui, di invertire rischiose tendenze, operanti alacremente negli anni '70 e '80.Quelle tendenze che hanno indotto il sindacato in crisi a ricercare il supporto della legittimazione indiretta dello Stato, anziché riarticolare la legittimazione diretta, partendo direttamente dal "sociale", dalle sue trasformazioni e dalle sue nervature. Attraverso la legittimazione indiretta statuale il sindacato ha tentato di assicurarsi il futuro, fuggendo dal presente e dai suoi temi. La fuga dal presente ha moltiplicato la crisi dei suoi meccanismi di rappresentanza; mentre, invece, soltanto affrontando il tempo presente, poteva e può sperare di conquistare un futuro non effimero e rinnovato. Dal "mondo di ieri" è schizzato verso il "mondo di domani", saltando letteralmente il "mondo di oggi". E, così, non ha fatto altro che far rivivere nell'oggi e proiettare nel domani i limiti dell'ieri. Le stesse inestimabili e irrinunciabili conquiste sindacali rischiano, in questo circolo chiuso, di labilizzarsi e smemorarsi, esposte al fuoco incrociato di una impressionante crisi di identità.

Gaetano Vardaro riparte proprio da questa perdita di identità, la quale costituisce uno dei dati più preoccupanti della crisi della democrazia in Italia. Egli tenta di venire a capo di alcuni processi fondanti della perdita di identità del sindacato e della crisi della democrazia in Italia. A tal fine, recupera alcune considerazioni critiche di G. Giugni e T. Treu:"...tutto il dibattito giuslavoristico post-corporativo sembra essere sotterraneamente attraversato da un atteggiamento strumentalistico, in nome del quale la giuslavoristica si interessa dell'organizzazione sindacale solo se e in quanto quest'indagine possa servire a risolvere problemi attinenti alla sfera dell'attività esterna del sindacato" (49). Da qui trae alimento il carattere "scarsamente democratico" del modello di rappresentanza e organizzazione sindacale (50). Proiettiamo il fenomeno in schema:

  1. l"interno'' del sindacato è caratterizzato da "spinte verticistico-burocratiche" che coniugano la dominanza dell"'interesse collettivo" sull"'interesse individuale";
  2. lo spazio di libertà dell'iscritto è tipicizzato come un percorso selezionato di "entrata e uscita" dall'organizzazione sindacale che non fornisce nessun effettivo strumento partecipativo e nessuna leva decisionale relativamente alla opzione delle politiche sindacali;
  3. le modalità di espressione della rappresentanza configurano il potere di decisione illimitato e incontrollabile dei leaders sindacali (51).

L'irrevocabilità del mandato sindacale tiene ben stretti tutti questi caratteri e li riproduce su scale implementate. La questione non è qui semplicemente riducibile all'impossibilità da parte dell'iscritto di "revocare il mandato prima della sua esecuzione". Coinvolte sono problematiche ben più decisive e delicate che interessano, al cuore, il rapporto tra sindacato e democrazia. Di questo è sommamente consapevole Gaetano Vardaro: "...il singolo lavoratore, iscrivendosi, conferisce al dirigente sindacale un potere decisionale, che tende ad autonomizzarsi in misura ancora maggiore di quanto non avvenga per gli amministratori di società per azione. Grazie al gioco della 'doppia rappresentanza' (del sindacato nei confronti degli iscritti. e dei dirigenti nei confronti del sindacato). si interrompe di fatto ogni effettivo canale comunicativo fra iscritto e dirigente" (52).

I temi della democrazia sindacale e della democrazia nel sindacato diventano particolarmente scottanti di fronte all'evidenza che sempre meno i destinatari della contrattazione collettiva coincidono con gli iscritti al sindacato. Di più: il numero dei lavoratori iscritti al sindacato va costantemente diminuendo in cifra relativa, tenendo in conto il rapporto occupati-iscritti. Il fenomeno induce una nuova tipologia di contrattazione: dalla contrattazione aziendale si passa alla contrattazione gestionale (53). Il che apre il fenomeno, democraticamente non irrilevante, della tutela dei lavoratori non iscritti al sindacato. Non solo: si richiede, sul punto, un'attenta considerazione di quelle forme di azione sindacale che esorbitano la sfera di espressione delle cerchie della rappresentanza delle organizzazioni maggiormente rappresentative. Purtroppo, l'attenzione di Gaetano Vardaro non si applica adeguatamente su questo bacino problematico. In argomento, con tutta probabilità. è rilevabile un non sufficientemente metabolizzato rapporto critico col '68 operaio e studentesco, di cui viene eminentemente conservata una memoria attiva negativa e non già e non anche una memoria attiva positiva. Il profilo dei Cobas, p. es., è solo parzialmente extrasindacale; così come parzialmente extrasindacale era il profilo dei Cub e degli organismi autonomi delle lotte operaie, studentesche e sociali negli anni '60 e '70. I Cub fecero divenire operazionali modelli di azione politico-sindacale più perspicui e maggiormente democratici di quelli configurati e posti in essere dalle organizzazioni sindacali in quel tempo storico. Non altrettanto può dirsi oggi dei Cobas; ma è innegabile che essi siano il sintomo massificato della consunzione dei modelli di azione e rappresentanza del sindacalismo confederale. L'extrasindacalità è, pertanto, una categoria interpretativa valutativamente incongrua, occultata pseudoscientificamente sotto moduli procedimentali e classificatori descrittivi, anziché analitico-sintetici. Alla crisi di valorizzazione del sindacato siffatta categoria finisce col rispondere con la devalorizzazione dell'iniziativa autonoma dei lavoratori. Ora, come non si può mitizzare la spontaneità dell'azione collettiva, così non si può circoscrivere la legittimazione dell'azione sindacale alle organizzazioni maggiormente rappresentative. Si tratta, al contrario, di aprire e riaprire una comunicazione tra la (sclerosi della) rappresentanza sindacale e l'azione collettiva. al livello delle sue domande di democrazia e aspettative di libertà e secondo le forme mediante cui viene storicamente alla luce.

Fatto salvo questo scandag!io, ancora più proficue diventano le investigazioni di Gaetano Vardaro su "rappresentanza sindacale" e "mandato sindacale". Aderendo ad alcune impostazioni di M. Rusciano (54) e ai correttivi metodologico-analitici introdotti da G. E. Rusconi (55), egli mette a fuoco con estrema precisione le coordinate della nuova problematica. Riassumiamole:

  1. l'oggetto del mandato sindacale perde la sua unicità;
  2. né è ancora riconducibile alla genericità e parzialità della tutela dei soli iscritti;
  3. il che contribuisce a modificare consistentemente le funzioni della rappresentanza sindacale;
  4. al punto che quest'ultima si operazionalizza in maniera asimmetrica, tenendo in conto la disomogeneità degli interessi da ridurre a rappresentanza;
  5. cosicché l'area e la semantica della rappresentanza assorbono non solo interessi di natura economica, ma anche interessi aventi un profilo civico-politico;
  6. ne scaturisce un processo di confliggenza interna tra interessi (di diversa natura, essendo gli interessi civico-politici non soltanto disomogenei e conflittuali con gli interessi economici. ma anche e soprattutto confliggenti tra di !oro;
  7. l'area e la semantica della rappresentanza sindacale integrano, pertanto, funzioni e strutture di interessi divergenti, delineando. in luogo della "convergenza" degli antichi interessi collettivi (aziendali ed extraziendali), i luoghi della asimmetria e della divaricazione degli interessi (56).

In forza della rilevazione di questi dati di fatto, Gaetano Vardaro suggerisce: "Allo schema del mandato sindacale 'irrevocabile' sembra, insomma, necessario sostituire quello di un mandato semirevocabile, che consenta una critica selettiva della gestione sindacale degli interessi degli iscritti"(57). La verifica selettiva del mandato sindacale è qui dichiaratamente finalizzata alla formulazione di "rimedi alternativi all'uscita dall'organizzazione da parte dell'iscritto dissidente"(58). V'è una questione, però, che permane confinata in un cono d'ombra: quella dell'intreccio tra dissenso (interno ed esterno al sindacato) e democrazia. Le strutture e le funzioni del dissenso vanno anche verificate e operazionalizzate in conformità del loro carattere di critica democratica, in quanto portato segmentato di una più generale critica alle strutture e alle funzioni formali e materiali del mandato sindacale. Altrimenti detto: esse vanno interpretate come contro-azione legittima alla crisi di democrazia che investe il sindacato e la società e, per questo, allusive di un nuovo quadro di legittimazione sociale e di legittimazione democratica del mandato sindacale nella società complessa. La pur corretta e necessaria ripresa della comunicazione tra sindacato e iscritto e sindacato e cittadino è, quindi, punto di partenza; non già punto di arrivo. Ed è punto di partenza "spuntato", se omette di collegarsi a un progetto e a un'esperienza concreta di rifondazione democratica del mandato sindacale e della rappresentanza sindacale. Fuori da questa ipotesi si possono, tutt'al più, scongiurare esiti e tendenze distorcenti, funzionalizzando meglio il sistema di input e output del sindacato così come è. Ma, così, si è fermi al livello degli effetti, non ancora a quello delle cause. Risalire alle cause è tanto più necessario, quanto più esatta si rivela la prognosi di Gaetano Vardaro: approntare un modello integrato tra autoregolazione ed eteroregolazione, ricombinando criticamente l'uso dello strumento legislativo e dello strumento contrattuale. Come trasmessoci dalla lezione di Sir Otto Khan-Freund, fecondamente riattraversata da Gaetano Vardaro, si tratta di riconoscere nello strumento contrattuale la difesa e lo sviluppo della soggettualità collettiva autonoma dei lavoratori e di cogliere nello strumento legislativo il carattere di perequazione e riproporzionamento del rapporto datore di lavoro/prestatore d'opera dal lato del soggetto più debole e svantaggiato. In ogni caso, l'intervento legislativo deve far salvo il "principio maggioritario" e la "tutela delle minoranze dissidenti" (59). Ciò non solo e non tanto per vincolare il dissenso alle procedure della disciplina collettiva; in questo ambito rimane operante la ricerca di Gaetano Vardaro (60).Anzi, il dissenso deve essere specificamente previsto come momento della "disciplina collettiva"; come momento interno alla nuova razionalità comunicativa del mandato sindacale e non già contemplato come fattore di disturbo. Pare questa una necessità primaria e ineludibile. Tanto più impellente, quanto più si considera che nella società complessa il profilo del mandato sindacale non può che essere asimmetrico. Non assistiamo ad una mera proliferazione e segmentazione degli interessi; bensì ad una divergenza proliferante e segmentante degli interessi immateriali e civico-politici di cui sono titolari i soggetti della complessità sociale. Questa asimmetria deve trovare adeguato posto e sbocco nei modelli formali e materiali del mandato sindacale e della rappresentanza sindacale. Di questo ordito il dissenso e il conflitto sono forme di espressione vitali e, perciò, vincolarli mediante codici disciplinari spezza catastroficamente la trama dell'asimmetria e blocca in un punto morto la sempre più urgente e non rinviabile rifondazione sindacale.

4. La disamina del nesso tecnica/diritto del lavoro occupa gli scritti, forse, più densi, problematici e suscettibili di sviluppo che Gaetano Vardaro ci ha lasciato (61). Quali direzioni avrebbe egli impresso a questo sviluppo non è dato dire. Il futuro della sua ricerca soltanto lui avrebbe potuto disegnarlo e imprimerlo. A noi non resta che il tentativo di ascoltare le sue domande. cercando di "assimilarle", come egli ha saputo magnificamente fare col "Laboratorio Weimar" e altro ancora. Non possiamo continuare quello che solo lui poteva continuare. Ma nei nostri passi possiamo recare impresse le impronte e le speranze dei suoi. Consideriamo, con lui, la distinzione tra giuridificazione e legificazione, operata nell'area tedesca soprattutto da J. Habermas, con la sua "teoria dell'agire comunicativo". Egli rileva: "...giuridificazione si identifica solo con diritto scritto e la legge, in questa prospettiva, costituisce solo uno dei possibili strumenti di scrittura di tale diritto. Il problema fondamentale che qui si pone è l'analisi degli effetti di ricaduta sociale che il fenomeno della giuridificazione così inteso produce" (62). Questa concettualizzazione si sdoppia su due piani:

  1. il piano teorico: l'ambiguo diritto formalizza "aspettative sociali" come canale di apertura di "nuovi spazi di libertà", finendo con il rovesciarsi in regolazione dei modi vitali, così "colonizzandoli";
  2. il piano pratico: la prasseologia del diritto si proietta come "implementazione del programma politico" e come analisi capillare dei "molteplici gap" collegati alla formalizzazione delle aspettative sociali (63).

All'interno di questo quadro teorico-pratico, soprattutto nel "caso italiano": "... la contrattazione collettiva risulta essa stessa essere uno strumento di formalizzazione ed istituzionalizzazione di aspettative sociali e può perciò, rilevarsi un possibile strumento di colonizzazione della Lebenswelt del lavoratore"(64). Emerge, pertanto, un collegamento funzionale e preciso tra "giuridificazione contrattuale" e " giuridificazione legislativa". dei rapporti di lavoro. Il che evidenzia che la partizione teorica originaria tra giuridificazione e legificazione non prevede esclusivamente "separatezza", ma anche intreccio e "integrazione". Ne consegue, ancora, che la contrattazione collettiva assume una "funzione ordinatrice" nell'alveo "ordinato" e "riordinato" dalla produzione normativa legislativa. Come fa rilevare Gaetano Vardaro, in Italia: "... a partire dagli anni '60, il riconoscimento legislativo delle aspettative sociali ha generalmente fatto seguito ad un loro preventivo riconoscimento contrattuale-collettivo"(65). La particolarità di questa vicenda obbliga al ristabilimento di "una netta distinzione fra contrattazione collettiva come fenomeno di normazione sociale (originario rispetto al diritto statale) e contratto e/o contratti collettivi come atti giuridici. legislativamente regolati" (66). In argomento, assume rilievo la teoria di G. Giugni della bivalenza normativa (67). Lo sviluppo di questa teorica elaborata da Giugni nel 1960, nelle condizioni storiche degli anni '80 e oltre, deve dar conto della soluzione di un problema chiave: impedire che la contrattazione collettiva sia "travolta" nella crisi regolativa della legge (68). Più esattamente ancora: "Qui, quindi, oltre al problema della colonizzazione della Lebenswelt del lavoratore, si pone quello della colonizzazione della contrattazione collettiva da parte della legge. II che può significare capture dello stesso sistema di relazioni industriali da parte del sistema politico. In questa luce possono leggersi non solo certe tendenze concertative innescatesi nell'ultimo decennio, ma la stessa, insistente richiesta di legificazione della contrattazione politica proveniente, ormai, da più parti"(69). Gaetano Vardaro propone lo scioglimento di questi nodi, attivando una strategia legislativa bipolare:

  1. esaltazione del "carattere selfregulating" del sistema di normazione sociale proprio della contrattazione collettiva;
  2. intervento mirato sui "profili endo-organizzativi (a livello sindacale e/o aziendale) che caratterizzano lo specifico della "formazione della decisione collettiva" (70).

L'obiettivo (politico) di tale strategia (di politica del diritto del lavoro) è chiaramente indicato: " ... circoscrivere l'interferenza legislativa al solo piano della garanzia dell'effettiva partecipazione del singolo lavoratore alla formazione di quella regola collettiva. che ne regolerà (e forse ne colonizzerà) una parte consistente della Lebenswelt" (71).

Come si vede, ci stiamo muovendo nel solco delle analisi e delle proposte che abbiamo individuato ed esaminato nei punti precedenti. La problematica tutta intera acquisisce nuova pregnanza, se la riconsideriamo "inseguendo" il discorso che Gaetano Vardaro articola nel "saggio sulla tecnica", certamente il suo testo di maggiore spessore teoretico e maggiore passione politica e, altrettanto certamente, uno dei punti fermi da cui ripartire, per "rifondare" su basi epistemologicamente profonde e storicamente aggiornate l'intero edificio del diritto del lavoro. Tema, quest'ultimo, che esula dall'economia di questo lavoro e che va ben al di là delle capacità di chi scrive.

 

 

NOTE

(1) G. Vardaro, Spunti in tema di esperibilità per un intervento volontario (in una controversia individuale di lavoro) dell'azione per la repressione della condotta sindacale del datore di lavoro, "Rivista giuridica del lavoro", 1976, II, pp. 1237-1242.

(2) G. Vardaro, Il diritto del lavoro nel "laboratorio Weimar", in Itinerari (a cura di L. Gaeta-A. R. Marchitiello), Milano, Angeli, 1989, p. 25; originariamente il saggio è comparso come Introduzione in G. Arrigo-G. Vardaro (a cura di), Laboratorio Weimar. Conflitti e diritto del lavoro nella Germania prenazista, Roma, Edizioni Lavoro, 1982.

(3) Ibidem, p. 25.

(4) Ibidem, p. 25.

(5) Ibidem, p. 26.

(6) Ibidem, p. 27 ss.

(7) Ibidem, p. 29.

(8) Cit. da Vardaro, op. ult. cit., p. 29

(9) Vardaro, op. ult. cit., pp. 29-30

(10) Cit. da Vardaro, op. ult. cit., p. 30.

(11) Vardaro, op. ult. cit., p. 30.

(12) H. Kelsen, Marx o Lasalle. Mutamenti nella teoria politica del marxismo, Appendice a Socialismo e Stato (a cura di R. Racinaro), Bari, De Donato, 1978, p. 198.

(13) Vardaro, op. ult. cit., p. 31.

(14) Ibidem, p. 31.

(15) Ibidem, p. 31.

(16) Ibidem, pp. 34-35.

(17) K. Korsch, Consigli di fabbrica e socializzazione, Bari, Laterza, 1970.

(18) M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966.

(19) Di Toni Negri si confrontino, sul punto: Proletari e Stato, Milano, Feltrinelli, 1976; Il dominio e il sabotaggio, Milano, Feltrinelli, 1977; Marx oltre Marx, Milano, Feltrinelli, 1979.

(19 bis) Si veda, sul punto, A. Chiocchi-C. Toffolo, Il sindacato tra conflitto e movimenti, "Società e conflitto", n. 2/3, 1990-1991, pp. 139-166; ora in A. Chiocchi-C. Toffolo, Passaggi. Scene dalla società italiana degli anni '70 e '80, Avellino, Quaderni di "Società e conflitto", n. 7, 1995.

(20) Per le posizioni di Sinzheimer qui richiamate si rinvia, in particolare, a G. Vardaro, op. ult. cit., pp. 35-37.

(21) Ibidem, pp. 35-37.

(22) Cit. da Vardaro, op. ult. cit., p. 37.

(23) Vardaro, op. ult. cit., p. 37.

(24) F. Neumann, Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Bologna, Il Mulino, 1973. Il riferimento di Vardaro si trova a pag. 38 ed è immediatamente seguito da uno all'opera di C. Schmitt, Dottrina della costituzione, in cui la carta costituzionale viene definita "forma politica della società data".

(25) G. Vardaro, op. ult. cit., p. 38.

(26) C. Schmitt, Legalità e legittimità, in Le categorie del 'politico', Bologna, Il Mulino, 1972, p. 212. Come si vede, siamo nel pieno del dibattito investigato da Vardaro.

(27) Ibidem, pp. 211-212.

(28) Ibidem, p. 212.

(29) Ibidem, pp. 214-215.

(30) Ibidem, p. 215.

(31) Ibidem, p. 218. Il riferimento è ad un articolo di O. Kirchheimer comparso in "Die Gesellschaft", n. 7, 1932.

(32) Vardaro, op. ult. cit., p. 42.

(33) Ibidem, p. 33.

(34) G. Vardaro, Oltre il diritto del lavoro: un holzweg nell'opera di Franz Neumann, in Itinerari, cit., pp. 63-110; originariamente comparso in "Materiali per una storia della cultura giuridica" (1983) e come Introduzione a F. Neumann, Il diritto del lavoro fra democrazia e dittatura, Bologna, Il Mulino, 1983.

(35) F. Neumann, Il diritto del lavoro fra democrazia e dittatura, cit.

(36) G. Vardaro, op. ult. cit., pp. 101-102. Il passaggio è rinvenibile anche nel saggio Otto Khan-Freund e l'emigrazione dei giuslavoristi weimariani che nell'antologia Itinerari è rinvenibile alle pp. 111-137; il saggio in questione è originariamente comparso in "Politica del diritto", 1982 ed è stato ripreso in G. G. Balaudi-S. Sciarra (a cura di), Il pluralismo e il diritto del lavoro. Studi su Otto Khan-Freund, Roma, Edizioni Lavoro, 1982.

(37) Vardaro, Oltre il diritto del lavoro ..., cit., pp. 93-103; ma anche in Otto Khan-Freund e l'emigrazione ..., cit., pp. 115-119, 120-124.

(38) Vardaro, Otto Khan-Freund e l'emigrazione ..., cit., pp. 125-133.

(39) Ibidem, p. 131.

(40) Ibidem, p. 132.

(41) G. Vardaro, Giuridificazione, colonizzazione e autoreferenza nel diritto del lavoro, in Itinerari, cit., p. 178; originariamente comparso in "Politica del diritto", 1987.

(42) Ibidem, pp. 178-179.

(43) Ibidem, p. 179.

(44) Ibidem, p. 180.

(45) G. Vardaro, Nuove regole dell'organizzazione sindacale, in Itinerari, cit., pp. 373-392; l'intervento è originariamente comparso in "Lavoro e diritto", 1988.

(46) Ibidem, pp. 373-374.

(47) Ibidem, p. 374.

(48) Ibidem, pp. 374-375.

(49) Ibidem, p. 377.

(50) Ibidem, p. 379.

(51) Ibidem, p. 379.

(52) Ibidem, p. 380.

(53) Ibidem, p. 383.

(54) M. Rusciano, Sul problema della rappresentanza sindacale, "Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali", 1987.

(55) G. E. Rusconi, Asimmetria delle rappresentanze e decisione politica, "Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali", 1986.

(56) G. Vardaro, op. ult. cit., pp. 386-387.

(57) Ibidem, pp. 387-388.

(58) Ibidem, p. 388.

(59) Ibidem, p. 389.

(60) Ibidem, pp. 389-390.

(61) Si tratta di: Giuridificazione, colonizzazione e autoreferenza nel diritto del lavoro, cit.; Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, reperibile alle pp. 231-308 dell'antologia Itinerari, cit. e originariamente comparso in "Politica del diritto", 1986.

(62) Vardaro, Giuridificazione, colonizzazione e autoreferenza ..., cit., p. 171.

(63) Ibidem, p. 171.

(64) Ibidem, p. 173.

(65) Ibidem, pp. 173-174.

(66) Ibidem, p. 174.

(67) Ibidem, p. 174.

(68) Ibidem, pp. 174-175.

(69) Ibidem, p. 175.

(70) Ibidem, pp. 176-177.

(71) Ibidem, p. 177.