Cap. II

QUALE LEGITTIMAZIONE?

Riflettendo intorno e oltre il pensiero di G. Vardaro

 

 

1. UNA BUSSOLA ORIENTATIVA

1.1. Il metodo e la responsabilità

Riflettendo sul complesso itinerario culturale di Gaetano Vardaro, ci troviamo a fare i conti con due questioni preliminari.

La prima di tali questioni è data dal fatto che impattiamo un'opera che si trova prematuramente priva del suo autore. Se, in generale, l'opera va progressivamente affermando la sua autonomia e la sua libertà nei confronti dell'autore, perché è altra cosa da lui e aspira ad un'altra vita, nel caso specifico l'opera si vede costretta, come non mai, a parlare del suo autore.

Registriamo, così, un paradosso di inaudita intensità. Nello stesso tempo, niente meglio della sua opera parla oggi di Gaetano Vardaro e niente più della sua opera può ostacolare il nostro cammino di avvicinamento a lui. Il nodo non è rescindibile gordianamente, in favore dell'opera o in favore dell'autore. Non resta che mettere in dialogo opera e autore, riaprendo il canale della comunicazione tra ciò che vive e ciò che è morto; tra ciò che, pur morto, rimane vivo e ciò che, pur vivo, è irrimediabilmente appassito.

Con quale spirito e con quali concetti ci avviciniamo all'opera e all'autore? Questo diventa ora per noi un interrogativo ineludibile.

A causa della prematura scomparsa dell'autore, potremmo essere indotti a definire quella di Gaetano Vardaro un'opera "acerba". Cadendo in questa tentazione, però, incorreremo in una serie di manchevolezze. La più grave delle quali sarebbe quella di disconoscerne la compiutezza scientifica, la complessità tematica e il rigore problematico. Di fronte all'opera di Gaetano Vardaro, dobbiamo, anzi, rovesciare l'approccio: la prematura scomparsa dell'autore non ha impedito all'opera di stagliarsi nella sua sorprendente "compiutezza", "completezza" e vitalità. Non nel senso di un'improbabile (e mai ricercata, a dire il vero) esaustività di forme e contenuti. Al contrario, ciò che dell'opera di Vardaro immediatamente colpisce è la sua apertura estrema; il suo non risolversi o sciogliersi nelle tematiche affrontate; il suo perpetuo movimento verso nuovi campi di ricerca; il suo trasformare ogni tema in problema e ogni problema in una catena argomentativa stringente di domande e risposte, mai ultimative e, tuttavia, mai elusive.

Questa linea di indagine ci costringe ad osservazioni di tipo "metodologico" su alcuni aspetti sottostanti, ma non secondari della riflessione di Gaetano Vardaro.

Non v'è, in Vardaro, la teorizzazione e nemmeno l'enunciazione di un "metodo di ricerca". Eppure, nel farsi del suo discorso, chiare sono le costanti e le variabili "di metodo". L'opera stessa, in Gaetano Vardaro, è un motore di ricerca; ma non nell'accezione calcolistica a cui siamo stati oggi abituati dalle tecnologie delle reti telematiche. Un "motore di ricerca" telematico è la catalogazione del già-dato; l'opera di Gaetano Vardaro, viceversa, è moto del non-ancora-conosciuto. Ed è proprio il non-ancora-conosciuto che l'opera di Gaetano Vardaro ci offre. Attestandoci, con lui e grazie a lui, sulla linea di orizzonte del non-ancora-conosciuto, siamo messi nelle condizioni di gettare nuova luce sul già-dato, riconsiderandolo con uno sguardo nuovo.

Lo stesso già-dato, dunque, è un quid non-ancora-conosciuto. Tutto, allora, non solo il nuovo, resta perennemente da conoscere e riconoscere. Solo se penetriamo queste regioni cognitive primordiali, possiamo esaurientemente darci ragione dell'interesse riversato da Gaetanto Vardaro sul passato; non solo sul presente e sul futuro. Weimar è, per l'appunto, metafora della sua attenzione spaziale al tempo e cifra del suo temporalizzare gli spazi della storia, della politica e della discussione pubblica.

Ma non è ancora tutto. Il metodo vardariano si regge su un'epistemologia di flusso che coniuga la volontà di sapere come passione della libertà. Incommensurabile è, in Gaetano Vardaro, la volontà di sapere; e si tratta di una volontà di sapere completamente disancorata dalla volontà di potere. Estrema è, in lui, la passione della libertà, in tutte le declinazioni e le forme simboliche e materiali attraverso cui essa è pensabile, esperibile e trasmissibile.

In Gaetano Vardaro, quello tra metodo, sapere, passione e libertà è un flusso problematico: indissociabile nella sua struttura cognitiva; mobile nella sua architettura genetica. Questo flusso disegna un campo di responsabilità specificamente vardariano, intorno cui si giocano progetto teorico, discorso politico ed impegno etico. Nel campo di responsabilità vardariano la storia è problematizzazione dell'evento e verifica della decisione politica, fino alla sua aperta rimessa in discussione. La conoscenza non scade e non si degrada in vuota erudizione; si disloca, piuttosto, come critica rigorosa delle forme politiche. La tensione ininterrotta verso nuove, più complesse e cogenti modalità di sapere mette in forma l'irriducibilità al conformismo culturale, la ribellione alla ragione pigra, la rivolta contro il cinismo politico, la rottura scandalosa dell'amoralismo delle funzioni che i poteri tentano di attribuire agli intellettuali.

Questi gli stampi che fanno della avventura umana di Gaetano Vardaro un inesausto percorso di formazione, una ricerca incolmabile intorno all'infinita e problematica ricchezza di senso dell'esistenza, della storia, del legame sociale e della politica. Questi gli stampi che fanno di quella vardariana un'opera continuamente in tensione: in ascolto e in parola. Un'opera che, oggi più che mai, non resta muta, dovendo parlare anche per il suo autore.

Più che all'autore, l'opera chiede al mondo di essere amata e nutrita. È tanto responsabilità dell'autore regalare l'opera al mondo, quanto responsabilità del mondo prendersi cura dell'opera che gli viene donata. L'opera è un'eredità che l'autore lascia al mondo. E il mondo cambia in meglio, se ne ha cura.

1.2. Ordine politico e mandato di legittimità

La seconda questione preliminare in cui ci si imbatte è così approssimabile.

Sappiamo tutti che Gaetano Vardaro non è stato un filosofo della politica. Nondimeno, il campo della sua riflessione implica direttamente problematiche di ordine politico.

Anzi, è l'ordine politico a venire chiamato direttamente in causa, per essere discusso e verificato nelle sue strutture di legittimazione formali. Meglio ancora: sono le trasformazioni dell'ordine politico e le loro implicazioni storico-sociali che costituiscono una sorta di premessa tacita e risultante palese del discorso giuslavorista di Gaetano Vardaro. Questo sia perché - come autorevolmente chiarito da illustri costituzionalisti e scienziati della politica - le forme e le mutazioni del diritto del lavoro involgono la forma-Stato; sia perché il diritto del lavoro è la postazione dalla quale Gaetano Vardaro investiga ed interroga la complessità dei mutamenti delle forme sociali e verifica, per così dire, dall'interno il "mandato di legittimità" delle forme politiche.

Ecco perché la crisi di Weimar è configurabile, in lui, come crisi del mandato di legittimità dell'ordine politico dato: Weimar crolla, poiché non riesce a "fondare" e "rifondare" quel mandato su basi democratiche. Ecco perché le ricognizioni vardariane sul "laboratorio Weimar" debordano i confini del giuslavorismo, pur facendo di questo l'irrinunciabile piattaforma di partenza per tutti gli altri necessari percorsi ed approfondimenti di indagine.

Solo un pensiero ricognitivo, come il suo, poteva collocarsi su queste sfuggenti linee di confine, riattraversandole di continuo, senza smarrire senso e filo della ricerca, ma ricavandone, al contrario, stimolazioni e acquisizioni progressivamente crescenti e significative.

A proposito di un autore da lui molto amato (Franz Neumann), Gaetano Vardaro ebbe a dire che la sua posizione si dislocava oltre il diritto del lavoro. Nel caso di Gaetano Vardaro, possiamo lecitamente affermare che non solo di diritto del lavoro si trattava e si tratta.

1.3. La legittimazione non è un lusso

Nel presente, ancora più che nella "crisi di Weimar", i rompicapo della legittimità democratica occupano i centri reticolari dello spazio politico e della discussione pubblica. Ma la occupano più "di diritto" che "di fatto". Nel senso che, a tutt'oggi, "scienza politica", "teoria politica", "sociologia della politica", "teoria delle istituzioni", "scienza dell'amministrazione" ecc. fanno fatica a farsi carico del tema in maniera perspicua, ricorrendo sovente ad un apparato categoriale inadeguato.

Come si sa, nella seconda metà degli anni '70 si sviluppa, in tutta l'area occidentale, un dibattito sui "limiti" e sulla "crisi" della democrazia. Dibattito solcato da profonde venature pessimistiche. Note sono, al riguardo, le "predizioni catastrofiche" di Willy Brandt, per il quale la democrazia, in Europa occidentale, non poteva durare più di due-tre decenni ancora. Altrettanto celebri sono gli assunti di Henry Kissinger, secondo cui la democrazia liberale aveva già celebrato i suoi fasti. Di non diversa natura, infine, sono le conclusioni di alcuni dei più qualificati "politologi" e "scienziati della politica" europei (M. Crozier, G. Sartori, S. Brittan, A. King).

A far data da quel dibattito, l'esistenza funzionale dello Stato è stata posta direttamente in relazione alla esigenza di abbassare alla soglia minima i tassi della legittimazione. Al massimale delle funzioni di potere ha corrisposto un minimale di legittimazione. Nasce qui - e qui gira a vuoto in un moto perpetuo - il dilemma della democrazia rappresentativa contemporanea.

I paradigmi della "complessità sociale" e della "riduzione di complessità" di N. Luhmann hanno costituito, più ancora delle teorie e delle pratiche pluraliste e corporatiste, l'opzione più diffusamente applicata, per tentare di uscire dal cortocircuito democratico. Una soluzione di tipo funzionale-amministrativo ha, così, segnato uno dei limiti estremi verso cui è andato inabissando il 'politico' contemporaneo, relegato nelle sabbie mobili della crisi della democrazia e della legittimazione.

Si è istituita una divaricazione tra i selettori dell'autorità e quelli della legittimazione. L'autorità politica legittima ha costruito le sue funzioni di potere su un deficit progressivo di legittimazione. L'esercizio del potere ha, così, coniugato autorità e carenza di legittimazione. Il deficit di legittimazione si è andato inevitabilmente accompagnando con l'ipertrofia di tutte le funzioni di potere. Deficit di legittimazione ed eccesso di invasività dei poteri hanno costituito le due pietre angolari intorno cui sono andati danzando i rompicapo della legittimità democratica nelle società complesse. Non a caso, un rilevante testo di Luhmann del 1969 reca significativamente per titolo Legittimazione mediante procedura.

Oggi, in piena "era della globalizzazione", il 'politico' e la politica sembrano ridotti alle mere funzioni di supporto del governo della moneta. Tra autorità legittima e legittimazione si insinua una nuova frattura: la legittimazione politica dell'autorità proviene ora non tanto dal consenso della cittadinanza, quanto dal "via libera" concesso dai centri sovranazionali imputati del governo e del controllo degli equilibri monetari. Le politiche monetarie diventano il regolatore ultimo non solo e non tanto delle politiche economiche, ma della politica e del 'politico' in quanto tali.

Dall'autorità in carenza di legittimazione trascorriamo, così, all'autorità a legittimazione riflessa. Il governo della moneta diviene la quintessenza del governo politico; meglio ancora: la giustificazione del governo politico. Nel governo della moneta vengono fatti risiedere le cause prime e i fini ultimi della legittimazione che, espulsa dai circuiti politici, rientra in gioco secondo le modellazioni distorsive degli inputs monetari.

Se prima la legittimazione era ritenuta un rischio, in quanto agente di entropia sociale e politica, ora diviene un costo, come tale da tagliare, in funzione di una politica di massimizzazione dei conti economici dello Stato. Nello spazio simbolico della politica e nell'immaginario collettivo, la legittimazione viene rappresentata come un "lusso", a cui non è assolutamente possibile cedere.

Non sorprende se, su queste basi, sia andato dilatandosi lo scarto tra sistema politico e sistema della cittadinanza; se siano andati crescendo la disaffezione e il disamore dei cittadini nei confronti delle istituzioni; se siano andati acuendosi i fenomeni di "apatia politica"; se uno dei tratti distintivi delle democrazie contemporanee sia la restrizione delle condotte dell'integrazione e della partecipazione e l'ampliamento delle sfere dell'esclusione e dell'emarginazione.

Proprio qui e proprio ora, allora, si rende necessaria la messa in moto di una riflessione che ripensi e riconiughi le categorie portanti della democrazia politica, le nozioni e le realtà della legittimazione e tutto quanto vi ruota intorno. La "logica dei diritti", come ci hanno insegnato i "classici", richiede e impone risposte ed aperture, non già chiusure autoreferenziali.

Su questo crinale, la rigorosa "irriverenza concettuale" di Gaetano Vardaro può essere per noi un potente stimolo e un produttivo "arnese di lavoro". Non si tratta di "demolire", invasati da una sorta di "luddismo culturale", quanto fin qui prodotto da varie e meritorie "scuole di pensiero". Al contrario, occorre re-imparare e ri-praticare una delle lezioni principali che ci vengono da alcuni dei "giganti" del pensiero occidentale: cavare dalla storia in movimento categorie di analisi ed interpretazione all'altezza dei tempi, nella misura del possibile.

 

2. INTORNO AD ALCUNI PROCESSI-CHIAVE

2.0. Brevissima premessa

Dobbiamo ora ricercare, più attentamente di quanto fin qui alluso, le puntuali intersezioni del "discorso sulla legittimazione" con l'ambito discorsivo lasciato aperto, ma non irrisolto, da Gaetano Vardaro. Ci riferiamo, per la precisione, a quell'intreccio di tematiche tra filosofia politica, teoria delle istituzioni, diritto del lavoro, sociologia del lavoro e diritto sindacale che, per molti aspetti, costituisce lo "specifico vardariano".

In quest'occasione, ci soffermeremo su alcuni dei processi-chiave di tale intreccio.

Necessariamente, l'indagine che condurremo dovrà posizionarsi e riposizionarsi sul piano storico, con particolare riferimento agli anni '80, i quali costituiscono l'"orizzonte di aspettativa" in cui ha operato Gaetano Vardaro.

2.1.

Sindacato, legittimazione e rappresentanza negli anni '80: la caduta dell'accordo fondamentale

Come è noto, il sindacato vive negli anni '80 una crisi prolungata, che unanimemente il dibattito (giuslavoristico e non) ha designato come "crisi della rappresentanza" (AA.VV. 1986, 1988). Ma il "problema della rappresentanza" richiama immediatamente quello della "rappresentatività" e viceversa (Persiani 1984; "Politica del diritto" 1985). In proposito, nella sua ricognizione storiografica, come già abbiamo visto nel capitolo precedente, Gaetano Vardaro propone la categoria interpretativa più assorbente ed esplicativa di rappresentatività senza rappresentanza (Vardaro 1988a).

A ben guardare, il nesso rappresentanza/rappresentatività costituisce una delle ambiguità e delle aporie originarie della storia del sindacato democratico italiano (Chiocchi-Toffolo 1995). La ricombinazione in unico modello, già presente nel dettato costituzionale, dell'approccio pluralistico (di stampo liberale) e dell'approccio organicistico (sia nella derivazione cattolica che nell'impostazione marxista) costringe il costituente a sdoppiare i percorsi della rappresentanza nella:

  1. rappresentanza pluralistica degli interessi;
  2. rappresentatività del sindacato (Garonna-Pisani 1988).

Nel primo caso, il sindacato funge quale classica "organizzazione di interessi". Nel secondo, quale "soggetto politico" che nella sfera delle relazioni pubbliche è rappresentativo di un "interesse generale" e/o di un "bene comune"; in quanto tale, apre un campo di "negoziazione permanente" con gli altri soggetti della sfera pubblica, non escluso lo Stato e le sue istituzioni.

C'è chi, come Foa, ha ritenuto di rinvenire le cause della crisi sindacale degli anni '80 proprio in quegli elementi di forza che il sindacato si conquista con la "svolta" degli anni '50 e con il ciclo lungo delle mobilitazioni degli anni '60 e della prima metà dei '70 (Foa 1986). Il ragionamento di Foa è il seguente: la categoria-base della "riscossa sindacale" degli anni '60-70 è quella dell'interesse che, rompendo i residui legami con quella dell'aristocrazia (operaia e oltre), segna la new entry dell'operaio massa nell'area della rappresentanza. Proprio nella "rappresentanza degli interessi" (Berger 1983; Bordogna-Provasi 1984) sta la forza e, insieme, la debolezza del sindacato italiano, dagli anni '50 agli '80; come, con acume, individua Foa e vedremo meglio da qui a poco.

Va ricordato che le lotte operaie degli anni '60 non solo modificano le opzioni, le politiche e le prassi dell'attore politico-istituzionale (basti porre mente al dibattito che conduce allo Statuto dei Lavoratori e alle metamorfosi conseguenti), ma trasformano radicalmente, su base democratica, i modelli vigenti di "rappresentanza sindacale" (basti pensare che ancora nella tornata del 1962-63, per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali, la "competenza negoziale" non era assegnata agli "organismi aziendali" interni, bensì ai "Direttivi di categoria provinciali" esterni). Le vecchie ed obsolete strutture di rappresentanza sindacale vengono sostituite da nuove che rispondono a criteri di legittimazione democratica dal basso, anziché a logiche verticali di investitura dall'alto (Chiocchi 1996; Crouch-Pizzorno 1977; Pizzorno 1978, 1980). Nel ciclo 1968-1973, il sindacato conosce una stagione di grande innovazione e vitalità, con la progressiva affermazione e diffusione dell'esperienza dei "Consigli di fabbrica". Per farsene un'idea, è sufficiente qui ricordare che, nel solo 1973, il sindacato firma 7.500 accordi aziendali, sostiene la costituzione di 9.800 "Consigli di fabbrica", gestisce un sistema di rappresentanza che prevede 97.171 delegati (Mariucci 1986, 26). Nel 1972, i "Consigli di fabbrica", vengono riconosciuti da Cgil, Cisl e Uil come unitario modello di rappresentanza sindacale, incarnando concretamente quelle "rappresentanze sindacali aziendali" previste e sostenute dallo Statuto dei Lavoratori.

Nel dopo autunno caldo, il "mandato sociale" dell'azione sindacale passa dalla rappresentanza del lavoro operaio "skilled": rappresentanza operaia chiusa, a quella del lavoro operaio "unskilled": rappresentanza operaia aperta. Fatto, questo, che, pur entro molteplici limiti e carenze, ha potuto giocare un ruolo positivo fino a che nel "teatro della storia", a partire dai secondi anni '70, non hanno fatto prepotente irruzione i soggetti della complessità e delle differenze, titolari di quell'azione sociale diffusa resa marginale nell'area della "rappresentanza degli interessi" e, per questa via, in quella della "rappresentanza democratica" tout court (Chiocchi 1996, 1998).

L'entrata in scena dei nuovi soggetti ha agito da concausa strutturale della crisi dei "Consigli di fabbrica" che, a sua volta, ha operato da acceleratore della crisi del sindacato. Saltano il modello e il mandato della rappresentanza (sindacale e politica) fondati sul lavoro operaio. Salta, per meglio dire, la sostanza industrialista, prima ancora che operaista, del modello e del mandato della rappresentanza. Nel processo della riproduzione sociale e nelle strategie costitutive e costruttrici del "patto sociale", si dissolve la "centralità" sia del lavoro operaio skilled che del lavoro operaio unskilled. Eppure, la contrattazione, le politiche del lavoro, le ipotesi e le strategie del patto sociale rimangono ancorate a quella sostanza industrialista; ancor oggi è così. Tantomeno, la crisi del patto industrialista viene agita dal sindacato quale elemento strategico della rideterminazione positiva dei meccanismi di legittimazione del "mandato sindacale". Al contrario, accompagna il declinare crescente della legittimazione dal basso e del modello partecipativo-democratico di rappresentanza sindacale. Non a caso, i "Consigli di fabbrica" sopravvivono, per anni, alla loro crisi irreversibile, ridotti a "scatole vuote", in fatto di elaborazione strategica, di decisione e partecipazione democratica.. Non a caso, diventa prassi diffusa e consolidata che essi restino lungamente in carica, senza rinnovo elettorale, senza ricambio e senza verifica del loro mandato di legittimità.

Allo stato attuale, manca all'interno del movimento sindacale italiano, fatta salva qualche sporadica eccezione, una rigorosa analisi intorno:

  1. alla duplicazione del mandato di rappresentanza tra "rappresentanza in senso stretto" e "rappresentatività";
  2. ai vizi culturali d'origine del modello di rappresentanza basato sugli interessi, cui pur faceva cenno Foa;
  3. alla carenza di perspicuità, nelle società differenziate e complesse, del modello di rappresentanza fondato sugli interessi;
  4. alla "messa in mora" della legittimazione democratica dal basso operata dalla rappresentanza sindacale;
  5. ai limiti e ai rischi della legittimazione dall'alto (sia dei vertici delle strutture statuali che dei vertici delle strutture sindacali) dell'azione e della rappresentanza sindacale.

Il riannodarsi di tutti questi fattori critici in un unico bacino di problemi segna in ambito specificamente sindacale il proliferare di modelli di decision making ricavati dai paradigmi della democrazia neocorporativa (Arrigo-Vardaro 1982; Berger 1983; Bordogna 1985; Lange 1986; Maraffi, 1981; "Problemi del socialismo" 1982; Rusconi 1984; Schmitter 1986; Vardaro 1985, 1988b, 1989a, 1989b). Ora, secondo gli inputs/outputs di tali paradigmi, la validazione delle procedure decisionali e dei modelli di rappresentanza:

  1. promana dall'alto verso il basso;
  2. restringe il campo dei decisori e della selezione dei temi;
  3. cristallizza il primato delle organizzazioni di contro ai soggetti;
  4. subordina l'opzione dei mezzi/fini alle risultanze finali di organizzazione;
  5. asserve i canali della legittimazione/rappresentanza ai selettori dell'azione/decisione di governo, secondo la razionalità strumentale-calcolistica costi/benefici.

La dinamica propria alla rappresentanza degli interessi induce il sindacato a "ragionare" in termini di "grande organizzazione", con la progressiva assimilazione di una logica d'azione corporatista. La negoziazione sindacale si fa negoziazione di organizzazione che riceve dalle/e conferisce alle controparti organizzate la legittimazione attiva. Sul piano storico generale, la migliore coniugazione (non solo in Italia) del circolo chiuso sia dello scambio industrialista che di quello corporatista sta nel patto sociale taylorista-fordista, intorno cui, in larga misura, hanno ruotato le stesse politiche di Welfare, prima di conoscere una irreparabile caduta di tensione.

In Italia, il modello originario ha visto aggiungersi una variante spuria: il patto sociale taylorista-fordista ha sistematicamente privilegiato le grandi "concentrazioni di interessi" su base industriale. Ed è, appunto, questa variante del modello originario a fungere come costante del caso italiano. Persino lo Stato, nella figura di Stato-imprenditore, si è fatto concentrazione di interessi industrialisti (Chiocchi 1998). Nonostante il venir meno dei presupposti e delle "condizioni materiali" del patto taylorista-fordista, in Italia, ancor oggi, sindacato (da un lato) e Stato (dall'altro) fanno dell'industria medio-grande la colonna portante della normativa contrattuale (Gottardi 1997).

Per un sindacato che fonda univocamente la rappresentanza in senso stretto sull'organizzazione degli interessi, lo sbocco (anni '60 e '70) verso la rappresentanza industrialista è inevitabile. Altrettanto ineluttabile è il progressivo slittamento (anni '80 e '90) verso la rappresentanza corporatista che esclude dal "patto" e dalla "protezione" gli "interessi diffusi" e i loro portatori. Se prima i soggetti del pluralismo facevano fatica ad essere assorbiti dalle cerchie della rappresentanza (industrialista), ora ai soggetti della complessità e delle differenze è letteralmente interdetto l'accesso all'arena della rappresentanza (corporatista).

L'approdo coerente e, insieme, inquietante è il seguente: la rappresentanza corporatista, riconiugando lo sdoppiamento costituzionale rappresentanza/rappresentatività, si configura come la forma svelata meglio compiuta della rappresentatività. Sicché possiamo lecitamente concludere, rifacendosi anche alle categorie interpretative di G. Vardaro, che la rappresentatività senza rappresentanza è esattamente la rappresentanza corporatista. Il passaggio dall'industrialismo al corporatismo su base industriale, come si vede, non viene a capo delle ambiguità e dei vizi di origine del modello di sindacato e di relazioni industriali operante in Italia; all'opposto, li azzera con un atto d'imperio.

Come punti di passaggio salienti dalla rappresentanza industrialista alla rappresentanza corporatista possiamo assumere:

  1. la disdetta dell'accordo sulla scala mobile del giugno 1982, col quale il vecchio "assetto" contrattuale viene meno e se ne inizia a costruire uno nuovo (Mariucci 1985);
  2. l'accordo del 22 gennaio 1983 (AA.VV. 1983) che, sviluppando e rielaborando nel nuovo contesto le politiche di "moderazione salariale" tenute a battesimo nella seconda metà degli anni '70 con la celebre "svolta dell'Eur", stabilisce un quadro di coerenza rigido tra "politica salariale", "strategia anti-inflattiva" e "stabilità economico-politica";
  3. il protocollo sindacato-governo di San Valentino del 1984, sottoscritto senza l'adesione della Cgil, col quale, in sede di recezione dell'accordo del 1983, si provvede ad un'ulteriore compressione della scala mobile ("Politica del diritto" 1984); a causa della mancata adesione della Cgil, il protocollo trova una immediata recezione a mezzo di decreto legge.

Proprio il protocollo di S. Valentino e la sua conseguente trascrizione legislativa segnano la definitiva rottura delle vecchie "regole del gioco" in tema di relazioni industriali; e le nuove "regole del gioco" hanno apertamente un carattere escludente (Lange 1987; Mariucci 1986; "Politica del diritto" 1984; Vardaro 1989a). Qui, come è stato opportunamente fatto osservare: il governo interviene "per la prima volta nella storia post-costituzionale, per disporre una riduzione diretta dei salari correnti, mediante il taglio di quattro punti di contingenza, e senza il corredo di un unitario consenso sindacale" (Mariucci 1986, 36). In conseguenza del quale: viene "da chiedersi se i sindacati siano ancora una forma di "organizzazione sociale", cioè rappresentanze di interessi che entrano in rapporto con diversi soggetti afferenti all'universo del "potere pubblico", oppure se essi siano divenuti l'articolazione di un policentrico, e diffuso, sistema politico-amministrativo, ampiamente privatizzato quanto a stili di comportamento e "contrattualizzato" quanto a procedimenti di decisione"; e, dunque, occorre chiedersi, infine, se il ceto sindacale non sia "divenuto, specialmente ai vertici, un complemento del ceto politico" (Mariucci, 1986, 36; corsivo nostro). Come il medesimo Mariucci fa osservare, ai quesiti non può essere data una risposta univoca (Mariucci 1986, 37); tuttavia, gli interrogativi sono la spia di un rilevante mutamento in corso, il cui profilo appare ambiguo e la cui identità è di difficile decifrazione.

Al di là delle risposte a domande così complesse, si può dire con certezza: il "protocollo di S. Valentino" sancisce la cancellazione dall'alto, a mezzo dell'interventismo statuale e attraverso fratture endosindacali, del modello diadico di rappresentanza/rappresentatività affermatosi con la costituzione repubblicana. La "messa a regime" dell'organizzazione sindacale, non a caso, era stata costituzionalmente demandata alla libera autodeterminazione del sindacato (art. 39 Cost.); e sempre non casualmente, l'art 39 della costituzione non aveva mai trovato applicazione, in quanto a registrazione e personalità giuridica del sindacato. Va qui conclusivamente sottolineato che il processo appena descritto importa la caduta di vigenza dell'accordo fondamentale che, attraverso significativi e progressivi riaggiustamenti, aveva retto le sorti delle relazioni industriali nel nostro paese, nella transizione dalla rappresentanza operaia chiusa (anni '50) alla rappresentanza operaia aperta (anni '60 e '70) che qui abbiamo rapsodicamente illustrato.

2.2.

Rappresentatività corporatista e scambio asimmetrico: verso gli anni '90

Posiamo affermare che le pratiche corporatiste facciano tutt'uno, in Italia, con le "esperienze concertative", consistenti nella messa a punto di un "metodo di decisione politica trilaterale" e che trovano le loro prime applicazioni sul finire degli anni '70 (Vardaro 1989a). Ora, come abbiamo avuto già modo di ricordare, la rottura dell'accordo fondamentale intervenuta per il tramite del protocollo di S. Valentino riscrive la nozione medesima di "sindacato maggiormente rappresentativo" (art. 19, SdL): "maggiormente rappresentativo" diviene quel sindacato che riceve l'investitura statuale (Vardaro 1989a). Non fa meraviglia, quindi, che le prassi corporatiste/concertative del tipo appena descritto configurino una restrizione indebita della libertà sindacale (Rusciano 1987; Vardaro 1989a).

In sede teorica, come si sa, viene postulata una distinzione generale tra corporatismo e concertazione. Stando ai principali teorici in materia (Schmitter e Lehmbruch), si può in sintesi osservare: mentre il corporatismo è una forma di articolazione e organizzazione degli interessi, la concertazione è una modalità di formazione delle politiche pubbliche (cfr., da ultimo, Regini 1996). In questo approccio, ovviamente, corporatismo e concertazione sono il contraltare della deregulation. In Italia, soprattutto nei primi anni '80, il concetto di concertazione si è sovrapposto a quello di scambio politico (Regini 1983, 1984, 1985, 1986; Rusconi 1984).

Ora, le distinzioni generali tra corporatismo e concertazione (ed altre ancora di carattere particolaristico) non hanno retto alla prova dei fatti e delle esperienze storiche (Regini 1996). Numerosi sono i contesti in cui organizzazione degli interessi e formazione delle politiche pubbliche coabitano. Addirittura, assistiamo ricorrentemente ad una deregulation normativa "pianificata" da "politiche concertative": l'istituto dei "contratti d'area", per fare solo uno degli esempi più recenti, è un macroscopico caso di deregolamentazione a mezzo di pianificazione concertata, istituente un articolato sistema normativo di deroghe alle: (i) "clausole minime" che disciplinano l'accesso al mercato del lavoro: (ii) norme fondamentali introdotte dalla legislazione sul lavoro.

Il caso dell'Italia è particolare: corporatismo e concertazione qui continuano ad occupare un posto di rilievo nell'agenda politica e sindacale. A dispetto di quelle sentenze profetizzanti per il corporatismo una fine senza via di scampo, negli anni '90, parti sociali e governo concludono "accordi triangolari" su materie delicate e rilevanti; come vedremo.

Ma riprendiamo con ordine a dipanare il filo della storia.

Dobbiamo osservare, preliminarmente, che le politiche di concertazioni e/o corporatiste hanno, tra l'altro, la non trascurabile funzione/finalità della stabilizzazione del conflitto (Korpi-Shalev 1981). In Italia, il primo (timido) passo in tale direzione è rinvenibile nell'Accordo Interconfederale sul "punto unico di contingenza" del 1975 che, significativamente, vede l'assenza dell'attore pubblico. Più che un esempio di concertazione vera e propria, si tratta di un accordo bilaterale ispirato dall'esigenza di ricondurre a stabilità il sistema delle relazioni industriali. Quel patto ha breve vita, poiché alimenta le aspettative inflazioniste (non a caso, è etichettato come "patto inflazionistico"), anziché riassettare in termini di governabilità razionalizzata e contrattata le relazioni industriali. Pur entro questi limiti ben evidenti, il "patto" del 1975 costituisce l'antefatto embrionale delle politiche della concertazione in Italia.

A partire dal 1977, tra ripiegamenti, ripensamenti, oscillazioni e contraddizioni, si affermano tra le "parti sociali" e nell'attore pubblico più radicati convincimenti intorno alla necessità di addivenire a razionali politiche di concertazione, in una logica di "scambio politico" (Baglioni 1983; Bordogna-Provasi 1984; Perulli 1982; Regini 1983, 1984, 1985, 1986; Rusconi 1984). Con gli accordi di gennaio-marzo 1977, stipulati rispettivamente con Confindustria e governo, il sindacato "salva" la contrattazione aziendale, "concedendo" alle controparti la modifica del calcolo della contingenza e nuove condizioni di impiego razionale della forza-lavoro (festività soppresse, ferie scaglionate, mobilità, controllo dell'assenteismo). La contropartita strappata dal sindacato appare di portata modesta: si tratta, ad onor del vero, di uno scambio politico a bassa soglia di rendimento. C'è chi ritiene che proprio la difficoltà dei sindacati di strappare vantaggi consistenti dalle politiche di concertazione finisca col sospingere lo scambio politico in una situazione di stallo (Regini 1985, 1986). Non va sottaciuto, però, che alcuni "vantaggi" sono esterni alle politiche di concertazione in senso stretto e sembrano afferire ad una logica di scambio politico indiretto, con una ricaduta sul piano dell'intervento politico-legislativo. In tale contesto sembrano inscriversi: (i) la legge sulla ristrutturazione e riconversione industriale del 1977; (ii) la legge sull'occupazione giovanile del 1977; (iii) la legge sulla formazione professionale del 1978; (iv) il disegno di legge Scotti sulla riforma delle pensioni del 1978.

Ma gli esperimenti del 1977 già nel 1979 subiscono una brusca interruzione, facendo parlare di "declino" e "crisi" della concertazione (Lange 1987; Regini 1983, 1984) e di "scambio politico bloccato" (Regini 1985, 1986). Bisogna aspettare l'accordo del gennaio 1983 (di cui si è già detto), per la rimessa in cammino delle politiche della concertazione in Italia.

Secondo M. Regini, il velleitarismo delle politiche di concertazione degli anni '70 è imputabile, sostanzialmente, a quattro fattori:

  1. la scarsità delle risorse da redistribuire, a fronte di una situazione generalizzata di crisi economica;
  2. l'incapacità del governo di proporsi come parte attiva e garante politico dei benefici concertati nel lungo periodo; nemmeno un governo pro-labour (come quello della "solidarietà nazionale") si rivela all'altezza del compito di mantenere un giusto equilibrio tra "risultati attesi" ed "esiti" delle politiche di concertazione;
  3. insufficienza ed inefficienza della pubblica amministrazione, risucchiata nei vortici del "continuismo" e poco disponibile all'innovazione;
  4. progressiva incubazione della crisi di rappresentanza del sindacato che ne rende non più assolutamente indispensabile il consenso (Regini 1986, 146-147).

Ora, proprio il fallimento degli anni '70, fa sì che le politiche di concertazione subiscano una rielaborazione semantica e politica: più che involgere e coinvolgere strategie strutturali di lungo periodo, esse si focalizzano e rideterminano congiunturalmente come politica concordata dei redditi in funzione anti-inflattiva. Il "teorema sindacale", in parte, entra in crisi e, per il resto, viene riformulato (Carrieri-Perulli 1985). L'oggetto delle politiche concertative sta proprio nel patto sociale anti-inflazione. Per il sindacato, la posta in gioco dello scambio è la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto e la flessibilizzazione dell'uso della forza-lavoro in cambio dell'attivazione: (i) di benefici (fiscali e non) a favore dei lavoratori; (ii) di condizioni minime di rilancio dello sviluppo, il cui prerequisito viene fatto, appunto, coincidere col raffreddamento programmato della spirale inflazionistica. L'accordo del 22 gennaio 1983 è il primo esito della nuova tendenza; con l'accordo di S. Valentino dell'anno successivo, il processo si "chiude" risolutivamente.

L'oggetto e i soggetti delle politiche di concertazione vengono destrutturati per linee interne. Il passaggio che si realizza è, così, rappresentabile: dalla concertazione intorno a variabili strategiche di lungo periodo si transita alla concertazione congiunturale anti-inflattiva e per il contenimento del costo del lavoro. Col che la sostanza industrialista del patto sociale specificamente italiano si sovradimensiona e, nello stesso tempo, si esaltano i contenuti più marcatamente corporatisti della legittimazione e della rappresentanza, in ambito sindacale ed extrasindacale. Il sindacato si va separando dalle funzioni tipiche di mediazione, contenimento e istituzionalizzazione del conflitto, giocate nella fase della rappresentanza chiusa (del lavoro skilled) e ridefinite in quella successiva della rappresentanza aperta (del lavoro unskilled); nondimeno, non devia dalla sua genealogia industrialista. Solo che ora l'industrialismo sindacale non fa più perno:

  1. sulla categoria dell'interesse dei rappresentati; bensì su quella della decisione di organizzazione;
  2. sulle funzioni della mediazione (del conflitto); bensì su quelle del contenimento e della vanificazione procedurale ed extranormativa del conflitto, assunto quale agente di entropia sociale.

Il sindacato si fa direttamente interprete e garante dello sviluppo industriale, in funzione diretta del quale ora decide, agisce ed opera. Con la novità non irrilevante che da una concezione qualitativa: quale sviluppo?, trascorre ad una di tipo quantitativo: quanto sviluppo?. L'interesse dei rappresentati viene fatto coincidere con quello dello sviluppo quantitativo. Si istituisce, così, una doppia scala funzionale di rappresentanza:

  1. la rappresentanza/rappresentatività diretta dello sviluppo quantitativo;
  2. la rappresentanza/rappresentatività indiretta dei lavoratori.

Secondo il nuovo modello di "mandato sociale" definito dal sindacato, la seconda rientra subordinatamente nella prima e si dà unicamente a condizione del suo sussistere. La legittimazione qui promana direttamente dallo sviluppo quantitativo, a misura in cui le triangolazioni concertative riescono a promuoverlo. La politica concordata dei redditi in funzione anti-inflattiva, da parte sindacale, viene assunta quale sottovariabile di questo "sistema virtuoso" di rappresentanza corporatista. Da parte confindustriale, invece, la politica concordata dei redditi assume lo status di "variabile indipendente" del sistema di relazioni industriali: è obiettivo strategico da perseguire in ogni caso, prescindendo dalla vigenza o meno dello sviluppo; "tema" e "territorio", quest'ultimo, intorno cui mal si tollerano "intrusioni" governative e/o sindacali.

Il passaggio alla rappresentanza/rappresentatività corporatista costituisce la risposta strategica che il sindacato elabora a fronte del venir meno del suo monopolio della rappresentanza; un processo le cui origini datano al '68 (Chiocchi 1996; Gruppo di Ricerca su "Società e conflitto" 1995; Farneti 1979) e che, tuttavia, nella transizione storica che va dalla rappresentanza chiusa alla rappresentanza aperta il movimento sindacale riesce a gestire in maniera non traumatica. Con l'opzione corporatista, mutano radicalmente gli elementi base intorno cui il sindacato intende costruire la sua forza. All'altezza di questa opzione, il sindacato identifica la sua risorsa strategica non tanto nel "radicamento sociale", quanto nella sua promozione a istituzione concertativa. È, questo, il percorso attraverso cui: (i) si propone come "pilone di sostegno" del rilancio e del governo dello sviluppo (quantitativo); (ii) intende recuperare le politiche dell'esecutivo e delle controparti sociali ad una effettiva ed efficace strategia sviluppista

Le risultanze concrete di questa strategia contraddicono apertamente le attese in essa riposte. I motivi li abbiamo, a più riprese, sottolineati. Il mancato raggiungimento degli obiettivi perseguiti mette, chiaramente, in luce che la rappresentatività corporatista si rivela essere un particolare tipo di scambio asimmetrico. Essa redistribuisce: (i) vantaggi immediati all'attore pubblico e alle controparti imprenditoriali; (ii) promesse non mantenute all'attore sindacale.

Diverso discorso va fatto per quelle che sono state pregnantemente definite prassi di micro-concertazione appartata che, negli anni '80, si vanno moltiplicando a livello di economia diffusa e di grandi imprese in ristrutturazione (Regini 1996; Regini-Sabel 1989). Qui le politiche concertative, su base negoziale volontaristica, ridisegnano secondo modalità non istituzionalizzate l'assetto delle regole del rapporto di lavoro, non solo e non tanto l'apparato industriale periferico. Tuttavia, come fa rilevare Regini, la "mancanza di istituzionalizzazione" comporta: (i) instabilità di rapporti; (ii) incertezza sulle regole e sugli esiti (Regini 1996, 725). Saranno proprio queste ultime problematiche ad essere affrontate dalla concertazione degli anni '90.

 

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