Cap. III

POTERE, COSTITUZIONE, CONFLITTO

Dalla protezione del lavoro al lavoro irrapresentato

 

 

1. Weimar, altro e oltre

Prendiamo le mosse da uno dei fuochi problematici del discorso di Vardaro: Weimar. Come abbiamo a più riprese sottolineato, per Vardaro, Weimar è un "luogo di fondazione": rappresenta il prototipo della società e della costituzione post-liberali e, ad un tempo, il laboratorio di formazione e sperimentazione del diritto del lavoro propriamente detto.

Si tratta, però, di un "luogo di fondazione" particolare.

Weimar eredita tutti i nodi non sciolti del parlamentarismo liberale e, insieme, non riesce a mandare a soluzione i "problemi strategici" della incipiente società di massa. Pressata tra "vecchio" e "nuovo", non si divincola ed affranca totalmente dal "vecchio" e, alla fine, finisce col soccombere sotto l'urto di un "nuovo" non adeguatamente interpretato e decifrato.

Su un piano strettamente politico-costituzionale - e lo abbiamo visto - il suo spazio di esperienza rimane costantemente in oscillazione tra "costituzione senza sovrano" (democratico) e ricerca autoreferenziale del "custode della costituzione". Ciò la espone fatalmente agli attacchi che da destra tirannicamente cercano di autofondare lo spazio della decisione, posizionando il 'politico' oltre lo Stato e contro il diritto, facendo, così, del nodo legittimità/legittimazione una scatola piena solo di una sovranità che si autopone e autogiustifica in termini di potere. Una non migliore sorte le tocca a sinistra, dove il "comunismo dei consigli" e il modello sovietico dell'Ottobre la bollano riduttivamente come espressione della vecchia tradizione socialdemocratica.

Sul piano più propriamente socio-economico, la cultura weimariana non metabolizza la critica marxiana dello scambio contrattualistico borghese: la problematica della forma-merce, con i suoi effetti di attrazione magnetica e di incatenamento della dialettica delle relazioni sociali, le rimane ignota. Il che la fa inclinare verso profili politico-costituzionali fortemente autoritativi, incardinati sulla regolazione dall'alto dei rapporti, degli scambi e delle figure del contratto. Quasi che, da sola, la leva (pan)statuale fosse in grado di perequare, equilibrare e armonizzare i rapporti tra le classi. Qui non sufficientemente assimilata risulta la democrazia come idea e come prassi, come potenza e come atto. Si trattava di superare l'universo concettuale marxiano e la democrazia di massa; su questioni decisive, invece, Weimar rimane al di qua di Marx e della democrazia di massa.

Sul piano specifico del diritto e della rappresentanza, infine, lo "Stato corporazione" che si fa "repubblica popolare" (come abbiamo già avuto modo di argomentare, seguendo le felici intuizioni di Gaetano Vardaro) assume le sembianze perspicue di "Stato comunità". L'intrusione dell'ordigno statuale nella sfera delle relazioni sociali diviene soffocante, in una prospettiva di aconflittualismo normativo, secondo cui tutto ciò che confligge nella sfera dello scambio, del rapporto tra le classi e della regolazione sociale deve trovare superiore pacificazione nei circuiti formali della rappresentanza e nelle condotte di azione dello Stato.

Dunque: con Weimar, ci troviamo di fronte ad un "luogo di fondazione" irrisolto. Un "luogo" cui, proprio per questo, è necessario ritornare a fare transito, per prenderne definitivo commiato. Un commiato a doppia direzionalità: dal passato verso il presente e dal presente verso il futuro. Ecco qui stagliarsi, allora, uno degli elementi cruciali e più vitali della lezione che ci viene da Vardaro.

Sulla scorta di questa lezione, possiamo ritematizzare una questione nevralgica: il fallimento di Weimar non si enuclea univocamente intorno alla problematica della costituzione e, quindi, non si consuma parossisticamente intorno al rompicapo non risolto della sovranità. Se fossero questi i termini della questione, avrebbe buon gioco la critica schmittiana che ipostatizza la decisione come forma matrice della politica. Una facile vittoria conseguirebbe, sul versante opposto, anche la critica kelseniana che risolve per intero lo Stato nell'ordinamento giuridico.

Potere, costituzione e conflitto: ecco il triangolo delle forze che Weimar non padroneggia. Ma altrettanto deve dirsi del decisionismo schmittiano e del costituzionalismo post-weimariano (come vedremo).

In Schmitt, la decisione fonda il 'politico' che, anteponendosi e posponendosi allo Stato, si fa centro motore della costituzione. La decisione diviene potere costituzionale, in quanto asse gravitazionale inamovibile dell'universo semantico dell'unità politica e, quindi, soggetto allocatore e distributore dell'obbligazione politica.

Qui l'obbligazione politica non è intermediata dal giuridico: tutto rimane ed è risolto nelle sfere del 'politico'. Altrimenti detto: i limiti invalicabili non sono disegnati e posti dalla legge; bensì dal potere costituzionale (decisionale) che si autofonda e autolegittima in un vertice siderale di inaudita intensità politica.

La società politica e l'ordine politico vengono squarciati parte a parte da un sommovimento tellurico: non si costituiscono più e più non si legittimano intorno al flusso di comando/obbedienza, libertà/legittimità; bensì intorno alle polarità costituzione/decisione, 'politico'/potere. Se in Weimar la libertà è pietrificata dallo sguardo di Medusa (del potere) dello Stato, in Schmitt la libertà è infeudata sotto il 'politico' e il potere decisionale-costituzionale che gli corrisponde; se in Weimar la costituzione rimane senza sovrano democratico, con Schmitt la costituzione trova un custode dispotico: la sovranità del potere (auto)fondato e (auto)legittimato dalla decisione politica.

In entrambi i casi, secondo prospettive divergenti e sovente contrapposte, viene meno il sostegno alle libertà della società e ai diritti dei singoli. In entrambi i casi, rimane irrisolto il dilemma di Hobbes.

In Hobbes, il concetto/prassi di libertà è inestricabilmente avvinto a quello di potere. La libertà, in quanto "libertà di fare", è immediatamente libertà di "poter fare". Dunque, per essere, la libertà deve avere potere. Cioè: si è liberi soltanto se si ha il potere di essere liberi. Alcun impedimento esterno/interno deve inibire o limitare la libertà che, per esercitarsi, deve essere affiancata dal potere. Il passaggio dalle "libertà formali" alle "libertà sostanziali" è, così, intermediato dall'esercizio del potere. In questa coniugazione, il potere serve la libertà: è termine, sì, essenziale, ma pur sempre secondario rispetto alla libertà.

Sussiste, però, un'altra diramazione della trama concettuale hobbesiana che, effettualmente e teoreticamente, inverte la gerarchia delle priorità tra libertà e potere appena tracciata. Secondo questo rovesciamento, è il potere che si serve della libertà. Vale a dire: non è più posto un limite al potere, bensì alla libertà.

Il Leviatano si trova in bilico tra queste due posizioni limite:

  1. reinstaura l'obbligazione (civile) al comando statuale e fissa i termini di un nuovo patto, ripristinando il legame sociale deflagrato;
  2. nel contempo, pone lo Stato al di sopra della libertà.

L'ordine politico si declina nei termini dell'ordine del potere (statuale) di contro all'ordine della libertà. Il diritto, nell'ordigno statuale, viene sussunto sotto il potere e la potenza dello Stato-macchina.

Il giusnaturalismo hobbesiano rimane invischiato in questo dilemma irresolubile. Se poniamo la questione del "diritto naturale" come problematica della libertà e del potere, ben presto ci avvediamo che i due piani del problema non sono mediabili e fluidificabili linearmente; al contrario, la loro catena di interdipendenze mette capo a delle vere e proprie contraddizioni relazionali e antinomie concettuali.

Vediamole.

1) Nella condizione di mera natura, la situazione hobbesiana è quella dell'ostitlità reciproca esponenzialmente elevata ("la guerra di tutti contro tutti"). Nello "stato di natura", dunque, i singoli si trovano a patire un difetto di libertà e di potere. 2) Lo Stato-macchina (re)introduce autoritativamente le condizioni della convivenza civile, entro le quali l'ostilità si stempera e viene alla luce come conflitto. 3) Il Leviatano, dunque, è anche (se non per eccellenza) lo Stato della mediazione e della regolazione sociale, nelle condizioni della civilizzazione e della conflittualità tipiche della modernità. 4) Di più: uno degli attivatori/selettori della modernità è (appunto) lo Stato-macchina hobbesiano. Sicché ci troviamo sospesi tra l'ostilità (che giustifica l'ordigno autoritativo e limitativo dello Stato) e la civilizzazione conflittuale (che giustifica e posiziona i diritti e le libertà moderne). Nello "stato civile" organismo associato e singoli si trovano a dover "regolarizzare" le loro libertà, i loro diritti e i loro conflitti, in conformità ai poteri e alla libertà dello Stato. 5) Ne viene che tra "stato di natura" e "stato civile" si incunea uno scarto che la coppia hobbesiana Leviathan/Behemoth non riesce a dominare e a colmare. Anzi: qui tanto Leviathan che Behemoth rivelano la loro sostanza aporetica.

Il conflitto finisce con il comparire come terzo escluso. Il venir meno del conflitto fa letteralmente esplodere il nesso tra potere e libertà. Potere assoluto (Leviathan) di contro a libertà assoluta (Behemoth) costituiscono la prefigurazione, incarnata nel corpo del 'politico', del teatro di guerra di quella "volontà di potenza" che ha in Nietzsche il dissacrante cantore.

Da questa aporia terribile, costitutiva della modernità, non fuoriesce Weimar che (anzi), per molti aspetti, ne è totalmente inconsapevole; dentro di essa rimane inesorabilmente impigliata la "teoria della decisione" schmittiana, nonostante la titanica presunzione del contrario.

Lo spostamento del rapporto di potere intenzionato da Weimar va delocalizzando e depotenziando i diritti e le libertà dei soggetti e dell'organismo associato, a cui sovraimprime, a mezzo dell'intermediazione coattiva dell'autorità statuale, la dinamica dello scambio pattizio tra gruppi di interesse formalmente organizzati. Ecco perché qui non si incide risolutivamente nel rapporto di forza tra le classi ereditato dall'ancien régime guglielmino. Il potere viene allocato verso corporazioni di interessi e, pertanto, alle vecchie oligarchie si affiancano le organizzazioni corporatiste moderne che mediano il rapporto Stato/organismo associato non in termini democratici, bensì verticistico-elitari.

Lo Stato qui continua a comparire come regolatore automatico delle relazioni e dei conflitti sociali. La democrazia di massa, invece, aveva già spinto la messa in questione della centralità regolativa dello Stato fino all'aperta contestazione della funzione regolativa automatica del denaro. E, però, rimaneva egualmente inconseguente su un punto cardine: la compressione dei conflitti endostatali e interistituzionali nelle sfere della competizione Stato/mercato, politica/economia.

La rilevazione di Vardaro del profilo scarsamente democratico della repubblica di Weimar (e, in generale, dei suoi attori principali) trova intorno ai luoghi/parole-chiave sommariamente passati in rassegna uno dei suoi massimi punti di inveramento. Dentro la costituzione di Weimar irrisolto rimane soprattutto il nodo legalità/legittimità. Il "sistema chiuso della norma" non si sbilancia e dischiude né verso lo schmittiano "Stato decisionale", né verso la procedimentalizzazione amministrativa dello "Stato totalitario". Costituzionalmente parlando, Weimar resta chiusa in se stessa: non riesce né a riequilibrare i poteri, né a normativizzarli, né a sintetizzarli.

Come già accennato, la questione non risolta della decisione, però, non lascia il sistema politico-giuridico senza decisore. Piuttosto, mancano a decisore e decisione le fonti della legittimazione democratica. Cosicché, come abbiamo già argomentato nei capitoli precedenti, il celebre assunto di Kirchheimer richiede una non secondaria precisazione: costituzione senza legittimazione e decisione democratiche. Il sovrano, nell'architettura di Weimar, non riesce ad ancorare il proprio potere alle fonti della legittimazione democratica. Si trincera in questo territorio nascosto quello che pregnantemente Vardaro definisce il contrattualismo impossibile della costituzione di Weimar.

Le costituzioni formali post-weimariane e post-fasciste/naziste hanno, dalla loro, l'innegabile vantaggio di collocare orizzonte ed esperienza nell'enfasi del recupero e della rielaborazione del principio democratico. Purtroppo, questo vantaggio potenziale manca di tradursi pienamente in atto. È, perlomeno, dagli anni '60-70 che in tutta l'area delle società avanzate la "crisi della democrazia" si accompagna ad un deficit crescente di democrazia. Il "paradosso democratico" nuovo al cospetto del quale siamo gettati è così rappresentabile: la democrazia democraticizza in misura decrescente la società democratica. Vardaro è attento testimone e acuto critico di questo processo paradossale, posto al centro delle sue analisi sui neocorporativismi e sulle nuove forme di regolazione dei conflitti di lavoro nella società flessibile.

Una delle caratteristiche emergenti della società flessibile è la messa in crisi del rapporto tradizionale taylorista-fordista tra "autonomia" e "subordinazione". Se si vuole, usando un lessico hegeliano, assistiamo alla profonda destrutturazione della dialettica servo/padrone. Non è più questione di far uso gerarchico ed espropriante del lavoro operaio e sociale: la signoria del comando non si limita al puro e semplice sfruttamento del lavoro servile; bensì tende ad annettersi il campo largo dei saperi diffusi e l'intera struttura metapoietica sociale.

Ciò ha conseguenze non irrilevanti sul diritto del lavoro, il cui profilo weimariano (quale elemento di protezione, perequazione ed emancipazione del lavoro) entra inesorabilmente in crisi. Quali diritti e libertà del lavoro si possono e si debbono ora mettere sotto tutela e garanzia:

  1. se la società flessibile (anni '70-'80) espelle, in misura crescente, il lavoro vivo dai cicli produttivi, trasformandolo in variabile non più centrale, ma accessoria dei processi di creazione/redistribuzione della ricchezza sociale?;
  2. se la società delle interconnettività pulviscolari (anni '80-'90) spezza del tutto, fino agli ultimi residui, la sussunzione reale del lavoro vivo sotto il rapporto sociale di capitale, facendo dei processi della "conoscenza della conoscenza", della "comunicazione della comunicazione" ecc. gli stampi per la creazione di un nuovo genere e nuove generazioni di lavoro, di forme di rappresentanza e di conflittualità?

Nella sua analisi della società flessibile, Vardaro è pienamente consapevole del carico di questa ambiguità, anche se inclina verso tematizzazioni non convergenti con quelle che per sommi capi qui si vanno accennando e che più avanti si tenterà di lumeggiare. Per l'effetto non secondario di tali ambiguità, il groviglio dei diritti e delle libertà va riallocando la sua puntiforme e sfuggente mappa di senso.

Il ridisegno in toto dei diritti fondamentali del lavoro è l'altra faccia della riscrittura integrale delle tavole della libertà nelle società complesse. Anticipando sviluppi analitici che successivamente cercheremo di meglio argomentare, osserviamo che su questo terreno si gioca il processo di trasformazione/transizione dalla protezione del lavoro al lavoro irrapresentato. Qui emerge, con ancora maggiore nettezza di quanto già fatto rilevare da Mortati, come la tutela conseguente delle libertà e dei diritti del lavoro involga la stessa forma-Stato.

Per essere ancora più chiari: in un quadro storico-sociale in cui devesi registrare lo scacco tanto della "democrazia economica" che della "democrazia industriale", direttamente in causa sono chiamati: a) la signoria assoluta dell'imprenditore sui processi lavorativi/produttivi; b) il potere disciplinare/discrezionale del datore sulle forme del lavoro subordinato. Chiaro che problematiche metagiuridiche di questo tipo abbiano un impatto immediato sulla forma-Stato.

Vardaro sventaglia la sua analisi anche in questa direzione, soprattutto là dove cerca di delimitare in chiave critica il campo di azione del potere disciplinare giuridificato, alla luce delle innovazioni e restrizioni apportate dallo Statuto dei lavoratori (in specie, l'art. 7). Egli ha buon gioco nel rilevare che sulla restrizione dei poteri disciplinari del datore riposa (anche) il riconoscimento della sua autorità: nel procedimentalizzarla, lo Statuto va arricchendo tale autorità di una fonte di legittimità fino ad allora assente. Ma v'è ancora dell'altro. Inveniamo qui il passaggio, nota Vardaro, da una concezione meramente proprietaria ad una multifattoriale dell'imprenditore: ora sono tutti i fattori della produzione, non solo il lavoro, che rientrano nelle cerchie del comando e della legittimazione del datore/imprenditore/manager.

La procedura di legittimazione funzionale del potere disciplinare/discrezionale non va nella direzione del pieno conseguimento delle finalità della democrazia industriale e della democrazia economica. Le sfere di decisione relative ai processi produttivi e quelle inerenti alla redistribuzione dei beni materiali e immateriali continuano ad essere di natura escludente e spoliatoria, compromettendo il carattere democratico della forma-Stato. Che la democrazia continui inesorabilmente ad arrestarsi davanti ai cancelli delle fabbriche (come davanti alle sbarre delle carceri e di tutte le istituzioni totali) è il segno tangibile del cristallizzarsi della forma-Stato intorno alle forme del potere, a tutto detrimento della libertà. La giuridificazione del potere disciplinare è una sottoarticolazione di tale processo.

Di nuovo, il conflitto compare come "terzo escluso", soggetto/oggetto rimosso sia dalla dinamica del potere che dalla problematica della costituzione. Siamo posti di fronte ad una persistenza che è, sì, diabolica, ma segnata da un grado assoluto di coerenza: l'anello mancante della modernità sopravvive alla modernità. Meglio: la plasma, gettandola oltre il suo orizzonte, per fissarla ed universalizzarla e, così, comandare il flusso metastorico di spazio e tempo. La mancanza - e l'abbiamo visto - si rielabora e innova nella costituzione di Weimar e nelle costituzioni post-weimariane.

L'anello manca nella medesima catena argomentativa di Vardaro. Tentiamo di costruirlo qui. Le responsabilità conseguenti, ovviamente, sono nostre; nella misura in cui personale può essere ogni responsabilità entro cui, comunque, echeggiano e filtrano discorsi/concetti altrui e l'intero immaginario collettivo.

2. Un succinto intermezzo

Tutte le nostre osservazioni sono andate convergendo verso assunti che è tempo ora di esplicare e, quindi, sinteticamente argomentare.

Individuato nella triangolazione potere/costituzione/conflitto il presupposto ineliminabile del rapporto Stato/società e 'politico'/libertà, risultano ampiamente insoddisfacenti le prevalenti e contrapposte codificazioni del concetto/nozione di costituzione. Ci riferiamo:

  1. alla linea genealogica liberale che diparte da Locke/Constant e arriva a Kelsen, secondo cui la costituzione è sinonimo di norma superiore di garanzia;
  2. alla linea genealogica decisionista che diparte da Hobbes/Hegel e perviene a Schmitt, secondo cui la costituzione vale come campo di aggregazione dell'unità politica.

Riteniamo che intorno a questo conflitto fra genealogie si sia insediata una dicotomia spuria e che ciò abbia causato un regresso a confronto delle "dottrine costituzionali" e delle "teorie politiche" del pensiero greco.

Cerchiamo, in breve, di dar conto di ciò.

Partiamo dall'antico.

Nel pensiero politico greco, l'aggregazione politica è, per definizione, aggregazione di conflittualità. La guerra è rottura dell'aggregazione della conflittualità che si incarna nella polis; per questo, si dà solo con l'esterno (almeno fino alla guerra del Peloponneso: 431-404 a.C.). All'interno della polis, il competitore non è il "nemico assoluto" (hostis); bensì l'avversario con cui si confligge (inimicus). La costituzione politica, nell'escludere la guerra interna, insedia la comunità politica come luogo/parola del conflitto.

Questo ci induce a dire: presso i Greci, come non si dà isomorfismo tra conflitto e guerra, così politica della guerra (all'esterno) e politica del conflitto (all'interno) non possono mai accampare una pretesa di potere assoluto sul 'politico'. E ancora: nei Greci, il 'politico' non può mai regolare ultimativamente né il conflitto e né la guerra.

Il concetto di 'politico' della modernità riceve qui una sferzante critica ante litteram; altrettanto deve dirsi della polemologia moderna, in specie nella versione clausewitziana che riduce la guerra ad un "prolungamento" (con altri mezzi) della politica.

La costituzione dello Stato moderno accoglie, del pensiero politico classico, il protocollo di illegittimità della guerra interna, salvo poi ribaltarne le gerarchie semantiche. Nei Greci, il 'politico' conserva un primato ontologico sullo Stato; nei moderni, è lo Stato ad affermare la sua primazia sul 'politico'. Mentre il primato del 'politico' sullo Stato non rimuove il conflitto, il primato dello Stato sul 'politico' tende operazionalmente a sradicare dalla comunità politica, con la guerra interna, il concetto/prassi di conflitto, anche laddove è formalmente assunto.

Tuttavia, si tratta di superare anche i limiti del pensiero politico e costituzionale classico, sulle cui aporie si insediano alcuni dei più laceranti dilemmi del 'politico' moderno e contemporaneo..

Nel pensiero politico greco, una questione di fondo non è adeguatamente affrontata: il rapporto tra conflitto e mutazione costituzionale. La problematica della fondazione/rifondazione del patto sociale, in relazione alle dinamiche del conflitto, risulta assente nell'agire e nel fare politico. L'unico tentativo coerente dispiegato in questa direzione riconosce esplicitamente il suo fallimento (Aristotele, POLITICA, V libro).

Il fatto è che il problema della costituzione, nei Greci, non diviene mai una dinamica, ma si posiziona come una statica. Ed è proprio la statica della costituzione a neutralizzare gli effetti più conseguenti collegati al riconoscimento, pur avvenuto, del ruolo e delle funzioni del conflitto nella comunità politica della polis. Qui il concetto di 'politico' si inabissa nell'autoreferenzialità: presume prometeicamente di irradiare intorno a sé la società tutt'intera, deprivandola di dialogica relazionale e intersoggettiva. Risultano cristallizzati i soggetti del conflitto ed evaporano le medesime forme del vivente umano e non-umano nella loro problematica esistenzialità corporea.

Una concezione dinamica si fa, invece, consapevole che la costituzione è luogo di formazione originaria, non solo di ricezione formale, di conflitti di interesse, di valore e di senso. Come il conflitto non può risolvere in sé il "problema della costituzione", così la costituzione non può sciogliere in sé il "problema del conflitto".

Viene, di solito, fatto osservare: la costituzione è portatrice di interessi comuni; il conflitto, viceversa, è sede di interessi particolaristici, continuamente in competizione. Se rimaniamo ancorati ad una concezione statica di questo tipo, inevitabilmente dobbiamo, poi, definire la costituzione con codici binari e il problema diventa irresolubile. Possiamo sperare di fare qualche passo avanti, soltanto se alla costituzione riconosciamo espressamente uno statuto tridimensionale mobile. Se, cioè, facciamo subentrare nella dinamica costituzionale l'azione delle differenze apportate dal conflitto, le quali contestualmente:

  1. allargano il campo dell'unità politica;
  2. rielaborano ed adeguano la norma generale;
  3. riscrivono, in termini di libertà e non di potere, i codici e le rappresentazioni del patto sociale.

La problematica della costituzione si coniuga qui come multiversum della sovranità; o, meglio: come comunità delle differenze, in cui l'identità non si confonde mai e mai si scioglie nell'uniformità. Questo significa due cose, unite e distinte insieme. Le differenze sono: a) il limite della costituzione; b) limite esse stesse di sé medesime.

Con un maggiore grado di pertinenza nei confronti del nostro asse di indagine, dobbiamo ora dire: coniugazione del differenziale della costituzione e superamento del limite che ogni differenza costruisce nella prossimità delle altre rappresentano i fuochi intorno cui il conflitto costruisce/elabora la sua poietica. Fuori di questa poietica non vi sono le forme/parole del conflitto. Fuori di ciò il conflitto perde le sue proprie modalità di espressione e comunicazione, divenendo afasico. Il conflitto afasico è quel "tipo" di conflitto che non riesce più a ritrovare le proprie forme/parole ed è, perciò, detto/parlato da altri linguaggi; nel nostro caso: o la mania di onnipotenza del potere o la deriva della marginalizzazione e del ripiegamento.

Come già Hannah Arendt, dobbiamo separare il concetto/prassi di bene comune dall'interesse generale stabilito dall'ordine statuale e garantito dalle leve potere.

Parimenti, passando oltre il pensiero politico arendtiano, non possiamo più concepire stabilmente il concetto/prassi di felicità pubblica come mera risultante dei liberi sistemi di azione. Come il bene comune non è più quello del potere e dello Stato, così la felicità pubblica non riposa univocamente nell'azione libera.

Nell'ipotesi che stiamo sommariamente delineando, il potere si articola nei soggetti differenti della sovranità, i quali lo ridislocano secondo la mappa plurale della costituzione. Quella del potere cessa di essere una geometria algida, proprio rinunciando alla potestà regolativa e calcolistica che, tra gli altri suoi esiti devastanti, espelle il magma ribollente dei sentimenti e delle emozioni dallo spazio pubblico.

L'ingresso qui alluso degli affetti, dell'intersoggettività e delle differenze nella trama costituzionale non significa il ritorno del caos sedizioso delle passioni, quale elemento di nutrimento perpetuo dell'entropia dell'ordine sociale e della schizofrenia del potere. Configura, piuttosto, un primo passo per lasciarsi definitivamente alle spalle le pretese prometeiche dello Stato, le tentazioni accentratrici della politica, le pulsioni catartiche dell'azione e il narcisismo autolesionistico del conflitto. Dobbiamo provare a pensare/agire la costituzione non più in un quadro di fissità sovrastorica e metapolitica; ma riconoscendola come paesaggio/passaggio mobile, morfogenetica trama complessa, mai riconducibile unidirezionalmente o alla politica o allo Stato o alla società o a se stessa

Allora:

  1. il problema del potere non è più risolvibile con la limitazione del sovrano, a mezzo della costituzione;
  2. il problema della costituzione non è più risolvibile con la surroga della decisione, a mezzo del potere;
  3. il problema del conflitto non è più risolvibile con l'istituzionalizzazione dei movimenti, a mezzo del potere costituzionale.

Trasformazione costituzionale del potere, consolidamento politico della costituzione e mutazione conflittuale della costituzione divengono qui i punti/problemi di una triangolazione difficile, costantemente da fare e rifare e costantemente in disfacimento. Ma è proprio il continuo posizionarsi e riposizionarsi di tale triangolazione che definisce il 'politico' come problematica e non già come assiomatica (della decisione).

Così stando le cose, non il rapporto amico/nemico, bensì il legame amico/Altro è il vero nodo gordiano dell'esistenzialità della politica, della relazione sociale e della vita umana. Da qui trae origine l'elogio del conflitto che, in queste pagine, stiamo provando rozzamente a tratteggiare.

3. Una parziale conclusione

Avviandoci a concludere, dobbiamo entrare rapidamente nel merito delle questioni. Partiamo da un apparente paradosso: proprio il progressivo venir meno della funzione valorizzante del lavoro vivo conduce a mutamenti di gerarchia nella tematizzazione politica.

L'oggettualità/soggettualità del lavoro dà ora luogo a figure multiple, non intrappolabili negli schemi classificatori politicisti e/o economicisti e nemmeno nelle forme/regole della rappresentatività e della rappresentanza fin qui conosciute e sperimentate. La crisi della società taylorista-fordista (e del corrispondente patto sociale) ridetermina l'esperienza delle relazioni spazio-temporali, a partire dalla riarticolazione del nesso tempo di lavoro/tempo di vita.

La virtualità e l'interconnettività proliferanti tendono ad annullare le distinzioni classiche tra tempo di lavoro e tempo di vita. Ciò è causa di un processo estremamente contraddittorio, in pieno svolgimento sotto i nostri occhi. Da una parte, viene aperto il fianco a più pervasive fenomenologie di colonizzazione che vanno oltre la Lebenswelt del lavoratore, per fagocitare le "forme di vita" entro cui esistenza e dialogica umane sono calate. Dall'altra, vanno territorializzandosi in maniera diffusiva le premesse per una rottura definitiva dei paradigmi lavoristi e produttivisti, vera sostanza cerebrale e, insieme, virus della civiltà industriale.

Tempi e luoghi della prossimità non sono più dettati dal ciclo dell'atomo, ma dai cicli informazionali/comunicativi del bit. Attorno ai cicli del bit si giocano e consumano inflazione di informazioni e sovraccarico di impegni e di richieste che: a) divorano forme e figure della rappresentanza tradizionale; b) scuotono profondamente la mappa intorno cui sono andate assettandosi le democrazie moderne e contemporanee. Nell'universo politico, saltano in aria i paradigmi del decision making; del pari, nell'universo dell'organizzazione produttiva, franano i paradigmi del problem solving. Le richieste sul campo sono estremamente più complesse e differenziate delle risposte unilineari fornite dalla decisione politica e dalle strategie endorganizzative. Qui torna prepotentemente di attualità il paradigma rizomatico di Deleuze e Guattari.

Il lavoro seriale viene progressivamente sostituito da sistemi automatici flessibili intelligenti. Ciò che deborda ed eccede l'uniforme e il conforme, valicando le barriere del lavoro ripetitivo, si posiziona ora come nuovo genere di lavoro: lavoro della conoscenza, lavoro informativo, lavoro comunicativo. Caratteristica di questo nuovo genere di lavoro è la sua multiversità, il suo differenziale interno esponenzialmente crescente.

Conseguentemente, i processi di formazione delle identità di gruppo conoscono una irreparabile caduta di tensione. Nel multiverso della forma-lavoro, i singoli lavori non sono (più) omogenei tra di loro; bensì complementari, poiché complementari sono i flussi delle conoscenze/ informazioni/comunicazioni. La sfera dell'interesse qui non può più essere il coaugulante dell'identità. Col che entra definitivamente in crisi il concetto classico e post-classico di democrazia (e i corrispettivi modelli costituzionali), incardinato sulla rappresentanza degli interessi/identità di gruppo.

La rete dei nuovi saperi dà, altresì, corso a nuove generazioni di lavori: i lavori virtuali. Vale a dire: lavori remotizzati a mezzo di connessione in rete. La remotizzazione qui connette tra di loro non solo "autorità" e "subordinazione" dentro i processi lavorativi (virtuali); ma anche il produttore al consumatore, fino a dislocare il wired consumer nei termini del client on line. Dal marketplace eravamo velocemente passati al marketspace; da questo ultimo andiamo ancora più alacremente trascorrendo verso il cybermarket. Ha, forse, ragione Negroponte, quando afferma che Internet è la struttura causale di una trasformazione ancora più radicale di quella intenzionata dall'invenzione della stampa. Già ora, in effetti, siamo ben oltre la "galassia Gutenberg".

La razionalità incorporea dei lavori virtuali squarcia fragorosamente l'unità aristotelica e taylorista-fordista di spazio e tempo. Il tempo del produrre va al di là dello spazio del produrre. Meglio: in ogni spazio si disseminano i tempi del produrre e in ogni tempo si dislocano gli spazi del produrre. Il produrre, il fare, l'agire e il vivere subiscono qui una profonda rielaborazione semantica. Non solo. Il tempo si spazializza infinitesimamente; lo spazio si temporalizza all'infinito. Le dicotomie tra spazio e tempo, ereditate da antiche e moderne tradizioni filosofiche (da Agostino a Heidegger), cedono in tutta la loro friabilità.

La rappresentanza degli interessi metteva (e ancora mette) capo ai codici della democrazia differita. Nel tempo differito della rappresentanza gli interessi trovavano (a ancora trovano) la proiezione del loro spazio di discussione e di soddisfacimento. Le nuove soggettività del lavoro e dei lavori reclamano, invece, discussione e soddisfacimento delle loro aspettative in tempo reale e in uno spazio che non sia mera proiezione. Ciò le rende di difficile rappresentatività e di ancora più complicata rappresentanza. Chiamiamo queste forme: lavoro irrapresentato, proprio per dare conto del loro essere irrisolto tra i vortici della rappresentanza, della non-rappresentanza e della irrapresentabilità.

Dallo spazio biologico transitiamo allo spazio virtuale che è, per definizione, ubiquo, istantaneo. Il controllo che finora si esercitava sui corpi e sulle passioni qui tenta di applicarsi alle menti e alle anime. Dalla centralità dei luoghi siamo sbalzati alla onnipervasività dei flussi.

Lo spazio dei flussi va continuamente sovrapponendosi allo spazio dei luoghi; nondimeno, quest'ultimo permane. L'intreccio tra spazio dei flussi (virtualità) e spazio dei luoghi (realtà) costituisce la scansione dell'essere sociale e della condizione umana in questo angolo di tempo. Possiamo, quindi, dire: l'opposizione virtuale/reale è mal posta; al contrario, v'è sempre un precipitato di virtualità nel reale ed uno di realtà nel virtuale. Oggi si è ed agisce nel mondo reale, con immagini e strumenti virtuali; si è ed agisce nel mondo virtuale, con immagini e strumenti reali.

Finiremmo prigionieri di un'illusione ottica, se considerassimo l'ubiquità e l'istantaneità del tempo virtuale un compatto tempo planetario, estensione illimitata dell'istante, inarticolata massività. Se è potuta esistere un'economia-mondo, giammai potrà esistere un tempo-mondo. All'opposto, ora più che mai, si danno i mondi dei tempi e i tempi del mondo. I princìpi di istantaneità, ubiquità e interconnettività costituiscono, appunto, la virtualità attraverso cui differenze spazio/temporali prima incolmabili vengono ora attraversate, senza che il loro tasso di differenzialità possa essere abrogato.

Non tutto nella scansione reale/virtuale trova (e può trovare) adeguate forme di rappresentatività/rappresentanza. Le forme irrappresentate aprono qui un varco permanente nella concatenazione dei tempi e degli spazi, perché territorio limine per eccellenza tra reale e virtuale. Anche per questo, la forma-lavoro è, in cospicua dose, già oggi costituita da lavoro irrapresentato.

L'irrapresentato è il luogo privilegiato delle differenze: il loro serbatoio vitale. Si trascina dietro tutte le forme della rappresentanza e della rappresentatività, costringendole ad una perenne rimessa in questione, aprendole alle nuove dimensioni dello spazio/tempo. In questo senso, l'irrapresentato è la nuova frontiera. È qui che si può giocare creativamente l'affrancamento dai vincoli del corpo, oggi reso possibile dai saperi virtuali.

Oltre che informazioni e comunicazioni, il bit può trasportare e riallocare poietica, estetica ed etica, fornendo contesti adeguati al potenziale immaginativo compresso dalla razionalità calcolistica. Ma tutto ciò non può essere il risultato macchinale di una utopia elettronica; al contrario, esige una cruda lotta sul piano della sovranità, del potere e della costituzione. Di nuovo, torna il conflitto. Quel conflitto che è stella polare del multiversum della sovranità e della comunità delle differenze. Quel conflitto che cerca di rendere giustizia, prima che sia troppo tardi, alla sterminata varietà del vivente umano e non-umano.

Occorre spostare il dibattito giuslavorista, politologico e sociologico verso l'area intricata di queste tematiche. E bisogna cercare di farlo con quella stessa passione e quello stesso rigore con cui Gaetano Vardaro, negli anni '80, condusse un serrato confronto con la "teoria sistemica" e i paradigmi della "società flessibile", della "complessità sociale" e della "democrazia neocorporativa". Con la speranza di avvicinare, perlomeno lontanamente, la grande rilevanza scientifica dei risultati raggiunti da Gaetano Vardaro.

 

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