CRITICA: TORQUATO TASSO

 L'AMINTA

 AUTORE: Antonello Ramat    TRATTO DA: Per la storia dello stile rinascimentale

 

Il Tasso non portava a perfezione un nuovo genere letterario, ma creava uno stil nuovo.
Nella favola il sogno di Arcadia si contrappone costantemente alla vita reale, con una serie di rapporti, scherzosi in apparenza, ma in realtà sofferti; e ne nasce una lieve ombra di malinconia, ritmo segreto di nostalgica contemplazione, non facile a isolarsi, ma circolante nello stile, come uno - ed essenziale - dei suoi sapori. L'Arcadia è l'innocenza; anche il dolore vi è candido, e il desiderio puro. Fra l'uomo e la natura vi è una semplice immediata salda concordia: il peccato lì non esiste, né il tormento interiore o la ribellione. Quando il dolore colpisce - come colpisce Aminta e Silvia - l'anima lo accoglie già artisticamente purificato; e il canto è il suo linguaggio naturale: il dolore porta con sé la sua melodica medicina. Il lieto fine della favola, non è solo obbligatoria risoluzione comica, ma necessaria conclusione; è la giustizia di quel mondo.
Così l'Arcadia del Tasso si configura come una perpetua e mitica stagione umana, non temporale ma spirituale: la giovinezza quale poi canterà il Leopardi. Ma mentre questi la contempla e la rievoca con disperata consapevolezza della sua perdita, il Tasso la vive ancora, resta nel sogno; e tuttavia nel sognare, appunto perché giunto al suo estremo di dolcezza, c'è una tensione che il poeta già intende come preludio al risveglio. Mentre egli è assorto nel dirsi quella dolcezza estrema, segretamente lo punge l'angoscia che tra poco tutto svanirà; e per questo non vuol perdere una stilla del soave liquore che va suggendo dal sogno. Canta in un fiducioso abbandono al presente; e intanto la voce trova suoni di nostalgia, come se già cantasse un passato. La lirica dell'Aminta trova la sua unità, e il suo fascino, in questa -ambigua melodia; psicologicamente ambigua, artisticamente senza dubbi; e nuova, moderna, audace. Il Tasso non troverà più risoluzione così felice ai suoi problemi espressivi.

Mentre con la maliziosa invenzione mitologica del Prologo e dell'Epilogo getta con disinvolta grazia un ponte fra l'invenzione teatrale e l'ambiente cortigiano, fra quel sogno e questa realtà, intanto racchiude e cela gli spiriti più seri ed intimi della favola in una cortina di scherzosa leggiadria. Ma non sì che qualcosa di quelli non traspaia, e nel discorso e nel ritmo. E già nel Prologo si annuncia un contrasto - appena accennato, e con aria di gioco signorile - fra la natura (il mondo d'Arcadia, ove gli uomini sono rimasti nella condizione innocente) e la società civile, fra la vita pastorale e quella cortigiana.

Amore si lagna di Venere:

 

....mi rispinge
pur fra le corti e tra corone e scettri,
e quivi vuol che impieghi ogni mia forza;
e solo al vulgo de' ministri miei,
miei minori fratelli, ella consente
l'albergar tra le selve ed oprar
Tarme ne' rozzi petti...


Ma egli area i boschi e le case delle genti minute, perché gode di eguagliare i suoi soggetti, pastori o eroi:

 

...Ovunque i' mi sia, io sono Amore,
ne' pastori non men che ne gli eroi,
e la disagguaglianza de' soggetti,
come a me piace, agguaglio.


L'Amore riporta alla comune condizione umana di puro fervore, ingenua passione, adesione senza riserve al richiamo innocente della natura.

Ma questo intenso desiderio del cuore e della fantasia, il Tasso lo avanza qui con cautela; la signorilità con cui ne sorride non è indizio che egli lo senta superficialmente, ma ch'egli provi timidezza a proporlo, in tutto il suo candore, a una società - ch'è pur la sua società, ch'egli sente sua e che ama: la corte - la quale non era disposta a cogliere in quel desiderio se non quanto vi trovasse di vago, edonistico, decorativo, e non certo l'impegno di uno spirito che vi esprimeva il preludio del suo dramma. La cautela del poeta - che non è prudenza pratica, beninteso, ma condizione umana, quindi passibile di suscitare linguaggio artistico - si esprime nell'ambigua melodia del recitativo, un parlar cantando molle e agile, la cui sorridente disinvolta discorsività - sapiente sprezzatura - cela il voluttuoso abbandono al sogno arcadico, la serietà del mito tassesco.

 

. . . . . . . . . . . Ella mi segue,
dar promettendo, a chi m'insegna a lei,
o dolci baci o cosa altra più cara:
quasi io di dare in cambio non sia buono,
a chi mi tace, o mi nasconde a lei,
o dolci baci o cosa altra più cara.


In simili versi cogli un ritmo che dice ben più di quanto non dicano le parole.
Ma la complessa vita dell'Aminta si palesa nelle due grandi scene del primo atto. E si tenga presente che le parole dei personaggi vibrano sospese nella sottilissima aura lirica della favola idillica, e che non è lecito appesantirle con la logica di riferimenti alle situazioni pratiche dei protagonisti. Non ha reso un servizio al Tasso chi ha creduto di lodarlo tentando di trovare una coerenza psicologica dei personaggi, e ne ha giustificato le parole in funzione di un loro « carattere ». È vano cercare nell'Aminta questa realtà cronachistica: tutto vi è sogno, ove anche l'assurdo diventa normale, e il quotidiano si trasfigura. Né il Tasso sente l'ispirazione del movimento drammatico: sul palcoscenico non avviene nessuna azione, la vicenda viene raccontata, e i personaggi più che narrare cantano un commento lirico ai fatti.
L'Aminta è infatti un'opera lirica, opera musicale; e il miglior suo musico, fra quanti la rivestirono in parte o interamente di note, è il Tasso medesimo; ché le sue parole son già musica. Maggior rilievo ancora a questo senso teatrale lirico dà il ritmo di armoniosissima danza con cui si svolge la vicenda; i personaggi in scena, come parlano cantando, così si muovono secondo leggi ritmiche che risolvono in suprema grazia ogni atteggiamento delle membra; e sono atti che non mutano rapidamente, ma si fermano paghi della loro molle leggiadria, e mollemente si trasformano in altri. Infine, come pannelli in cui sia dichiarata per figure simboliche l'essenza di quel mondo di Arcadia, stanno le invenzioni più fresche e più estenuate della favola: dal bacio d'Aminta al pianto di Silvia innamorata...

È il mondo delle forme pure che Poliziano riscopriva, lucido, nitido, come fosse allora allora uscito dalle mani di Dio: ma vi si mescola anche il senso malinconico di rifugio con cui lo vagheggiava il Sannazzaro. Ad ogni modo, bello, armonioso, eternamente giovane; e i mortali, se pur visitati dal dolore, portano nel cuore, o la riconquistano, la profonda pace di chi è concorde con la natura. La razionalità naturalistica del Rinascimento, per cui l'uomo riscopre e attua la sua simiglianza con Dio, nella fantasia del Tasso si risolve nel mito di questa felicità arcadica, fondata sulla concordia con la natura, e che solleva gli uomini in una atmosfera favolosa, pura, ove respirano anche gli del: in Arcadia è costante e naturale la presenza divina.
Ma il Tasso sente - per intuizione dolorosa più che per consapevolezza critica - dentro di sé i problemi che minano la saldezza delle fiducie rinascimentali; e se la sua fantasia riflette tali fiducie, riflette anche i dubbi e gli sgomenti suscitati da quei problemi; così che, mentre vagheggia la limpida Arcadia rinascimentale, luogo di candida grazia immortale, ecco quella limpidità si appanna ad un fiato di rimpianto, poi ch'egli sa che è destinata a sparire, che il sogno deve cedere alla veglia. Così nel canto d'una condizione presente dell'anima risuona una nota di nostalgia, come se quella condizione fosse contemplata con gli occhi malinconici di chi si volge al passato.

Il Tasso, nel celebrare la candida Arcadia, canta l'addio a quel candore: egli presente che quanto oggi - un « oggi » non temporale ma poetico - gli appare puro, domani gli apparirà peccaminoso e sarà fonte di sofferenza spirituale; sa che dovrà negarsi ai suoi richiami e rinnegare le sue dolcezze. E appunto a difesa contro tale presentimento egli si rinchiude in quel mondo, che ancora per un attimo serba candore e innocenza, tentando di ritrovarvi la pace idillica, l'armonia naturale prima della coscienza del male; tentando di riassaporare il sapore schietto del piacere, pura espressione di vita, goduto senza che nemmeno un'increspatura turbi la limpidezza tranquilla dell'anima. Ma a quel piacere egli guarda (necessariamente, perché il cuore è in ansia per la imminente dissoluzione del sogno) con un malinconico idoleggiamento che ne adombra l'innocenza: come accade alle trepidazioni adolescenti, purissime nell'atto, e che nella memoria nostalgica di chi le ricorda s'offuscano d'una esperienza che ne ha visto la parabola umana. La serenità cristallina di quel mattino del mondo umano ch'è l'Arcadia, si stempra, si illanguidisce; in quel piacere fresco ed acerbo s'annida la voluttà. E come nella castità primitiva s'accende il molle fuoco voluttuoso, stimolato dal senso del peccato, così la voluttà tenta di farsi candida entro la luce d'Arcadia.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis