CRITICA: TORQUATO TASSO

 STORICITA' DELLA POESIA E DELLA TEORIA TASSESCHE

 AUTORE: Lanfranco Caretti    TRATTO DA: Introduzione a Torquato Tasso

 

Se c'è una poesia singolarmente rappresentativa di un'epoca storia o almeno di alcuni suoi aspetti fondamentali, unanimemente individuati, questa a me sembra essere la poesia tassiana. L'importante è non dimenticare che i modi particolari con cui l'arte si lega alla storia, e illuminandola nel profondo la interpreta e la rispecchia, sono spesso allusivi e segreti. Nel caso del Tasso, si dovrà infatti rinunciare al reperimento di un rapporto dichiarato ed esplicito, verbalmente motivato, così come non converrà indulgere alle consuete inchieste moralistiche fondate sulle contraddizioni psicologiche e sugli sviluppi sentimentali. Dislocando infatti con troppa disinvoltura certi rigidi « ritratti » del poeta, costruiti inseguendo le apparenze più vistose, sul piano del giudizio critico, si è condotti fatalmente a falsarne la personalità autentica, che non sopporta semplificazioni di comodo, e a ridurne l'opera ad alcune isole poetiche, più o meno estese, le quali sembrano poi affiorare, per assenza di prospettiva storica, come terre vergini scoperte con sorpresa dopo una navigazione cieca e fortunosa.
La verità è che una figura così complessa come quella del Tasso, a parte certi eccessi esasperati che richiedono, questi sì, giustificazioni particolari e private, non può essere adeguatamente decifrata con gli strumenti della psicologia autonoma, ma va reinserita nella storia dell'epoca di cui si trovò ad assumere i tratti dominanti, sì che le sue stesse contraddizioni non vengano più attribuite a bizzarrie umorali o a debolezze di carattere, ma siano considerate come il riflesso di una condizione spirituale più vasta e generale, come la testimonianza, sia pure soggettivamente ipersensibilizzata, di quella intensa crisi che si aperse, giusto nel cinquantennio che durò la non lunga vita del Tasso, nelle istituzioni politiche e nella vita intellettuale italiana.
Se è parso necessario liberarsi, ad un certo momento, del modulo convenzionale e del mediocre mito secondo cui si era generalmente interpretato il mondo dell'Ariosto come un ideale perenne di sedentaria placidità e di sorniona pigrizia e se ne è, invece, approfondito, sotto le svagate apparenze, il robusto senso della misura e dell'equilibrio, la saggezza realistica, cioè proprio quelle precise virtù morali che erano in accordo con le disposizioni più intime della coscienza rinascimentale, altrettanto salutare sembra l'abbandono definitivo di quell'astratta simbologia di cui i romantici incoronarono il Tasso, presentandolo come una sorta di solitario poeta maudit, perseguitato e incompreso dalla società, e parimenti di quella impietosa requisitoria a cui lo sottoposero i positivisti quando credettero di averne identificato il male nascosto mettendone in luce i difetti di natura e le deformazioni patologiche. Si eviterà così di accedere a definizioni del Tasso vittima dei propri tempi oppure vittima di se stesso, rispettivamente derivate da ingenue applicazioni del determinismo sociologico o di quello naturalistico trasposti rigidamente sulla delicata area psicologica e quindi su quella artistica. Perché in Tasso in effetti ci appare piuttosto, una volta resecate le punte estreme e particolarmente eccentriche della sua personalità, uno dei più partecipanti e suggestivi protagonisti dell'inquieta epoca sua, con la quale ebbe quegli stessi rapporti di dare e di avere, cioè quelle costanti e ineliminabili trasfusioni, che in certi artisti, appartenenti ad età più serene e stabili, sortiscono effetti di felice consonanza, mentre in altri, destinati a vivere in tempi labili e problematici, generano una intricata trama di incontri e scontri, un difficile accordo costantemente insidiato e tuttavia solo apparentemente eluso.
Alla stabilità ariostesca, molto presto circoscritta in una cerchia di operazioni avvedutamente calcolate e tenute ben salde fino alla fine entro l'orizzonte familiare delle mura cittadine, si oppone dall'altra parte l'instabilità tassiana, avventurosa e improvvida, caratterizzata da impennate repentine, inattese evasioni e mortificati ritorni. Ma questi due così contrastanti modi di esistenza non si spiegano né col configurare due diversi caratteri o temperamenti, due casuali psicologie, né estraendo da siffatte biografie due emblematici e antistorici miti universali (mito dell'artista razionale o classico e mito dell'artista sentimentale o romantico; oppure, che i` ancor peggio, mito dell'artista sano e mito dell'artista malato, reversibile tuttavia in mito dell'artista mediocre e mito dell'artista generosamente inquieto. Meglio, a mio avviso, rifarsi alle precise condizioni storiche in cui l'Ariosto e il Tasso si trovarono a vivere e identificare il diverso sostrato culturale e spirituale su cui vennero edificando la propria opera poetica.
Tra la stabilità ariostesca e l'instabilità tassiana corre, infatti, la storia intensa e spesso convulsa del tramonto rinascimentale, quando le sorti politiche italiane apparvero ormai avvolte da una triste ombra d'irreparabile sconfitta e si venne facendo sempre più avvertibile il declinare dello slancio attivo e fiducioso che aveva animato la civiltà italiana fino a quel momento, mentre uno stato d'animo inquieto e sbigottito andò subentrando alla sicurezza energica e vigorosa che per un secolo aveva alimentato, negli uomini di stato e negli scrittori, generose speranze e magnanimi disegni. Se si pensa, del resto, al colore fosco, quasi un presentimento di sventura, che già s'insinua nello stesso Ariosto dei Cinque canti a farci avvertiti che la splendida stagione della nostra Rinascenza, dopo aver toccato il colmo, ha iniziato la sua parabola discendente, ci avverrà di collocare giusto alle spalle del Tasso l'inizio di quella profonda crisi che travaglierà poi, sulle rovine delle defunta libertà italiana e sullo sfondo delle ultime favole rinascimentali, le generazioni successive a quella dell'Ariosto. E tuttavia la storia della poesia tassiana non dovrà per questo ridursi alla mesta elegia dell'autunno del Rinascimento né alla traduzione passiva e rassegnata di un sentimento disincantato del vivere. Il che si trova certamente nel Tasso ma non come voce univoca della sua anima, dai primi versi animosi del Gierusalemme alle estreme parole luttuose, bensì come una delusa accoratezza, un fatale e, alla fine, stremato "taedium vitae", che visibilmente affiora solo nella tarda giovinezza, dopo l'adolescente baldanza, e si fa sensibile nella maturità per poi dominare interamente la coscienza del poeta nell'ultimo periodo della sua esistenza.

Questo significa che la storia della poesia tassiana rispecchia piuttosto l'intero arco della crisi e ne riflette tutto il cammino variamente accidentato: dal momento vivo e positivo, che nei suoi aspetti drammatici e intensi era già stato suggestivamente espresso dall'opera di Michelangelo, al momento della chiusura più rigida della restaurazione cattolica. Ciò che conta perciò è tenere d'occhio non l'atto ultimo della resa, quando la voce del Tasso si confonde e veramente si annulla nei colori grigi del tempo, ma il lungo e generoso periodo della resistenza attiva al disgregarsi d'un mondo che era pur sembrato tanto saldo e sicuro di sé. In questo periodo, che giunge almeno sino al compimento della Liberata, il Tasso offre l'esempio d'una singolare autonomia intellettuale, di un impegno umano ed artistico commovente, di una ostinazione orgogliosa, di una applicazione intrepida, di una perspicua lucidità critica, di una buona fede schietta e fervida. È il periodo in cui la poesia tassiana riflette il caldo riverbero dell'eredità rinascimentale, ancora operante nelle coscienze dei suoi contemporanei, e viene arditamente innestandovi lo spirito nuovo e inquieto d'una età percossa dall'urto violento della Riforma e intimamente desiderosa d'una sincera "renovatio" morale.
In questo generoso tentativo di conciliazione del classicismo con la moderna ansietà religiosa, il Tasso non muoveva però da una posizione già chiara e sicura, come era accaduto all'Ariosto, ma stando egli stesso nel mezzo della corrente perigliosa partecipando così, di volta in volta, a tutti gli slanci e alle speranze, ma anche alle incertezze e confusioni sentimentali che caratterizzarono quell'epoca di rottura, di autentico bifrontismo spirituale. E tuttavia nulla lasciò d'intentato prima di cedere alla deriva (non acquietandosi che molto tardi nel puro esercizio formale o in quello del conformismo religioso) e fece della retorica un'arma della ragione con cui difendersi dall'insidia sempre imminente dell'arbitrarietà degli affetti, sforzandosi nello stesso tempo di approfondire e di chiarire seriamente il significato del vivere, di fronteggiare quel misterioso e conturbante sentimento della precarietà e finitezza umane che ormai corrodeva internamente la mirabile coerenza e la perfetta armonia del naturalismo rinascimentale...

Il grande decennio 1564-1574 e quindi il triennio 1575-1577 costituiscono il periodo della ripresa della Liberata e del suo compimento, della sua chiarificazione e difesa critica, oltre che delle più profonde e decisive esperienze umane del Tasso. Sono gli anni in cui la sua coscienza, attivamente inquieta, e la sua opera poetica riflettono l'assillante antinomia dell'età controriformistica, ponendosi di fronte ad essa col generoso intento di conciliarne i motivi opposti e di esprimere nell'arte la raggiunta concordia. Impresa difficile, a cui il Tasso si dedicò con slancio e fervore e da cui doveva uscire alla fine stremato.
Se l'Ariosto, infatti, muoveva verso il poema da un'intuizione nitida e sicura del mondo e si fondava sopra passioni interamente padroneggiate, abbracciando con occhio fermo e limpido tutta la vita universale facendo coincidere perfettamente, nel Furioso, vita e letteratura senza residui autobiografici, il Tasso invece cercava di risalire alla luce da una condizione sentimentale assai turbata e di ristabilire l'equilibrio ormai spezzato tra soggettività arbitraria e aspirazioni comuni, liberando se stesso e i suoi contemporanei dalle insidie opposte ma egualmente funeste dell'edonismo estetico e del regolismo esteriore. Questo spiega perché non conserviamo neppure un lacerto ariostesco di poetica preventiva, mentre il lungo lavoro della Liberata è vigilato all'inizio dai Discorsi dell'arte poetica e tutelato alla fine dalle Lettere poetiche a Scipione Gonzaga. Così il Tasso manifestava, oltre alla propria, una esigenza fondamentale della sua epoca, intensamente votata all'esercizio critico e alla teorizzazione estetica, a differenza della precedente che aveva veduto gli artisti risolvere ogni loro problema nello stesso momento creativo con una naturalezza e felicità mai più ricuperate.
In pochi poeti, pertanto, la meditazione sull'arte, e particolarmente sul poema eroico, ebbe un carattere così serio e un'importanza così decisiva come per il Tasso. I Discorsi dell'arte poetica, infatti, non costituiscono una poetica astratta, mero riflesso di una speculazione intellettuale, ma la consapevole e necessaria presa di coscienza delle questioni inelusibili che la Liberata, appena avviata, imponeva al poeta. In questi Discorsi, dove l'aristotelismo è assunto con eccezionale discrezione e personalmente utilizzato in rapporto all'opera «in fieri», il Tasso ha impostato con chiarezza i termini interni e stilistici di quel rapporto dialettico tra affetti e ragione, tra moralità e retorica, tra ispirazione religiosa e classicismo, che gli sembrava realizzabile solo col ritorno ai modelli della perfezione antica, illuminata di spiritualità cristiana. La dissoluzione del «milieu» sociale e culturale che l'umanesimo aveva elaborato, il crescente disorientamento e l'insoddisfazione sempre più viva per il sistema antropomorfico ereditato dal Rinascimento, avevano restituito l'uomo italiano ad una posizione di amara solitudine a cui invano cercava di sottrarsi attraverso il costume di una cortigianeria decaduta, pronta a confondere la torbida licenza e l'indulgenza lasciva con la libertà e con l'amore della vita che l'opera ariostesca (fra le tante, ma con spicco proprio e sicurezza inimitabile) aveva espresso, oppure consumandosi nella macerazione di una confusa ansia metafisica. Ciò che il Tasso, nei Discorsi, cercò dunque di chiarire, a se stesso prima che agli altri, fu proprio il modo di restaurare, per via poetica, l'unità umana in una sintesi nuova, attingendo a quella sublimità eroica, nell'altezza dei sentimenti e nella magnificenza della forma, in cui bellezza e virtù si sarebbero dovute armonicamente associare. Si trattava soprattutto di restituire l'arte, minacciata dall'evasività frammentistica o dal finalismo didattico, alla c materia » storica attraverso il « verisimile », cioè conciliando la verità con la libera invenzione, e di frenare la dispersività e l'arbitrio delle passioni autonome entro un organismo unitario, conciliando la « unità » con la « varietà », anzi facendo nascere la prima dalla seconda per mezzo di raccordi coerenti e per niente causali tra vicenda e vicenda (« così parimente giudico che da eccellente poeta... un poema formar si possa; nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d'eserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendi, qui prodigi; là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità; là avvenimenti d'amore, or felici or infelici, or lieti or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte che l'una l'altra riguardi, l'una a l'altra corrisponda, l'una da l'altra o necessariamente o verisimilmente dependa; sì che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini »). Così il Tasso poneva criticamente il rapporto tra struttura e poesia nell'unico modo che gli era consentito nell'obbiettiva situazione storica in cui si trovava, e ricorreva al classicismo aristotelico, a questa lucida terapia razionale, non come ad un repertorio di esterne regole pedagogiche ma come ai soli principi capaci di sorreggere la sua stessa debolezza, la sua interna e implacata « concordia discorde » nella costruzione d'un poema d'ampio respiro, intenso e raccolto tuttavia, in cui si rispecchiano la molteplicità degli affetti umani (passione amorosa e disdegno, anelito religioso e oblio sensuale, sincerità e finzione, generosità e invidia, intrepidezza e paura, ingenuità e calcolo), redenti però in una luce magnanima ed esemplare di nobile grandezza e di alta « pietas » religiosa, sullo sfondo ora corrusco ed ora placato di imprese veramente memorande.

Solo chi non vede l'esigenza profonda d'ordine e di chiarezza che è implicita in questa trasposizione tassiana dell'aristotelismo sul terreno della problematica contemporanea, può considerare la struttura della Liberata come un macchinoso congegno, una cornice puramente retorica; e gli sfuggirà così l'assidua tensione tra l'energica spinta unitaria e l'opposto impeto delle forze centrifughe, che costituisce in realtà l'irrequieta e indocile vita interna del poema. Mancando infatti al Tasso tanto la fede positiva di Dante quanto la libertà agile ed estrosa dell'Ariosto, non era possibile che la Liberata riuscisse ad emulare la salda struttura verticale della Commedia (teocentrica, e quindi provvidenziale), né quella orizzontale e aperta del Furioso. L'unità di queste opere, dantesca e ariostesca, non è altro che il riflesso dell'unità morale ed estetica immanente nei due scrittori, mentre per il Tasso l'unità è un bene da ricuperare faticosamente nella propria coscienza prima che nell'arte, un premio costantemente conteso. Era fatale che ne uscisse perciò una struttura dei tutto nuova, fondata non sopra un'unica e fortissima sollecitazione, ma sopra un ritmo alterno di spinte e controspinte che ora impongono alla poesia tassiana sviluppi ascendenti, a spirale (con quelle vertiginose impennate verso zone di assoluto rasserenamento, di ansia purificata), ed ora sviluppi diversivi, più distesamente autonomi, ma mai del tutto eccentrici rispetto all'azione centrale. Il risultato è una originale compenetrazione di piani diversi, in cui i momenti eroici (storici e morali) e quelli lirici (sentimentali e autobiografici) strettamente si intrecciano e reciprocamente si trasfondono attraverso suggestive increspature e secondo impulsi subitanei ed eccitati, in un continuo e spesso repentino mutare di luci e di ombre, di opposte prospettive, entro una dimensione narrativa a costante doppio registro, rispetto al quale niente è più diverso della fluente e luminosa continuità del Furioso, della sua levigata e irresistibile linearità.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis