Fonte: Le Monde Dipomatique 5/2000

 

La nuova vulgata planetaria



di Pierre Bourdieu e Loic Wacquant *

In tutti i paesi avanzati, imprenditori e alti funzionari internazionali, intellettuali mediatici e giornalisti d'alto bordo si sono messi di concerto a parlare una strana neolingua, il cui vocabolario, apparentemente sorto dal nulla, è ormai su tutte le bocche: "globalizzazione", "flessibilità", "governance", "employability", "esclusione", "underclass", "nuova economia", "tolleranza zero", "comunitarismo", "multiculturalismo", e i loro cugini "postmoderni": etnicità, minoranza, identità, frammentazione ecc. La diffusione di questa nuova vulgata planetaria - dalla quale sono assenti, guarda caso, termini quali capitalismo, classe, sfruttamento, dominio, disuguaglianza, tutti perentoriamente revocati per presunzione di obsolescenza o non pertinenza, è il prodotto di un imperialismo prettamente simbolico. I suoi effetti sono tanto più potenti e perniciosi in quanto essa non è adottata solo da chi vorrebbe rifare il mondo, col pretesto della modernizzazione, facendo tabula rasa delle conquiste sociali ed economiche di cento anni di lotte, oggi presentate come arcaismi e ostacoli al nuovo ordine nascente. A questi fautori della rivoluzione neoliberale si affiancano esponenti della produzione culturale (ricercatori, scrittori, artisti) e militanti della sinistra, che per lo più si ritengono tuttora progressisti.
Come il dominio di genere e quello di etnia, l'imperialismo culturale è una violenza simbolica, che si fonda su un rapporto di comunicazione coercitivo per estorcere la sottomissione; e si distingue, nel caso specifico, per il fatto di universalizzare i particolarismi legati a una singola esperienza storica, facendo sì che essi non vengano più percepiti come tali, ma riconosciuti come universali
(1).
Analogamente a quanto avveniva nel XIX secolo, quando molte questioni definite filosofiche e dibattute in tutta Europa (come ad esempio il tema spengleriano della "decadenza") in realtà avevano origine nelle particolarità e nei conflitti storici del mondo degli universitari tedeschi
(2), oggi molte questioni, sorte direttamente dal confronto intellettuale legato alle particolarità e ai particolarismi della società e delle università americane, si sono imposte all'intero pianeta, in forma apparentemente destoricizzata. Questi luoghi comuni, nel senso aristotelico di nozioni o di tesi usate per argomentare, ma sulle quali non si argomenta, devono parte della loro forza di persuasione al ritrovato prestigio del luogo dal quale emanano, così come alla loro incessante circolazione da Berlino a Buenos Aires, da Londra a Lisbona. E in gran parte la devono anche al fatto di essere presenti ovunque, e ovunque potentemente rilanciati dalle sedicenti istanze neutrali del pensiero neutro: i grandi organismi internazionali quali la Banca mondiale, la Commissione europea, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), oltre ai "think tank" conservatori (Manhattan Institute a New York, Adam Smith Institute a Londra, Fondazione Saint Simon a Parigi, Deutsche Bank-Stiftung a Francoforte), alle fondazioni filantropiche, alle scuole del potere (Science-Po in Francia, London School of Economics in Inghilterra, Harvard Kennedy School of Government in America ecc.), e infine ai grandi media, instancabili dispensatori di quella lingua franca tuttofare, che sembra fatta apposta per dare agli editorialisti frettolosi e agli zelanti specialisti dell'import-export culturale l'illusione dell'ultramodernismo. Oltre all'effetto automatico della circolazione internazionale delle idee, la cui stessa logica tende ad occultare le condizioni e i significati originari (3), il gioco delle definizioni preventive e delle deduzioni scolastiche sostituisce l'apparenza della necessità logica alla contingenza delle necessità sociologiche negate, e tende ad occultare le radici storiche di tutto un insieme di questioni e di nozioni - l'"efficienza" del mercato (libero), il bisogno di riconoscimento delle "identità" (culturali), o ancora la riaffermazione-celebrazione della "responsabilità" (individuale) - che si decreteranno filosofiche, sociologiche, economiche o politiche, a seconda del luogo e del momento della ricezione.
Così planetarizzati o mondializzati, nel senso strettamente geografico del termine, e al tempo stesso departicolarizzati, questi luoghi comuni - trasformati dal martellamento mediatico in senso comune universale - finiscono per far dimenticare che il più delle volte si limitano ad esprimere, in forma monca e irriconoscibile (spesso anche per chi li diffonde), le realtà complesse e contestate di una particolare società storica, tacitamente costituita a modello e misura di ogni cosa: la società americana dell'era postfordista e postkeynesiana.
In questa unica superpotenza, simbolica Mecca della Terra, caratterizzata dallo smantellamento deliberato dello stato sociale, nonché dalla correlativa ipertrofia dello stato penale, il movimento sindacale è schiacciato e vige la dittatura di una concezione dell'impresa fondata sul solo "valore azionario", con le relative conseguenze socio-logiche: la generalizzazione del lavoro dipendente precario e l'insicurezza sociale, eretta a motore privilegiato dell'attività economica.
Esaminiamo, ad esempio, il vago e inconsistente dibattito sul "multiculturalismo", espressione importata in Europa per designare il pluralismo culturale nella sfera civica. Negli Stati uniti questo termine sta invece ad indicare due realtà (nell'atto stesso in cui tenta di mascherarle): la persistente esclusione dei Neri, e la crisi della mitologia nazionale del "sogno americano", dell'"opportunità per tutti", correlativa alla bancarotta del sistema dell'istruzione pubblica, nel momento in cui la competizione per il capitale culturale si intensifica e le disuguaglianze di classe crescono a dismisura.
L'aggettivo "multiculturale" stende un velo su questa crisi, confinandola artificialmente nel microcosmo universitario ed esprimendola in un registro ostentatamente "etnico" - mentre il vero punto in questione non è il riconoscimento delle culture emarginate da parte dei canoni accademici, bensì l'accesso agli strumenti di (ri)produzione dei ceti medi e superiori, quali l'università, in un contesto di attivo e massiccio disimpegno dello stato.
Il "multiculturalismo" americano non è né un concetto, né una teoria, e neppure un movimento sociale o politico - benché pretenda di essere tutto questo contemporaneamente. È un discorso di facciata il cui status intellettuale è il risultato di un gigantesco effetto di allodossia nazionale e internazionale
(4), fatto per ingannare chi ci sta dentro come chi ne è fuori. Ed è inoltre un discorso americano, ancorché pensato e presentato come universale, in quanto esprime le contraddizioni specifiche della situazione degli universitari, i quali, privati come sono di ogni possibilità di accesso alla sfera pubblica e assoggettati a una forte differenziazione nel loro ambiente professionale, non hanno dove investire la loro libido politica se non nelle dispute da campus, travestite da epopee concettuali. In altri termini, il "multiculturalismo" si porta dietro, dovunque venga esportato, quei tre vizi del pensiero nazionale americano che sono: a) il "gruppismo", che reifica le divisioni sociali canonizzate dalla burocrazia statale in principio di conoscenza e di rivendicazione politica; b) il populismo, che sostituisce l'analisi delle strutture e dei meccanismi di dominio con la celebrazione della cultura dei dominati e del loro "punto di vista", elevato al rango di proto-teoria in atto; c) il moralismo, che ostacola l'applicazione di un sano materialismo razionale nell'analisi del mondo sociale ed economico, e condanna qui a un dibattito infinito e privo di qualsiasi effetto sul necessario "riconoscimento delle identità", quando nella triste realtà quotidiana il problema non si pone affatto a questo livello (5): mentre i filosofi si riempiono la bocca dottamente sul "riconoscimento culturale", decine di migliaia di bambini dei ceti e delle etnie dominati (25.000 quest'anno nella sola Los Angeles) sono cacciati dalle scuole elementari per mancanza di posti, e tra i giovani provenienti da famiglie con meno di 15.000 dollari di reddito annuo, soltanto uno su dieci ha accesso ai campus universitari, contro il 94% di quelli nati in famiglie con un reddito superiore a 100.00 dollari l'anno.
Si potrebbe procedere a una dimostrazione analoga a proposito della nozione, fortemente polisemica, di "globalizzazione", che ha per effetto - se non per funzione - di rivestire di ecumenismo culturale o di fatalismo economicista gli effetti dell'imperialismo americano, e di far apparire un rapporto di forza transnazionale come una necessità culturale. Al termine di un rivolgimento simbolico, fondato sulla naturalizzazione degli schemi del pensiero neoliberale, il cui dominio si è imposto da vent'anni grazie all'opera dei think-tank conservatori e dei loro alleati in campo politico e giornalistico
(6), la riconfigurazione dei rapporti sociali e delle pratiche culturali in conformità con il modello nordamericano (imposto alle società avanzate attraverso la pauperizzazione dello stato, la mercificazione dei beni pubblici e la generalizzazione dell'insicurezza salariale) è accettata con rassegnazione, come sbocco obbligato delle evoluzioni nazionali, quando non viene addirittura celebrata con entusiasmo gregario. Eppure, come suggerisce l'analisi empirica dell'evoluzione delle economie avanzate nel lungo periodo, la "globalizzazione" non rappresenta una nuova fase del capitalismo. È piuttosto una "retorica", cui i governi ricorrono per giustificare la loro volontaria sottomissione ai mercati finanziari. La deindustrializzazione, le crescenti disuguaglianze e i tagli in materia di politiche sociali non sono affatto, come si sente ripetere incessantemente, la conseguenza fatale della crescita degli scambi esteri, ma il risultato di decisioni di politica interna che riflettono il rovesciamento dei rapporti di classe in favore dei detentori del capitale (7).
Imponendo al resto del mondo categorie di percezione omologhe delle sue strutture sociali, l'America riplasma il mondo a sua immagine: la colonizzazione mentale che si opera attraverso la diffusione di questi concetti simil-veri non può che condurre a una sorta di "Washington consensus" generalizzato e persino spontaneo, come lo si può osservare oggi in materia di economia, di filantropia o di scuole manageriali (leggere le pagine 6-7). In effetti, questo discorso doppio che, fondato sulle credenze, mima la scienza sovrapponendo al fantasma sociale del dominante l'apparenza della ragione (segnatamente economica e politologica), si avvale del potere di determinare le realtà che pretende di descrivere, secondo il principio della profezia autorealizzata.
Presente alle menti dei decisori politici o economici così come a quelle del loro pubblico, serve da strumento di costruzione delle politiche pubbliche e private, oltre che da strumento per la loro valutazione. Come tutte le mitologie dell'era scientifica, la nuova vulgata planetaria si fonda su una serie di opposizioni e di equivalenze che si sostengono e si rispondono a vicenda per descrivere le trasformazioni contemporanee delle società avanzate: disimpegno economico dello stato e rafforzamento delle sue componenti poliziesche e penali, deregulation dei flussi finanziari e del mercato del lavoro, riduzione della tutela sociale e celebrazione moralizzante della "responsabilità individuale": MERCATO STATO libertà coercizione aperto chiuso flessibile rigido dinamico, in movimento immobile, statico futuro, novità passato, superato crescita immobilismo, arcaismo individuo, individualismo gruppo, collettivismo diversità, autenticità uniformità, artificialità democratico autocratico ("totalitario").
L'imperialismo della ragione neoliberale trova il suo compimento intellettuale in due nuove figure esemplari della produzione culturale: innanzitutto l'esperto, che prepara dietro le quinte ministeriali o padronali, o nel segreto dei think tanks, documenti di forte impronta tecnica, in un linguaggio il più possibile economico e matematico; e il consigliere del principe in materia di comunicazione, transfuga del mondo universitario, passato al servizio del ceto dominante, che ha la missione di tradurre in forma accademica i progetti politici della nuova nobiltà di stato o d'impresa, il cui modello planetario è incontestabilmente il sociologo britannico Anthony Giddens, docente all'università di Cambridge, recentemente nominato rettore della London School of Economics e padre della "teoria della strutturazione", sintesi scolastica di diverse tradizioni sociologiche e filosofiche.
Si può vedere l'incarnazione per eccellenza dell'astuzia o della ragione imperialistica nel fatto che è stata la Gran Bretagna - situata, per ragioni storiche, culturali e linguistiche, in una posizione intermedia, neutra (nel senso etimologico), tra gli Stati uniti e l'Europa continentale - a fornire al mondo quel cavallo di Troia a due teste - una politica e l'altra intellettuale - nella persona duale di Tony Blair e di Anthony Giddens, "teorico" autoproclamato della "terza via". Il quale, secondo le sue proprie parole che vanno citate alla lettera, "adotta un atteggiamento positivo nei riguardi della globalizzazione"; "tenta [sic] di reagire alle nuove forme di disuguaglianza", avvertendo però immediatamente che "i poveri di oggi sono diversi da com'erano un tempo (...) così come i ricchi non sono più quelli di una volta"; "accetta l'idea che i sistemi di tutela sociale esistenti e la struttura complessiva dello stato siano fonte di problemi, e non soltanto strumenti per risolverli"; "sottolinea il fatto che le politiche economiche e sociali sono collegate", per meglio affermare che "la spesa sociale va valutata in base alle sue conseguenze per l'economia nel suo complesso"; e infine si "preoccupa dei meccanismi di esclusione" che scopre "ai gradi inferiori della società, ma anche a quelli superiori [sic]", convinto che "ridefinire la disuguaglianza rispetto all'esclusione a questi due livelli" sia "conforme a una concezione dinamica della disuguaglianza
(8)." I padroni dell'economia possono dormire sonni tranquilli: hanno trovato il loro Pangloss.



note:


(1) Precisiamo subito che gli Stati uniti non hanno il monopolio della pretesa di universalità. Molti altri paesi, tra cui la Francia, la Gran Bretagna, la Germania, la Spagna, il Giappone e la Russia hanno esercitato, o si sforzano ancora di esercitare, nella rispettiva sfera di influenza, forme di imperialismo culturale comparabili da tutti i punti di vista. Ma con una differenza: per la prima volta nella storia, un solo paese si trova in una posizione tale da imporre il proprio punto di vista al mondo intero.

(2) Cfr. Fritz Ringer, The Decline of the Mandarins, Cambridge University Press, Cambridge, 1969.

(3) Pierre Bourdieu, "Les conditions sociales de la circulation internationale des idées", Romanistische Zeitschrift für Literaturgeschichte, 14-1/2, Heidelberg, 1990, pp. 1-10.

(4) Allodossia: il prendere una cosa per un'altra.

(5) La diversità delle culture non data dal nostro secolo - come del resto la mondializzazione degli scambi materiali e simbolici - ma è coestensiva della storia umana, come già ebbero a segnalare Emil Durkheim e Marcel Mauss nelle loro "Note sur la notion de civilisation" (Année Sociologique, n. 12, 1913, pp. 46- 50, vol. III, Editions de Minuit, Parigi, 1968).

(6) Leggere Keith Dixon, Les Evangélistes du marché, Raisons d'agir Editions, Parigi, 1998.

(7) Sulla "globalizzazione" come "progetto americano" volto a imporre la concezione del "valore azionario" dell'impresa, cfr. Neil Fligstein, "Rhétorique et réalités de la "mondialisation"", Actes de la recherche en sciences sociales, n. 119, settembre 1997, p. 36-47.

(8) Queste citazioni sono tratte dal catalogo di definizioni scolastiche delle teorie e vedute politiche di Anthony Giddens, proposte nella rubrica "FAQs (Frequently Asked Questions)" del suo sito Internet: www.lse.ac.uk/Giddens.
(Traduzione di P.M.)