Intervista a Fausto Bertinotti: «Abbiamo perso, ma 11 milioni di Sì restano»

Ma lo rifaresti? Bertinotti risponde citando la poesia di Costantino Kavafkis “in onore di coloro che hanno difeso le loro Termopili ben sapendo che i Medi sarebbero comunque passati”. «Se non avessimo fatto il referendum avremmo lasciato libero il campo al rullo compressore di Berlusconi e non si sarebbero accesi i riflettori sull’invisibilità del lavoro dipendente. Questo è un risultato che resta».
Siamo al termine di una fitta mattinata di chiacchiere e riflessioni sull’andamento del voto. Incontriamo più volte il segretario di Rifondazione: prima è lui a venire a "Liberazione" per un ringraziamento alla redazione, poi c’è la conferenza stampa, infine partecipiamo a un’intervista collettiva con altri giornalisti. Il giudizio è allo stesso tempo netto e articolato: «Abbiamo perso, ma nel paese resta un’ingiustizia. Questo dato non potrà non pesare sul comportamento delle opposizioni e sul rapporto tra centrosinistra, Rifondazione e movimenti. Ma anche sul rapporto tra politica e società che resta il nodo centrale».

La sconfitta
L’ammissione della sconfitta è immediata ma senza catastrofismi: «Mi interessa evitare tentativi di depistaggio. Abbiamo perso per una ragione di sostanza che quindi va indagata. Avessimo raggiunto il 30-35% avrei detto che è stata colpa del centrosinistra, dell’oscuramento mediatico. Ma qui c’è qualcosa di più: non siamo riusciti a trasformare una battaglia giusta in un senso comune diffuso, in un’opinione pubblica. In altri termini non siamo riusciti a esercitare “egemonia” a fare quello che è riuscito al movimento contro la guerra che ha calamitato il consenso di una maggioranza di cittadini, divenendo così un fatto di massa».
In realtà l’insistenza sulla sconfitta, oltre a rappresentare un fattore di “eleganza politica”, ha ambizioni diverse, come quella di non concedere nulla a una sorta di “settarismo” che rimbalza all’esterno le responsabilità. «A me interessa drammatizzare la valutazione perché voglio drammatizzare l’indagine sul perché abbiamo perso. Mi interessa, cioè, fare una ricerca programmatica che tocchi le reali condizioni di classe oggi, che stanno alla base di questo risultato». Il punto, continua Bertinotti, è che non ci si può astrarre dalla «storia sociale del paese. Usciamo da decenni in cui il lavoro è diventato una specializzazione settoriale non più un prisma universale con cui leggere la politica. E i lavoratori sono finiti nel cono d’ombra dell’agenda politica del paese. Con questo referendum ne sono in parte usciti, ma non al punto di ridefinire i rapporti di forza complessivi. Per questo abbiamo perso».

I rapporti a sinistra
C’è poi un’altra ragione di sconfitta ed è «la vittoria, supposta, dell’autonomia della politica rispetto alla società. L’indicazione della stragrande maggioranza del mondo politico fa pensare che questo abbia avuto la meglio su un umore sociale e su bisogni espressi dal basso. In realtà non è vero, anche perché resta un’ingiustizia nel paese e perché, paradossalmente, nel momento in cui vedono rispettata la propria indicazione di voto, i Ds sono costretti a registrare un’alta affluenza alle urne da parte del proprio elettorato». In quegli undici milioni di Sì ci sono soprattutto elettori di sinistra, basta guardare ai risultati di Emilia e Toscana, ma anche di Torino e Roma. «Dai dati - continua Bertinotti - verifichiamo che ha votato il popolo “partecipato”, quello dei movimenti, della pace, dall’antica tradizione democratica e che ha contribuito attivamente alla rinascita della società italiana». In effetti siamo di fronte a un numero di Sì, oltre undici milioni, che rappresentano circa i due terzi della somma dell’elettorato di Rifondazione e centrosinistra (oltre quindicimilioni alle ultime elezioni).
Come questo voto conterà resta da vedere. «Ovviamente oggi il rapporto con il centrosinistra è inquinato dall’esito del referendum. Un successo di questo avrebbe spianato la strada a un confronto programmatico. Oggi invece siamo di fronte a una strada in salita, a una maggiore difficoltà della battaglia contro il neoliberismo. In luogo della possibile coppia unità/radicalità si riafferma la contrapposizione moderati/radicali. Anche perché i Ds hanno avuto un atteggiamento avventurista, provocando un guaio serissimo. Non tanto direttamente, quanto indirettamente, alimentando il coro dell’astensione e avallando l’idea della “politica” contro il voto. Ma senza calcolare le conseguenze che questo risultato avrà sull’atteggiamento del governo e senza pensare che i lavoratori rischiano di essere più soli».

Non disperdere il risultato
Ovviamente dall’analisi deriva l’iniziativa che si intende seguire. «Innanzitutto non disperdere il valore straordinario di questa battaglia, aver aggregato tante forze su un contenuto radicale. Oggi abbiamo il compito di dare sviluppo alle lotte sui temi indicati dal referendum a partire dalla precarizzazione totale del lavoro richiesta dal governo». Ma c’è un terreno più complesso da affrontare, che forse avrà bisogno di più tempo, quello del rapporto tra politico e sociale, del cortocircuito che si stabilizza tra le due categorie e delle misure per sanare questa contraddizione. In parole più semplici si tratta di capire come questa iniziativa ha ricadute sul piano politico e come va inteso il rapporto con il centrosinistra. «Le forze del referendum dovranno rappresentare le proprie istanze anche nel rapporto con la politica. E’ finito lo schema in cui centrosinistra e Rifondazione discutono tra loro. Oggi la discussione avviene tra molti: le forze, diverse tra loro, del centrosinistra, il Prc, le forze di movimento. A questo schieramento ampio compete l’onere di qualificare l’opposizione al governo Berlusconi e di impostare un piano di lotte sociali all’altezza».