Chi furono i Fenici? 

Who were the Phoenicians?; Qui étaient les Phéniciens?; Wer waren die Phönizier?; 
Quienes fueron los Fenicios?

 

 

La civiltà dei Fenici 

La definizione dei Fenici come popolo non avviene prima degli inizi dell’Età del Ferro, cioè intorno al 1200 a.C. Fino ad allora, infatti, la storia siro-palestinese non offre una chiara differenziazione tra i centri della costa, poi destinati a costituire la Fenicia vera e propria, e quelli dell’interno. Saranno le vicende connesse all’invasione dei Popoli del Mare ad isolare, e dunque far emergere, le città dell’area costiera, che allacciano più stretti vincoli tra loro, e interferiscono più sensibilmente nelle reciproche vicende. La civiltà fenicia dunque è il risultato di fatti nuovi che modificano la situazione circostante.

L’area geografica in cui si svolge la storia fenicia d’Oriente è la fascia costiera siro-palestinese, approssimativamente dalla città di Shukshu (moderna Tell Suqas in Siria), a nord, fino al sito di Acco, in Israele, a sud. All’interno di questi limiti, corrispondenti all’incirca all’attuale Libano, si racchiude una regione omogenea, che presenta una sua tipica caratterizzazione geografica tra il mare e la catena montuosa del Libano che la chiude all’interno, sicché si delinea come una fascia costiera variamente estesa, a seconda che la catena libanese s’incunei più o meno verso il mare: in taluni punti essa ne dista una cinquantina di chilometri, in altri meno, fino a una decina di chilometri, o addirittura la tocca, quando i promontori montuosi s’incuneano nel mare.

Il territorio risulta così suddiviso dai promontori descritti e da una serie di corsi d’acqua che dalle montagne giunge sino al mare; gli spostamenti ed i traffici in senso nord-sud sono quindi fortemente ostacolati a favore di un’autonomia per settori. La situazione geografica descritta ha come conseguenza il frazionamento politico, con la costituzione di stati prevalentemente cittadini. Tali sono le principali città fenicie, da Arado a Biblo, da Berito a Sidone, da Sarepta a Tiro. Dotate di un entroterra fertile, più o meno consistente, tali città tendono ad organizzarsi in autonomia, anche se numerosi raccordi sono evidenti e se a volte l’una o l’altra prevale. Ciò accade in specie per Tiro e Sidone, donde il nome di Tirii e di Sidonii usato spesso nelle fonti per designare i Fenici nel loro insieme.

A conferma di una certa scarsezza di coscienza unitaria propria delle città fenicie è la dibattuta questione del nome: come i Fenici chiamavano se stessi? Non è infatti noto un vocabolo diffuso che possa dirsi distintivo della popolazione fenicia. "Cananei" per il popolo e "Canaan" per la regione sono in uso sin dal III millennio a.C. e indicano in realtà l’intera area siro-palestinese; Phoinikes è un vocabolo greco, usato da Omero in connessione verosimilmente con il nome comune phoinix, che significa "rosso porpora" e che si riferisce dunque alla tipica industria fenicia della colorazione dei tessuti in rosso porpora.

Accanto agli aspetti di autonomia delle singole città-stato, messi in evidenza, vanno però sottolineati gli elementi comuni all’intera regione e caratteristici della civiltà fenicia, come ad esempio la natura degli insediamenti cittadini, fondati su promontori rocciosi o su piccole isole vicine alla costa, l’invenzione e la diffusione dell’alfabeto, l’affermazione di nuove figure divine, ecc.

La chiusura, o la difficoltà di espansione verso l’interno, che si viene a creare in seguito alla situazione politica affermatasi con gli inizi dell’età del ferro, determina l’apertura di nuove vie, quelle dell’Occidente mediterraneo. Ai commerci per via di terra, resi sempre più difficili, si sostituisce dunque una fiorente attività marinara, che sino ad allora si era limitata al Mediterraneo orientale, con particolare riguardo all’Egitto, e che ora si proietta decisamente verso Occidente. Ha inizio così il grande fenomeno della colonizzazione, prima in forma di frequentazione sporadica, poi come colonizzazione vera e propria.

I Fenici in Oriente: Biblo, Sidone, Tiro

La costa fenicia è stata da sempre molto densamente popolata, con la conseguenza di una continua sovrapposizione edilizia, che rende oggi molto problematica la ricostruzione delle sistemazioni urbanistiche più antiche, soprattutto per quanto riguarda le grandi città che hanno subìto proprio le più intense sovrapposizioni.

Alcuni centri sono molto più conosciuti nelle fasi storiche precedenti o conseguenti a quella fenicia, della quale restano ormai poche tracce sul terreno. Biblo, in particolare, occupando un promontorio sul mare, delimitato a nord e a sud da due piccoli corsi d’acqua, ha subito anche una forte erosione marina. Il più antico insediamento individuato su sito risale al periodo preistorico; a partire dal III millennio a.C. Biblo assume le caratteristiche di una vera e propria città, con l’erezione di una cinta muraria, di strade, abitazioni e di due complessi sacri, uno dedicato alla "Baalat di Biblo", l’altro ad una divinità maschile. Dopo un periodo di crisi, dovuto all’invasione delle popolazioni amorree (attorno al 2300-2200 a.C.), la città vive una seconda fioritura in cui viene ricostruito il tempio della "Signora di Biblo" ed eretto un altro edificio sacro detto "tempio di Reshef" o "tempio degli obelischi". La prosperità della città e l’intensità dei suoi contatti internazionali sono dimostrate dai ricchissimi ex-voto rinvenuti nei templi, e dai sontuosi corredi rinvenuti nella necropoli reale. Attorno al 1200 a.C. Biblo conosce un secondo periodo di crisi, superato il quale si può parlare di una "Biblo fenicia", di cui abbiamo in parte notizia da iscrizioni, ma che è molto scarsamente documentata da resti archeologici. Sappiamo comunque che l’uso della necropoli reale, impiantata nell’età del Bronzo, continuò almeno sino al IX sec. a.C.: nella tomba V fu infatti rinvenuto il celebre sarcofago di Ahiram, re di Biblo, che costituisce il più antico sarcofago fenicio noto. Altre tracce di una frequentazione nel corso dell’età del ferro sono alcuni frammenti ceramici rinvenuti nella "necropoli K", una zona cimiteriale con tombe scavate nella roccia e pozzo di accesso, riservata ai cittadini comuni.

Scendendo più a sud, troviamo un altro centro molto importante, Sidone, del quale sono soprattutto note le aree cimiteriali: i ceti medi e bassi della popolazione erano seppelliti nella necropoli di Dakerman, in tombe di forma molto semplice, mentre i componenti della famiglia reale erano deposti nelle necropoli situate sulle colline dell’entroterra di Sidone. Le tombe "reali" sono delle vere e proprie camere sotterranee, scavate nella roccia e fornite di un pozzo di accesso. Gli ipogei potevano essere anche molto complessi, con soffitto a volta e nicchie, o con pareti intonacate, decorate da pittura; al loro interno i defunti, accompagnati dal corredo, erano deposti in sarcofagi, spesso del tipo detto "antropoide", in cui cioè era riprodotto sul coperchio della cassa il volto del defunto. Ulteriori ricerche hanno portato all’individuazione del tempio extra-urbano di Eshmun (in località Bostan esh-Sheik), dio protettore e guaritore, e di uno dei quartieri industriali dell’antica città, riservato alla tintura delle stoffe.

Anche della Tiro fenicia, grande metropoli e centro propulsore del movimento coloniale verso occidente, quasi nulla è conservato in parte a causa delle ristrutturazioni di epoca ellenistica, in parte per la successiva sovrapposizione delle imponenti costruzioni romane, bizantine e dei Crociati. Alcune parti della città sono inoltre oggi sotto il livello del mare. L’abitato era impiantato su di una linea di isolotti e scogli lungo la costa, a circa 600 metri dalla terraferma. La città era servita da due porti: il porto nord "sidonio", e il porto sud "egiziano".

Oggi l’area di Tiro si presenta come una penisola in seguito all’insabbiamento addossatosi alla diga fatta costruire da Alessandro Magno per collegare Tiro alla terraferma e poter così conquistare la città, dopo un lungo assedio. La città doveva essere infatti saldamente fortificata, e parte della cinta muraria è stata recentemente messa in luce. Da Giuseppe Flavio sappiamo che il principale tempio della città, dedicato a Melqart, fu eretto da re Hiram I nel X sec. a.C.; probabilmente esso è attualmente ricoperto dalle strutture della basilica dei Crociati. Per quanto riguarda infine le necropoli, esse erano collocate sulla terraferma, secondo un criterio utilizzato costantemente dai Fenici per i siti insulari, e presente ad esempio anche ad Arado (in Fenicia), e a Mozia (in Sicilia). 

La colonizzazione mediterranea

Il grande fenomeno dell’espansione fenicia lungo le coste mediterranee, con la conseguente fondazione di insediamenti coloniali, fu determinato soprattutto dal desiderio di approvvigionamento di quei metalli pregiati che scarseggiavano in madrepatria.

Un passo di Diodoro Siculo fornisce notizie riguardo ai modi con cui i Fenici entravano in possesso delle materie prime nella Penisola Iberica: "Il paese ha le più numerose e le più belle miniere d’argento ... Gli indigeni ne ignorano l’uso. Ma i Fenici, che sono esperti nel commercio, compravano questo argento con qualche piccolo cambio di altre mercanzie. Di conseguenza, portando l’argento in Grecia, in Asia e presso tutti gli altri popoli, i Fenici ottenevano grandi guadagni. Così esercitando tale commercio per molto tempo, si arricchirono e fondarono numerose colonie: alcune in Sicilia e nelle isole vicine, altre in Libia, in Sardegna e in Iberia".

L’espansione fenicia verso occidente non va intesa come un fenomeno di progressivo avanzamento nello spazio, ma come la creazione di una rete di punti di appoggio e di controllo, lungo le principali rotte di navigazione. Una conferma proviene proprio dalle scoperte più recenti che hanno evidenziato la grande antichità degli insediamenti in Spagna: regione ambitissima perché molto ricca di metalli come l’argento, lo stagno e l’oro.

Poiché l’espansione fenicia si svolgeva per mezzo di una navigazione costiera, i punti di sosta e di approdo erano costituiti da promontori ed isolette dove più agevole era sbarcare e proteggersi dai venti, da zone lagunose o da aree poste all’imboccatura di fiumi. Ad una prima fase di "frequentazioni", a fini puramente "esplorativi" e di commercio, detta "precolonizzazione", seguì a partire dall’VIII sec. a.C. la fase di "colonizzazione" vera e propria, con la fondazione di insediamenti, primo tra tutti Cartagine (814-813 a.C.).

La colonizzazione fenicia va inquadrata come un fenomeno molto differente rispetto a quella greca, che si presenta con un impegno di conquista nell’entroterra e di sfruttamento agricolo oltreché commerciale che manca del tutto nel colonialismo fenicio.

Per quanto riguarda i luoghi interessati dall’espansione fenicia, va ricordato innanzitutto Cipro, dove almeno dal IX sec. a.C. vi è una consistente presenza fenicia. La vicinanza dell’isola alla Fenicia però è tale da renderla intimamente legata alla madrepatria, al punto che spesso è difficile individuare una differenziazione nei caratteri della sua produzione.

Procedendo verso ovest, lungo la costa del Nord-Africa troviamo numerose fondazioni, per le quali non è sempre semplice distinguere se l’origine sia da ricondurre alla fase fenicia o alla successiva fase cartaginese, quando cioè Cartagine, sviluppatasi a grande potenza, cominciò a sua volta a fondare colonie. I numerosi insediamenti fenici o punici si collocano lungo l’ampia fascia costiera di Tunisia, Algeria e Marocco.

Nelle isole che fronteggiano la costa africana, tra Cartagine e la Sicilia, Malta ha presenze fenicie dall’VIII secolo a.C., mentre intorno al VII sec. a.C. furono occupate anche Gozo e Pantelleria.

Antica e densa è poi la colonizzazione in Sicilia, dove i fenici occuparono l’area più occidentale, mentre i greci colonizzarono il resto dell’isola. I maggiori centri fenici sono Mozia, Solunto, Palermo e Marsala, antica Lilibeo. Ancora presenze puniche sono individuabili a Selinunte, fondata dai Greci a metà del VII a.C. e ad Erice, città elima.

La penetrazione fenicia in Sardegna è ancora più profonda e vasta, in particolare nella parte meridionale dell’isola: Cagliari, Nora, Bitia, Sulcis, Monte Sirai e Tharros sono da ricordare tra i maggiori centri di epoca fenicia. Un controllo capillare e un intenso sfruttamento delle risorse agricole dell’isola si avranno infine con i cartaginesi, a partire dal IV sec. a.C.

Da ultimo, nonostante la sua posizione all’estremo occidente del Mediterraneo, la Spagna fu, come si è detto, colonizzata sin da epoca molto antica. Oltre ai grandi centri urbani di Cadice e Ibiza, della cui fondazione abbiamo notizia negli autori antichi, vanno ricordate le numerose colonie dell’Andalusia, databili tra VIII e VI sec. a.C.: Villaricos, Almuñécar, Morro de Mezquitilla, Chorreras, Toscanos, Malaga, Guadalhorce, Doña Blanca.

Viaggi ed esplorazioni

L’abilità marinara dei Fenici era ampiamente nota presso i popoli a loro contemporanei e suscitò sempre grande ammirazione o forte invidia. Noti come crudeli pirati o abili commercianti, mercanti astuti e truffaldini o intrepidi navigatori, certamente essi avevano grande padronanza dei mezzi di navigazione e profonda conoscenza dei mari e degli elementi atmosferici.

I Fenici, spinti dal desiderio di acquisire fonti di approvvigionamento di quelle materie prime che scarseggiavano in madrepatria e di commerciare i manufatti da loro prodotti in Fenicia, percorsero enormi distanze, tracciando per primi le rotte atlantiche dell’Africa e dell’Europa.

I sistemi di navigazione utilizzati erano due: la navigazione di piccolo cabotaggio e di lungo corso. La prima si svolgeva, soprattutto nelle ore diurne, in vista delle coste e permetteva di collegare tra loro centri distanti non più di 25-30 miglia nautiche. La seconda aveva luogo invece in mare aperto, a una maggiore distanza dalle coste, ma probabilmente sempre in vista della terra. Durante la notte, quando il tragitto non permetteva soste alla navigazione, l’orientamento della nave veniva assicurato dall’osservazione della costellazione dell’Orsa Minore, nota nel mondo antico con il nome di Stella Fenicia. In effetti gli unici tragitti nel Mediterraneo che comportavano necessariamente una navigazione senza punti di riferimento costieri sono piuttosto rari: la traversata del canale di Sardegna, dalle coste africane a quelle dell’isola, o la traversata del mare balearico, dalle coste africane alle isole Baleari o da queste alle coste occidentali della Sardegna.

Le navi usate dai Fenici per le loro attività commerciali, dunque da trasporto, avevano mediamente una lunghezza compresa tra i venti e i trenta metri e una larghezza di sei o sette metri; la poppa era tondeggiante e culminava con un fregio a coda di pesce o a voluta, mentre la prua, anch’essa curvilinea terminava con l’aplustre, cioè un elemento decorativo rappresentante una testa di cavallo. Sullo scafo dell’imbarcazione, alle spalle della prua, erano raffigurati due occhi che avevano la duplice funzione di permettere alla nave di vedere la rotta e di incutere terrore nei nemici. La propulsione delle navi avveniva per mezzo di una vela rettangolare sostenuta dall’albero maestro e orientata a seconda della direzione del vento; la velocità di navigazione era attorno ai 2-3 nodi.

Del tutto differenti erano le navi da guerra, di forma più allungata, ospitavano un equipaggio più numeroso e viaggiavano a velocità sensibilmente maggiori. Mentre la poppa era analoga a quella delle navi commerciali, sulla prua veniva sistemato il rostro, ossia una punta di bronzo che serviva, in guerra, a spezzare i fianchi delle navi avversarie. La propulsione delle navi da guerra era più complessa dovendo consentire improvvisi cambiamenti di rotta per poter colpire il nemico con il rostro e schivare i colpi recati dal naviglio avversario. Per questo, durante le battaglie, le navi venivano disalberate e la propulsione veniva assicurata, anziché dalle vele, dai numerosi rematori alloggiati, all’interno dello scafo, lungo i due fianchi dell’imbarcazione. Accanto alle navi descritte esistevano naturalmente anche imbarcazioni minori quali le scialuppe, utilizzate per i percorsi di piccolo cabotaggio, o le barche da pesca.

Grande risonanza ebbero nell’antichità i viaggi di esplorazione a fini commerciali compiuti da Fenici e Cartaginesi come la circumnavigazione del continente africano, da Oriente verso Occidente, compiuta su incarico del faraone Necao alla fine del VII secolo a.C., o il viaggio del cartaginese Annone, che verso la fine del V secolo a.C., facendo vela da Cartagine verso l’oceano Atlantico, superò le colonne d’Ercole e giunse fino al golfo di Guinea. Per finire va ricordato il viaggio compiuto da Imilcone, sempre nel corso del V secolo a.C., il quale partendo da Cartagine, costeggiò le coste atlantiche dell’Europa fino a raggiungere la Bretagna e, come sembra, le "isole Cassiteridi", corrispondenti alle isole dell’arcipelago britannico, e ambite per i giacimenti di stagno.

Il commercio e l’industria

La marcata vocazione commerciale delle città-stato fenicie trova una spiegazione da un lato nella loro posizione geografica, dall’altro nella situazione storica venutasi a creare alla fine del II millennio a.C. lungo la fascia costiera della Siria e della Palestina. Le città, compresse com’erano nell’angusto territorio tra la catena montuosa del Libano e la costa mediterranea, concentrarono le loro attività verso orizzonti commerciali e artigianali; inoltre gli accadimenti storici della seconda metà del II millennio a.C. quali l’invasione dei Popoli del Mare, la caduta dell’impero ittita, la fine della talassocrazia micenea e delle città-stato della costa siriana settentrionale, crearono le premesse per l’espansione commerciale delle città fenicie. Il commercio fenicio non fu mai ispirato da conquiste territoriali, come accadde in epoca posteriore per l’elemento greco; l’elemento propulsore dei traffici marittimi fu sempre la ricerca delle materie prime necessarie alla produzione artigianale.

Nel corso degli ultimi due secoli del II millennio le attività commerciali si svolgono principalmente nel bacino orientale del Mediterraneo ed interessano Egitto, costa meridionale dell’Anatolia e Cipro. Di poco successivi sono i rapporti commerciali con il regno di Israele e i viaggi effettuati verso il lontano Occidente alla ricerca di metalli. è però solo a partire dagli inizi del I millennio a.C. che le città della Fenicia si volgono più sistematicamente verso l’Occidente mediterraneo. Alle spedizioni partecipano, almeno nel primo periodo, anche imprese commerciali vicino-orientali di nazionalità non fenicia; il peso economico di queste iniziative veniva sostenuto probabilmente da armatori pubblici quali la stessa casa regnante o i tesori dei templi della potente casta sacerdotale.

Per quanto riguarda le modalità con cui avveniva il commercio, se nel Mediterraneo orientale i mercanti fenici si erano confrontati con i grandi regni vicino-orientali, in Occidente essi si trovarono a contatto con principi locali o con gruppi a carattere tribale e preurbano. Lo storico Erodoto, in un famoso racconto, ci narra come avvenivano praticamente gli scambi: "I Cartaginesi raccontano anche questo, che vi è una regione della Libia e uomini che la abitano, al di là delle colonne d’Ercole. Quando siano giunti tra questi e abbiano scaricato le mercanzie, dopo averle esposte in ordine lungo la spiaggia risalgono sulla nave e alzano una fumata. Allora gli indigeni vedendo il fumo vanno al mare e poi in sostituzione delle mercanzie depongono oro e si ritirano lontano dalle merci. E i Cartaginesi sbarcati osservano e se l’oro sembra loro degno delle mercanzie lo raccolgono e si allontanano, se invece non sembra degno, risaliti sulla nave di nuovo attendono; e quelli, fattisi avanti, depongono altro oro, finché li soddisfino. E non si fanno torto a vicenda, perché né essi toccano l’oro prima che quelli l’abbiano reso uguale al valore delle mercanzie, né quelli toccano le merci prima che gli altri abbiano preso l’oro" (IV, 196). Uno scambio quindi fondato sulla reciproca fiducia tra le parti, che contrasta con la poco lusinghiera, o addirittura furfantesca, immagine che dei mercanti fenici ci viene tramandata in genere dalle fonti.

Lingua ed alfabeto

Plinio il Vecchio scriveva che: "La gente dei Fenici ha la grande gloria di aver inventato le lettere dell’alfabeto" (Nat. Hist., V, 12); con queste parole egli mostra di condividere un’opinione antica, espressa già cinque secoli prima dallo storico greco Erodoto: "Questi Fenici venuti [in Grecia] con Cadmo … introdussero presso i Greci, tra le molte altre conoscenze ... anche l’alfabeto che precedentemente, come credo, i Greci non possedevano" (Storie, V, 58). Non tutti gli antichi, tuttavia, erano dello stesso parere, e nel I secolo a.C. Diodoro Siculo riferiva l’opinione dei Cretesi sulla questione: "Contro coloro che affermano che i Siri sono gli inventori delle lettere dell’alfabeto e che i Fenici, appresele da costoro, le trasmisero ai Greci ... i Cretesi dicono che i Fenici non le inventarono dall’inizio, ma soltanto cambiarono la forma dei segni" (Biblioteca storica, V, 74, 1).

In realtà, se è indubbio che i Fenici rivestirono un ruolo di particolare importanza nella storia dell’alfabeto, non è altrettanto esatto affermare che essi ne furono gli inventori. L’alfabeto fenicio, composto di 22 segni, si afferma attorno al XII secolo a.C., ma il principio alfabetico, cioè il sistema di scrittura costituito da un limitato numero di segni, in cui ad ogni suono (fonema) corrisponde un segno (grafema), è anteriore all’affermazione della cultura fenicia. Esso rappresenta l’esito di un lungo processo formativo in cui rivestirono un ruolo fondamentale le cosiddette iscrizioni "protosinaitiche" (databili attorno al XV sec. a.C.), la scrittura ugaritica (XIV sec. a.C.), la scrittura "pseudo-geroglifica" di Biblo e prima ancora i tre principali sistemi di scrittura che dominavano nel Mediterraneo attorno al 1700 a.C.: la scrittura geroglifica egiziana, quella cuneiforme mesopotamica e la cosiddetta "lineare A" di Creta. La questione dell’origine dell’alfabeto è in realtà assai complessa e a tutt’oggi non può dirsi del tutto chiarita in ogni suo aspetto.

Per quanto riguarda specificamente l’alfabeto fenicio, esso va immaginato un po’ differente rispetto al nostro: i 22 segni che lo compongono sono tutti corrispondenti a consonanti e venivano annotati da destra verso sinistra. Le vocali di certo esistevano nella lingua fenicia, ma non erano annotate; il lettore doveva di volta in volta apporre alle singole consonanti le vocali necessarie, come avviene ancora oggi per le vocali brevi dell’arabo, che non sono registrate dalla scrittura. Riassumendo, al segno fenicio "b" potevano ad esempio corrispondere quattro suoni: "b", "ba", "bi", "bu". Saranno proprio i Greci, in seguito, ad introdurre sistematicamente le vocali nell’alfabeto. Questo modo di scrivere è forse un po’ difficile per noi da comprendere, in quanto sarebbe del tutto inefficace per esprimere le lingue indoeuropee mentre si adatta bene alle lingue semitiche, come il fenicio, che hanno radici consonantiche.

Per comprendere meglio riportiamo un breve esempio: se in italiano scrivessimo "spr" non sapremmo se leggere "sapere", "sapore", "sparo", "sopra", "aspro", "super" e così via. Scrivendo "spr" in Fenicio sappiamo con certezza che si tratta di qualcosa connesso con lo "scrivere" o al massimo con il "contare".

Per quanto riguarda i nomi delle singole lettere dell’alfabeto fenicio (alef, bet, gimel, dalet, he, ecc.) sembra che essi siano apparsi in un secondo momento rispetto ai segni e che la corrispondenza tra il valore fonetico del segno e la prima lettera del nome sia una specie di trucco ideato per agevolare la memorizzazione dei segni. Quindi ad esempio il nome bet corrisponde al suono "b", il nome dalet invece al suono "d", e così via. Accanto a questa ipotesi ve n’è un’altra, secondo la quale il nome delle lettere deriverebbe dagli oggetti raffigurati in origine dai segni stessi, quindi alef al "bue", bet alla "casa", dalet alla "porta", ecc. In realtà viene generalmente preferita la prima ipotesi proposta, sia per il fatto che questa corrispondenza non è affatto sistematica, essendo molti nomi semitici di lettere dell’alfabeto privi di significato, sia in seguito alla constatazione che in alcuni casi non vi è neanche una reale somiglianza formale tra il segno e l’oggetto.

Arte e artigianato

I Fenici nei loro commerci lungo le rotte del Mediterraneo vendevano o scambiavano oggetti di artigianato, per lo più di piccole dimensioni e per lo più pregiati. Molti dei loro prodotti nascono da esigenze puramente funzionali: sono quindi fortemente ripetitivi e non possono che essere considerati oggetti di artigianato; altri però sono realizzati in materiali preziosi e appaiono lavorati così finemente da meritare di essere compresi nella sfera dell’arte. Forte è in genere l’influsso egiziano anche se, a seconda dei generi artistici, si riconoscono anche influenze mesopotamiche o egee.

Una caratteristica dei prodotti fenici è quella di articolarsi per generi o categorie: stele, figurine di terracotta, protomi e maschere, gioielli, scarabei ed amuleti, sarcofagi, coppe sbalzate, ecc. Tale articolazione è accentuata dalla costante funzionalità pratica dei prodotti, dalle valenze religiose e magiche che ad essi si accompagnano, dall’aderenza alla tradizione e ai modelli.

A seconda delle epoche e dei luoghi, i diversi generi individuati subiscono riduzioni o, al contrario, notevoli sviluppi: i sarcofagi o le coppe sbalzate ad esempio diminuiscono nelle colonie occidentali, ove invece sarà fortemente incrementata la produzione delle stele. Nel passaggio da Oriente a Occidente, l’allontanamento dalla madrepatria non influisce negativamente sulla produzione artistica che, anzi, si arricchisce dei nuovi stimoli derivanti dai sostrati locali.

Un altro aspetto della produzione fenicia è una progressiva caratterizzazione dei singoli centri di produzione; per quanto riguarda la Sardegna ad esempio Bitia si distingue per la produzione di figurine fittili, Sulcis per le stele, Tharros per i gioielli, gli scarabei e gli amuleti. All’interno poi dei diversi generi si notano differenziazioni areali, così ad esempio le stele di Sulcis si caratterizzano per una forte componente greca che manca invece del tutto a Nora e a Tharros.

Le principali divinità

La maggiore difficoltà, nella ricostruzione del sistema religioso fenicio, è costituita dalla scarsezza di testi mitologici e liturgici pervenutici. Spesso per la ricostruzione dell’insieme delle divinità, cioè del "pantheon" fenicio, ci si deve rivolgere, pur con la dovuta prudenza, ad autori greci e latini o alla Bibbia.

La religione fenicia è una sistema politeistico, caratterizzato cioè dalla venerazione di una pluralità di esseri sovrumani, dalle caratteristiche differenti, che rappresentano nel loro insieme la totalità degli interessi e dei bisogni dell’uomo e della società. Il termine generico che designa la divinità è "el", o "elat" al femminile. El è anche il nome proprio del padre degli dèi.

Conseguenza del frazionamento politico della Fenicia è la costituzione di pantheon cittadini. Ciascuna città provvedeva in modo autonomo al culto pubblico, aveva le proprie feste, le proprie tradizioni, le proprie divinità, in forme che potevano essere comuni ad altre metropoli, ma alle quali non si dava ovunque la stessa importanza. L’insieme delle divinità cittadine era definito da particolari espressioni, come "l’assemblea degli dèi santi di Biblo", oppure "tutta la famiglia dei figli divini". Gli dèi sono considerati come signori o re, santi, potenti, eccelsi, ed esercitano un’azione benefica nei confronti dell’uomo, della natura, della società; i fedeli si dichiarano nelle iscrizioni beneficati, favoriti, protetti dagli dèi e si qualificano come loro servitori o schiavi.

Una caratteristica propria della religione fenicia è una certa "fluidità" nella definizione delle caratteristiche delle divinità. Una particolare ambiguità si riscontra ad esempio nelle figure divine femminili: Astarte, Baalat, Tanit. Il loro ruolo è in connessione con la fecondità, la prosperità, l’amore ma anche la guerra. Un altro aspetto peculiare della religione fenicia è l’attenzione rivolta a particolari luoghi, o fenomeni naturali, considerati sacri: si hanno quindi boschetti sacri, così come montagne, pietre e alberi oggetto di venerazione. Tra le divinità maschili alcune sono in connessione proprio a particolari luoghi, come Baal del Libano, che significa "signore", "padrone", del Monte Libano. Spesso santuari o altari, erano edificati presso sorgenti, fiumi o boschetti sacri. Accanto a esseri divini connessi con particolari luoghi, esistono poi divinità astrali come Baal Shamem, il "Signore del cielo", dominatore del cielo e padrone del fulmine, o il dio lunare Yarih e quello solare Shamash. Altri dèi sono invece legati ad attività umane e ai pericoli ad esse correlate, come ad esempio il dio Reshef, connesso con la folgore, la guerra e la peste, venerato soprattutto per tenere lontano i malanni che la sua stessa collera poteva causare. Chusor poi è il dio fabbro e artigiano che rivestiva un ruolo importante nella storia delle invenzioni e persino nell’origine del mondo.

Ogni città, come si è detto, aveva un pantheon cittadino ai cui vertici era in genere una coppia divina: a Biblo un ruolo specifico aveva la Baalat, cioè "signora" e "sovrana" della città. La Baalat di Biblo, in linea con il forte vincolo politico-culturale che legava Biblo con l’Egitto, era raffigurata con i simboli della Hathor-Iside egiziana, con la quale fu a lungo identificata. Accanto alla dea i Greci ponevano un personaggio maschile, un Baal che identificavano con l’eroe Adone, amato da Afrodite. Sempre a Biblo troviamo Baal Addir, il "Signore potente", divinità connessa agli inferi e alla fertilità agraria.

A Tiro, accanto ad Astarte, troviamo una ulteriore divinità che compare nell’età del ferro e che avrà sempre maggiore potere: Melqart, cioè "Re della città"; egli è il protettore e inventore degli interessi fondamentali della società, dalla porpora alla navigazione verso occidente. Dediche a Melqart, identificato ben presto con l’Eracle greco, compaiono a Cipro, Cartagine, in Sicilia, Sardegna, Malta e Spagna, mentre i suoi santuari svolgono un ruolo di avamposti nel quadro dell’espansione e della navigazione fenicia.

La coppia divina preminente a Sidone è composta da Astarte e da un dio designato come "Baal di Sidone" o "Principe santo", probabilmente da identificare con Eshmun. Come Melqart, Eshmun è un dio tipico dell’età del ferro; egli ha le caratteristiche di un dio guaritore, e viene assimilato dai Greci e dai Romani con Asclepio/Esculapio, dio della medicina.

Nelle colonie occidentali, anche per quanto riguarda la religione, si hanno aspetti di continuità e di innovazione rispetto alla madrepatria. A Cartagine ad esempio sono venerati Astarte, Melqart, Eshmun, Reshef, ma anche, a partire dal V secolo a.C. Tanit (o Tinnit) e Baal Hammon, già attestati in Oriente, sono oggetto nella metropoli africana di una grandissima venerazione. La dea Tanit è talvolta detta "Madre", ma più spesso "Signora" o "Volto di Baal" a indicare il suo stretto legame con il compagno divino Baal Hammon. La coppia divina, venerata in tutti i centri punici d’occidente, era inoltre la principale destinataria dei rituali che si svolgevano nel santuario punico detto tofet. 

L’organizzazione politica

Le città fenicie d’Oriente sono strutturate, dal punto di vista istituzionale, in altrettante monarchie in cui, di norma, la trasmissione del potere avviene per via dinastica. Sembra però che i sovrani fenici non possedessero in genere una reale autonomia decisionale in campo politico, forse a causa dei condizionamenti imposti dalle potenze estere di volta in volta dominanti o da alcuni strati della stessa popolazione cittadina.

è nella funzione sacrale e sacerdotale che risiede la maggiore autorità dei sovrani, che non a caso si definiscono sacerdoti della divinità: Ittobaal, re di Tiro nel IX sec. a.C. è "sacerdote di Astarte"; re Ozbaal è "sacerdote della Signora". Il fatto che i sovrani siano sempre connessi con la massima dea della loro città, suggerisce una concezione teocratica, in base alla quale cioè il potere è detenuto dalla divinità, che lo amministra attraverso il suo massimo sacerdote.

Nell’esercizio del potere il re è affiancato, e di fatto limitato, da una serie di funzionari: si ha notizia ad esempio dell’esistenza di un "governatore" e di un "comandante del campo", probabilmente magistrati cittadini con funzioni amministrative e militari. Anche assemblee rappresentative come "gli anziani di Biblo" affiancavano nel governo il sovrano.

Decisamente più ricca, rispetto a quella orientale, è la documentazione occidentale, in particolare relativa a Cartagine. Sembra ormai fuor di dubbio che, nonostante la leggenda della regina Elissa-Didone, Cartagine fosse governata da magistrature di tipo repubblicano. Il sistema di governo cartaginese era molto apprezzato dagli scrittori antichi, e per Polibio la costituzione di Cartagine è addirittura una delle migliori del mondo e la migliore al di fuori della Grecia. I due magistrati supremi a Cartagine sono i "sufeti" (cioè i "giudici"); essi sono scelti tra le famiglie aristocratiche e durano in carica un anno. Oltre ad amministrare la giustizia, i sufeti presiedono il senato, lo convocano e stabiliscono l’ordine del giorno dei suoi lavori.

Il senato di Cartagine, composto da rappresentanti delle famiglie nobili, è il vero centro dell’attività legislativa: spetta a questa assemblea, i cui membri restano in carica per un periodo di tempo determinato, promulgare le leggi, definire le linee della politica estera, decidere se intraprendere una guerra e a quali condizioni porvi termine, dare udienza alle ambascerie di Stati stranieri, vigilare sulla condotta dei capi militari.

All’interno del senato sono costituiti comitati più ristretti composti da cinque membri e detti "pentarchie"; tra i loro compiti v’è quello di eleggere i membri di un importante organismo, un consiglio ristretto di cento o centoquattro Cartaginesi, scelti tra i senatori in carica. Tale consiglio inizialmente costituisce un’alta corte di giustizia con il compito di controllare, in particolare, il comportamento dei generali; successivamente amplia il proprio raggio d’azione alla giustizia civile, sino a detenere nel III sec. a.C. un potere così vasto, da sfuggire quasi al controllo delle altre magistrature dominando la vita pubblica della città.

L’organismo più rappresentativo è infine l’assemblea del popolo, che deve essere consultata in caso di disaccordo tra sufeti e senato, e alla quale spetta l’elezione dei generali e dei sufeti. Non è in realtà del tutto chiaro chi potesse parteciparvi, ma certo ne erano esclusi gli schiavi, gli stranieri e tutti coloro che non possedevano un reddito minimo stabilito. Nell’ultima fase della storia di Cartagine, i poteri dell’assemblea del popolo saranno fortemente incrementati per iniziativa di Annibale.

Lo stesso ordinamento cartaginese doveva essere applicato anche agli altri centri fenici d’Occidente, sui quali tuttavia siamo informati in modo parziale ed episodico.

L’avventura di Annibale

Annibale nasce nel 247 a.C., primo di tre fratelli, da una famiglia di antica nobiltà giunta a Cartagine, come sembra, con la stessa fondatrice Elissa. I due principali esponenti della famiglia Barca, Amilcare, padre di Annibale, e Asdrubale, cognato di Amilcare, capi della fazione democratico-nazionalistica, si erano fatti promotori di una profonda riforma delle istituzioni cittadine in senso antioligarchico. La riforma politica concepita dai Barcidi prevedeva come passo ulteriore la ricostruzione dell’impero punico su basi diverse, attraverso la conquista di vasti dominî oltremare. Primo obiettivo era la conquista della Penisola Iberica. Il possesso e la gestione diretta delle miniere spagnole avrebbe compensato Cartagine della perdita, conseguente agli eventi connessi con la prima guerra punica, di Sicilia e Sardegna, passate a Roma rispettivamente nel 241 a.C. e nel 238 a.C. La Spagna avrebbe offerto altresì una base sicura, lontana dalle ingerenze del potere romano, e avrebbe costituito, ad un tempo, un prezioso serbatoio di reclutamento, capace di fornire truppe eccellenti.

Fin dal 237 a.C. Amilcare ne intraprende dunque la conquista; le operazioni militari vengono continuate, alla sua morte, prima da Asdrubale, poi da Annibale, che a soli venticinque anni, nel 221 a.C., assume il comando dell’esercito cartaginese.

Nel 226 a.C. i Cartaginesi si impegnano a non superare, durante le loro operazioni, il corso dell’Ebro. Sarà proprio questo trattato a causare la guerra con Roma. A sud del fiume si trova Sagunto, città indigena che la tradizione vuole però di origine greca. Entrambe le parti ritengono di poterne decidere la sorte: Roma perché la città è da tempo sotto la sua protezione, Cartagine perché essa si trova entro la sua sfera d’influenza. Quando, malgrado i moniti di Roma, Sagunto viene distrutta, il conflitto si rivela inevitabile.

I Romani si preparano ad inviare in Spagna Publio Cornelio Scipione, mentre affidano a Tiberio Sempronio Longo l’incarico di organizzare uno sbarco in Africa: la fulminea partenza di Annibale nel 218 a.C. vanifica il loro piano: il condottiero varca le Alpi e giunge fino alla valle del Po, dove ottiene le prime vittorie al Ticino e alla Trebbia, seguite nella primavera successiva da quella del lago Trasimeno. Il Cartaginese prosegue poi verso sud dove il 2 agosto del 216 a.C., a Canne, infligge una durissima sconfitta all’esercito romano guidato da Lucio Emilio Paolo e Caio Terenzio Varrone.

In neanche due anni Annibale ha dunque condotto una vittoriosa guerra lampo, sostenuto da gran parte delle genti meridionali della federazione italica: in questo periodo passano ai Cartaginesi, tra le altre, Capua, Siracusa, Taranto, Metaponto. Ma Roma rifiuta di arrendersi e segue infine la tattica attendista voluta da Fabio Massimo, evitando quindi nuovi scontri diretti. La strategia si rivela vincente e, mentre Annibale è lontano e punta su Roma, Capua capitola e Siracusa viene espugnata; nel 210 a.C. la Sicilia è di nuovo assoggettata e anche Taranto si appresta a seguirla. La morte di Asdrubale durante la battaglia del Metauro sarà presagio di una fine imminente per l’avventura dei Barca in Italia. Nel 203 a.C. infatti, privo di alleati, costretto nell’estremo meridione della penisola, ed accerchiato, Annibale lascia l’Italia.

Ad attenderlo in Africa si trova però Publio Cornelio Scipione, figlio del vinto al Ticino, reduce da una vittoriosa campagna in Spagna. Costretto alla battaglia sul suolo patrio, Annibale, nonostante avesse sfiorato la vittoria in forza delle sue superiori doti tattiche, viene definitivamente sconfitto durante la battaglia di Zama (202 a.C.). In conseguenza della disfatta, Cartagine deve sottoporsi ad una pace durissima che pone fine alla seconda Guerra Punica.

Tratto da www.mlib.cnr.it/istituti/ifp/whowere.htm

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