Autobiografici

 

 

Questi sono racconti che parlano di me, ma non necessariamente di cose che ho veramente vissuto, sono anche voli pindarici, descrizioni di sensazioni che spesso, inevitabilmente sfociano in scrittura.

Buona lettura!

 

 

 

 

 

Per adesso in questa sezione trovate ( in quest’ordine ) :

 

???

 

Gioco a fare Molly Bloom

 

Non ci sei

 

Ventidue

 

Salsedine

 

Signore e signori: il Blocco

 

Bologna è una vecchia signora

 

Le prove

 

 

 

 

 

Questo doveva essere un pezzo di un romanzo, una storia scritta a sei mani con due loschi figuri, ma per il momento pare non se ne faccia nulla, così lo piazzo qui.

 

???

 

Vedi…Io questa cosa dei giochi di ruolo all’inizio la vedevo un po’ come un mistero, mia mamma, da parte sua, aveva paura che fosse una specie di setta satanica in cui mi avrebbero traviata…E in un certo senso…

A parte il discorso del satanico, il resto effettivamente era abbastanza vero.

 

Quando inizi a giocare poi non smetti più, passi le giornate a pensare a storie nuove, ad avventure che la sera, finito di studiare, messi via i libri, fatto di nascosto il dito medio alla bibliotecaria acida, potrai vivere grazie a quei dadetti, ai disegni e alle parole. Soprattutto le parole.

E all’inizio io questa cosa dei giochi di ruolo la vedevo un po’ come misteriosa…Come funziona?

A cosa serve tirare i dadi? E come si fa a fare i combattimenti? E chi decide che cosa succede?

Ah…Si inventa…Figo!

La prima vola che ho giocato era Cyberpunk, poi AD&D, poi Vampiri, Changeling…Alla fine tutte quelle storie fanno parte della mia vita come quelle vere, come se le avessi vissute, e la gente che le ha vissute con me…Beh, alla fine chi vive con te quelle avventure condivide qualcosa che i compagni di classe, il moroso, l’amica del cuore, non capiscono, ti guardano strano e si annoiano a sentirti parlare di elfi, draghi e vampiri. E non capiscono proprio perché tu passi le serate con quei tipi, intorno ad un tavolo, invece di andare in discoteca a divertirti…

Che cosa ci guadagni? Non è che di quei tipi lì te ne piace qualcuno? Non è che mi dici una balla? Quei dubbi lì in somma…

Però alla fine tocca anche fare qualcos’altro nella vita..Mica posso giocare di ruolo per professione!(fiiiiigo!)

E di esami ne ho dati davvero pochini e mia madre si spazientisce sempre di più…

E poi c’è il teatro, quello sì, quello lo voglio davvero far diventare una professione.

“Da grande voglio fare l’attrice!” Io a sette anni, flash, niente di più.

Folgorata sulla via di Damasco…Più o meno, a dire il vero folgorata dal teatro poco prima della maturità e da lì la decisione di studiare lettere e intanto fare teatro…Provarci almeno.

Poi vabbeh…non sono mica una disadattata totale, lo sai, non passo il mio tempo solo a giocare e a studiare, assolutamente…anche perché tra un gioco e l’altro di gente ne conosci e io ne ho conosciuta di bella. E una sera sto a parlare di poesia davanti a taaanti bicchieri di rosso, la sera dopo si va a fare casino su all’osteria, si balla, si poga –quando me lo lasciano fare- e poi ogni tanto si trova qualche festa anni ’80, oppure un posto dove fare un po’ i goticicheselatirano…

 

Insomma, non mi vedere come una che vive chiusa nel suo mondo di storie inventate e che non esce mai con gente diversa…No, vedi, tu sei un’eccezione!

Sì, ok, è vero…Hai ragione.

Sì…Mi dispiace…

No…non è stata solo una scopata…(attenta al naso…)…Cosa dici!

No è che…Vedi…Ti ho raccontato tutto questo perché capissi...Insomma, io sono stata davvero bene (il naso….), ma non credo funzionerebbe…Ecco.

 

Perché?

PERCHE’ SECONDO ME UNO CHE DICE CHE LABYRiNTH E’ UN FILM DA CHECCHE E BAMBINI SOTTOSVILUPPATI E’ UNA TESTA DI CAZZO!!! CHIARO???!!!

Pronto?

Pronto…

Boh…Ha messo giù, se la sarà presa?

Ecchissenefrega!

 

 

 

 

Gioco a fare Molly Bloom

 

Fa caldo. Per favore, non ripetiamolo, lo si sa, fa caldo e siamo tutti qui a parlare del caldo come se fosse un avvenimento straordinario. La nazionale uscita di scena dai mondiali, la gatta che si lamenta sul cuscino, dietro il computer, la radio che spara puttanate a raffica come se fossero cose importanti e la mia testa?

Quella vaga, fluttua in un non-tempo, non –luogo, non-essere…Ricordi delle superiori, Parmenide, com’è che dicevamo, seduti dietro quei banchi? “Parmenide è la dimostrazione che i filosofi sono dei mangiapane a tradimento….” Sì, anni fa, estati fa, caldo, umido, Bologna che si svuota e collassa su se stessa, traffico impazzito, centraline per il controllo dei gas inquinanti, televisione, notizie allarmanti dal medio oriente…Sembra non sia passato nemmeno un giorno allora…Tempo, tempo che scorre e gira nel suo cerchio e alla fine torna, torna al punto di partenza, caldo, umido, guerre, stupidaggine, word che si inceppa e mi cancella tutto, oh, gioia!

Gioia, gioia provata la prima volta  che mi hai baciata e tutto sembrava essere stupendo e gli anni passati non esistevano più tra me e te a rincorrere, escludere, distruggere, annichilire, gioia la prima volta in quel teatro, l’odore del legno di quercia, le voci, il suono dei passi sul palco, familiare come il rumore del cucchiaino nella tazza del caffè la mattina. Caffè per me la mattina, ma per Irene il the, English breakfast, se non sbaglio, là, in Inghilterra, dove le Sanlazzaresi diventano Britanniche in un batter d’occhio. English breakfast per te laggiù e Earl Grey per il Capitano Picard dell’Enterprise, lassù, nello spazio della fantasia, là dove nessun uomo è mai giunto prima…Per me caffè e sembra un po’ quella canzone di Sting, Englishman in New York, il cappotto nero come il mio e la pioggia, i passi su marciapiedi stranieri, che gusto infinitamente delizioso e al tempo stesso una gran sensazione di straniamento.

Straniamento, uno dei saggi che ho studiato per l’esame di letteratura italiana, era un saggio di Carlo Ginzburg, vero? Eh, beh, la mia memoria è selettiva, ricorda cose che forse non servono più a nulla. Saper guardare le cose con occhio straniato insegna a far cadere il velo della convenzione, mostra una realtà più vera o forse dannatamente fittizia, perché in fondo siamo fatti di ciò che ci costruiamo intorno. ormai

Vediamo quello che vogliamo vedere o che forse possiamo vedere, in fondo abbiamo solo cinque sensi…Sei al massimo,se vogliamo stare larghi.

Come si chiamava quel racconto di Lovercraft? “From Beyond”, sì, si chiamava così ed era davvero bello…Un congegno che fa vedere ciò che i nostri sensi limitati non possono percepire, ma non è che vedi o senti, non è vista, né udito, ne tatto, né gusto, né olfatto…E’ un altro senso. Un’idea così semplice e così geniale, così scontata eppure…Ho sempre pensato che fosse qui il succo della genialità. Cose a cui tutti siamo in grado di arrivare, una volta che qualcuno ce le ha almeno accennate…Ma prima nessuno ci aveva pensato…Intuizione, semplicissimo, no?

Semplice…non è strano quanto qualcosa sembri semplice a me e quanto  la stessa cosa sembri inconcepibile a te? E questo sta tagliando i ponti con tutto, tutto quanto e fa così caldo….così caldo.

Ma a me il caldo è sempre piaciuto e adesso vorrei avere chilometri di prato davanti, per poter bere vino e ascoltare la musica del fiume davanti a noi, come una volta, come quella volta, come avrei voluto restasse per sempre, un’estate congelata nel tempo, da rivivere quando ti senti nostalgico come ora mi sento io, quando ti senti abbandonato a galleggiare in un vuoto così opprimente da risuonare tutto del suo silenzio.

Vuoto, vuoto come il buio che ora vedo in corridoio, in una serata in cui avrei potuto…Se solo avessi avuto..se solo ci fossi stato…e invece no, invece non è stato nulla e questa serata non tornerà, non ci sarà più, è andata, è un’occasione così persa, così alla deriva nel tempo e quando il giro sarà completa la rivivremo, ma senza poterne godere, ma sto sragionando…Il caldo, sì deve essere il caldo. Il tempo, il passare, le ossessioni mie come di quella Morgana che un tempo ero, quella di quei romanzi di Michel Rio, quelli che hanno dipinto un affresco così meraviglioso un anno fa, intorno a noi e al nostro mondo e adesso li sento lontani come se fosse un’altra realtà, un’altra dimensione, forse perché non sei qui tu e da sola non riesco a costruire sogni che prendano poi vita, rimangono sogni, soltanto sogni.

E anche io sono inesistente come loro, siamo della materia di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è cinta di sonno.

Sì.

Il tempo, il tempo sta scorrendo come le mie dita su questi tasti, e ad ogni battito del mio cuore, questo unico orologio impreciso che mi porto appresso, la mia pelle si solca, le mie occasioni sfumano, i miei anni aumentano, i miei tessuti si rilasciano, impercettibilmente, lentamente, quasi con una lentezza solenne, se non fosse una cosa così banale…Tra una settimana avrò 23 anni, sarà per questo?

Forse, forse è per questo che penso più decisamente a certe cose e il mio umore ne risente , eccome se ne risente, sembro una locomotiva, sbuffo, protesto, ma intanto macino chilometri come se fossi su rotaie…Dove cazzo mi state portando? Vorrei sapere, per favore, vorrei sapere…Vi prego, no ,non voglio davvero sapere, sarebbe orribile, in un attimo, vedere, sapere ogni cosa che verrà, no troppo, non vorrei mai. Ma cosa c’è la fuori? Quello forse sì, o magari sarebbe troppo anche quello, se solo mi fermassi a pensarci abbastanza a lungo…Pianeta, atmosfera, sì, sì, poi lo spazio, lo spazio, le stelle, galassia e chissà quanti altri corpi celesti e magari civiltà, così immensamente lontane da non poter nemmeno immaginare, e poi altre galassie ancora e poi, universo, multiverso, omniverso…all’infinito? Mente troppo umana per pensare, per concepire qualcosa del genere…tutto ha una fine nel nostro micro, perché non dovrebbe averla in quel macro? E allora, alla fine dell’universo…fuori…fuori che cosa c’è….

Troppo, troppo, smettere immediatamente di porsi certe domande, sii ragionevole, non vuoi rovinarti il sonno, vero?Pensa piuttosto agli esami che non dai, alle occasioni perse, agli impegni presi, alle delusioni passate, ma non andare così in là che hai la testa come un vascello fantasma, sempre alla deriva su mari che in fondo nemmeno esistono e anche questo delirio deve avere una fine.

Perché all’inizio hai cominciato per gioco, il piccolo grande gioco del flusso di coscienza…Oh se Joyce avesse avuto una tastiera…Pensa a quanto diversa sarebbe stata Molly, con le dita che scorrono così veloci sulle lettere di plastica…Immagine tremenda…Era un giochino all’inizio, il gioco delle parole in libertà il gioco di scrivere i pensieri e adesso sta prendendo troppo spago, come si dice qui da noi, qui dove…NO! Ferma il flusso…dottore lo stiamo perdendo! Ah! ER, ma quelle serate a guardare e a ridere e a immaginare se qualcuno di noi avesse mai studiato davvero quella roba…Mio zio fa il medico e io da piccola…NO! Fermati, fermalo…Ecco…adesso basta, questo gioco finisce.

Qui.

 

 

 

 

 

 

 

Non ci Sei

Non ci sei.

Non ci sei e basta e io invece ci sono, ci sono eccome.

Certe volte vorrei esserci di meno.

Chiudo la porta di casa e infilo gli auricolari mentre la porta dell’ascensore si richiude alle mie spalle, mentre si apre il portone, mentre fuori la notte mi abbraccia, almeno lei.

Cammino con la sicurezza di chi si sente inattaccabile, protetto da una corazza di suoni, la voce gustosa di un cantante che accarezza le corde dell’ emozione e mi fa percorrere i metri ad uno ad uno, con falcate decise, ondeggianti, silenziose. Sono silenziosa, molto, ma dentro la testa ho tutti i Depeche Mode che urlano, e la mia mancanza di te così enorme che nemmeno un’orchestra potrebbe riempirla.

Cammino e mi lascio portare a spasso dalla notte, come se fossi qui accanto a me e potessi parlarti, come se potessi girarmi e vederti, e toccarti, e colpirti così forte da lasciarti a terra sanguinante, calpestarti, umiliarti, distruggerti.

No.

Scusa, non volevo, forse non volevo questo, ma quando non puoi avere distruggi e io che ti ho voluto e non ho potuto, adesso vorrei cancellarti, in un modo o nell’altro.

Mi stufo di camminare e non ho voglia di cominciare a piangere, patetica, per strada, portico a sinistra, portico a destra,gatto bianco persiano su finestra a bifora, chiesa, vicolo, portico, casa.

Inizia  piovere, lo stai sentendo tu? Ora posso rotolarmi nel letto e immaginare che tu sia qui accanto, di poter allungare una mano e sentire il profilo del tuo naso, una ciocca dei capelli, qualche pelo scompigliato sul petto,annusare l’odore che avresti lasciato sui cuscini. Patetico.

Posso prendere fuori quel vino avanzato dall’ultima cena, ultima bottiglia di altre cinque, e dargli il colpo di grazia, e magari quella tavoletta di cioccolata e poi le sigarette, sedermi a terra, spalle al muro, e la pioggia, che adesso ha cominciato a cadere, sbatterà violenta sull’abbaino.

Come sa molto di tragico tutto questo, quanto sarei eroina romantica, dovrei anche uscire sul terrazzo e urlare sotto al temporale, col bicchiere in mano e i capelli che si appiccicano alle spalle nude, urlare il tuo nome ai tetti della città, molto baccante in preda alla sacra frenesia, molto bohemienne.

Ma no, non credo.

Niente di sentimentale per favore, non siamo ipocriti, niente di romantico, solo desiderio sordo e rovente.

Do davvero la botta finale a quel vino, mi spoglio davvero e se fossi più bella sarei un soggetto fantastico per un disegno di Luìs Royo, in autoreggenti e camicia di pizzo, sul tappeto, il trucco sbavato che si aggiunge alle occhiaie…Però non sono bella. Non abbastanza almeno, non abbastanza per te.

E quanto so essere stupida se mi impegno! Lasciare che un desiderio di te mi portasse a questo, a voler sentire braccia intorno alle braccia, respiro su pelle, a voler chiudere la mano e sentire che non c’è un bicchiere, come ora, ma i tuoi fianchi, i tuoi muscoli che si muovono sotto la pelle…E fuori piove e saresti fradicio, e l’odore della pelle nera, bagnata,  del tuo cappotto riempirebbe la stanza, insieme al tuo profumo e al tabacco.

Patetica, inevitabilmente patetica vuoto il bicchiere, lancio la bottiglia vuota nel bidone, l’elastico delle autoreggenti sui strappa mentre le tolgo, pazienza, sguscio sotto le coperte, mi rannicchio in diagonale, come sempre, spengo le luci e, da patetica imbecille quale sono, immagino, nel buio, di sentirti chiamare, piano il mio nome.

 

 

 

 

 

Ventidue

 

Ventidue.

C’è stata una volta una bimba, che era convinta di non essere bimba proprio per niente, e quella bimba scriveva dei bellissimi temi.

Tutte le maestre delle elementari adoravano leggere i suoi temi, perché spesso, appena l’argomento lo consentiva, lei inventava delle storie, storie belle davvero.

Una volta la maestra mi ha detto che teneva i miei temi per ultimi, perché le sembrava di ascoltare una favola prima di addormentarsi.

Non gliel’ ho mai detto ma mi ero commossa.

La maestra un giorno si presenta con i titoli del tema in classe e io scelgo il terzo: ‘Io a vent’anni’.

Ricordo poco di quel che scrissi, ricordo che mi immaginavo bellissima, finalmente magra, senza il cartello ‘bambina obesa’ sul mio piatto in mensa. Nei miei progetti, che all’epoca sembravano realistici, io a vent’anni vivevo da sola, facevo la cantante, avevo molti amici, molti ammiratori, la notte suonavo nei locali e poi facevo mattina leggendo tutti i romanzi del mondo e scrivendo poesie.

 

Alle medie la prof. di lettere era molto dura, una donna strana, di una cultura immensa, ma non sapeva insegnare, non ti trasmetteva l’amore per le cose, anzi.

Anche alle medie facevo dei bellissimi temi, quasi mai di letteratura, avevo ancora voglia di inventare delle storie, ma cominciavo ad apprezzare quella possibilità di dire la tua sui mostri sacri…”Manzoni?Davvero posso scrivere IO cosa penso di Manzoni?”

La prof. Un giorno si presenta con i titoli del tema in classe e io scelgo il terzo: ‘Io tra dieci anni.’

Quella volta ho scritto di una strana persona, una scrittrice di grandi romanzi, che viveva da sola in una piccola casa con tre gatti, che la notte non rientrava mai prima delle quattro e che faceva una vita al limite, fatta di musica, arte, sesso (non mi ricordo, ma mi pare di non averlo scritto…Però ricordo bene di averlo pensato) che beveva assenzio e viaggiava molto, in autostop, per l’Europa.

 

Al liceo non mi hanno dato un tema del genere…Al liceo ho imparato a fare i temi di letteratura come li voleva la prof, senza discordare troppo dalla sua opinione, senza sbilanciarsi troppo. E nei temi di attualità non bisognava mai far trasparire di non essere cattolica, di essere così dannatamente di sinistra, di pensare che in fondo non ci fosse nulla di male in qualche canna e nel buon vino…Al liceo non credo di avere mai scritto come mi immaginavo a ventidue anni.

Ora.

Ventidue.

Studio teatro, recito, quando riesco ad autoprodurre uno spettacolo, do pochi esami e controvoglia, faccio qualche lavoretto se capita, sono stata molto innamorata, ma mi è andata male, ora non mi innamoro più.

Di gatti ne ho soltanto una, vecchia, dolce e pestifera, vivo con mia mamma e se torno tardi la trovo in lacrime.

Ho smesso di cantare, scrivo sempre di meno, in compenso bevo sempre di più e non sono diventata magra come sognavo, ma adesso se mi mettessero il cartello ‘bambina obesa’ so che ho un sinistro micidiale. Ho viaggiato, mi sono innamorata di campagne verdi e umide sotto il vento irlandese, di un teatro magico sul Tamigi, del tramonto d’oro di Istambul.

Ho qualche amico, ma sempre di meno, e ogni giorno mi sveglio e ho paura di ritrovarmi sola.

 

Ogni tanto penso alla bambina che faceva dei bellissimi temi, e che faceva tanto sognare i suoi genitori con prospettive di un futuro brillante e dal fondo della mia banalità non so fare altro che dirle che mi dispiace di averla delusa.

 

 

 

 

 

 

Salsedine

 

Il vento le camminava a fianco, sugli scogli, sulla sabbia scura per la pioggia, le teneva compagnia come un vecchio amico e giocava con i suoi capelli che sapevano di sale.

I rumori dell’ Aurelia restavano al di là del pendio dove Mauro, il bagnino, d’estate sistemava le cabine di legno chiaro.

Gli anfibi affondavano nella sabbia bagnata lasciando pesanti, geometriche, innaturali orme a segnare il suo percorso lungo la riva, la stessa da tanti anni, la stessa di tante estati pacifiche e umide sotto la tettoia di tela cerata verde.

“E così l’ hai fatto alla fine, e ci hai lasciato tutti muti, attoniti, senza spiegazione se non questo buio blu, mutevole come solo tu potevi essere… E d’altra parte eravate uno, da sempre, forse perché i tuoi occhi avevano lo stesso suo colore, forse perché solo questo mare sapeva capirti… Ma ora non sa cantare per me, non ha spiegazioni…”

Le rocce appuntite ogni tanto la facevano inciampare e il cappotto nero s’inzuppava lentamente di pioggia gelida, poteva essere solo il 21 dicembre… I capelli le ricadevano a ciocche sul viso e quelle che le bagnavano le guance lucide e le facevano colare i trucco scuro non erano lacrime, ma gocce di una pioggia salmastra e familiare come l’incresparsi bianco delle onde sugli scogli.

Camminava verso la Buca dei Corvi guardando il mare, senza controllare dove metteva i piedi… Quante volte aveva fatto quella strada a piedi nudi ,da bambina, per giocare in un posto proibito dagli adulti o da più grande, con lui, per trovare un posto al loro amore e parlare per ore sulle rocce marroni e secche a picco sul blu, disturbai solo dalle grida di gabbiani in picchiata.

“Io sono una fata del mare.” Aveva detto una volta “Potrei vivere qui senza sentire ne fame ne sete, basterebbe solo crederci.” Lui la guardava facendo tintinnare le centinaia di conchiglie raccolte in quel sacchetto per i suoi quadrighe parlavano, suonando, di scrosci bianchi e blu.

“Già, sei una fata del mare davvero, e davvero potresti viverci…Ed io potrei morirci. Non conosco altra tomba che potrei desiderare di più…”

Lei lo aveva fatto tacere, perché odiava sentirlo parlare di morte e aveva sentito sulle sue dita la superficie umida e ruvida delle sue labbra pallide. Ora ripensava a quel momento come ad un monito che non aveva saputo cogliere.

Alzò gli occhi verso la scogliera imponente con la sua cascata gelida e cristallina a picco sulla tumultuosa massa d’acqua, salì più in alto, sugli scogli, fino a dove era possibile, da dove lui le aveva insegnato a tuffarsi evitando gli scogli, da dove il cielo grigio sembrava solo un pallido riflesso del, suo fratello color cobalto, da dove lui due giorni prima si era gettato, rimbalzando volutamente sulle rocce appuntite, tingendo di rosso le acque e gli scogli tutti intorno in un muto abbandono agonizzante ed estatico.

Appoggiò il cappotto nero sulle rocce, si spogliò rimanendo coperta solo della sua pelle ambrata da fata del mare, tolse gli anfibi coperti di sabbia…

Per un attimo fissò le gocce caderle sugli occhi, poi le onde furiose attorcigliarsi, scontrarsi, contorcersi e in un secondo fu nell’aria gelida e umida, come un gabbiano folle, lunga forma chiara contro il cielo livido, gambe strette e braccia a volo d’angelo, e poi giù, verso il suo, il loro, padrone di sempre, fino a sentirne l’impatto violentissimo, tagliente, come sempre, ma questa volta gelido, oberato di una responsabilità che non voleva avere.

Quando riemerse, qualcuno le porgeva i vestiti, interrompendo il suo dialogo solitario:

“Sei impazzita!?”

“Non guardarmi Filo, girati.”

“Vestiti che ti porto all’ospedale…”

“Non ci vengo…Sto bene.”

“Cosa credevi di fare, eh?”

“Dirgli addio…Con un bacio.”

 

 

 

Il blocco

 

Mi prende la voglia, pizzicorino leggero alle dita e lì, proprio dietro, alla base del collo…La testa comincia a divagare su  quell’idea, non ascolto più nulla, non dico più un cosa sensata che sia una…Corro!

Lo sfondo nero con quella foto, l’ho messo ieri, Dai apriti! Apriti Word! Che ho le idee in subbuglio!

E si apre, finalmente, sì, nuovo documento, sì! SI’!

No.

Blocco?

Blocco.

All’improvviso c’è un silenzio qui…

All’improvviso fa così freddo.

E questo foglio, fatto di pixel tutti bianchi, mi guarda e mi ride in faccia.

Lo so cosa devo scrivere, lo so! Ma non so più come…Non so più perché, e questo è peggio.

Sforzati, diceva la prof di lettere al liceo, non puoi sperare che tutto ti venga sempre di getto, devi imparare un po’ di disciplina. Fai un’ora almeno, tutti giorni, e sforzati di scrivere qualcosa, tutti i giorni…No, non bastano quei chilometri di diario che scrivi invece di seguire le mie lezioni! Esercizio, disciplina…Sforzati. Non mi puoi scrivere un romanzo in una settimana e poi mollare tutto lì per due mesi! Sforzati!

Con tutto questo sforzo la testa mi sta scoppiando e magari una sigaretta non è l’ideale, ma mi va, ne ho voglia.

Accendino, lampo, fumo...Chissà come gode il monitor…Mi ci vorranno i tergicristalli se continuo così!

Sforzati fa la vocina della prof nella mia testa…Va bene, adesso ci provo…

E mi sforzo.

E lo faccio: inizio…Ma mi fa schifo.

Cancello.

Ricomincio, ma è peggio di prima…Allora comincio a scrivere questo e intanto mi dico…Il blocco dello scrittore, che puttanata!

Blocco, balocco, trastullo…Qualcuno che conosco lo definirebbe un estremo atto di onanismo mentale…Ma con termini meno aulici.

Ed è esattamente quello che è.

Un foglio bianco, la storia che piano piano sbiadisce, la tastiera che rimane silenziosa, e la sigaretta è finita.

Fine del tentativo.

 

 

 

Bologna è una vecchia Signora

 

 

“Bologna è una vecchia signora, dai fianchi un po’ molli…”

 

Io gliel’ho sempre detto, anche quando preparavamo insieme il provino, sempre detto io…

 

Alla fine, se a Bologna ci nasci, va finire che Lei ti marchia.

E’ una cosa complicata staccarsi da Bologna, complicatissima, ti resta addosso appiccicata, o forse sei tu che ti appiccichi a lei e ci stai comodo, forse anche un po’ troppo per non avere quel sottilissimo senso di colpa…Che però poi scompare subito, sai?

Qui tutto va molto più lento, quasi flemmatico, o almeno così mi dicono quelli che vengono da fuori, quelli che arrivano a Bologna e che si sentono come se all’improvviso qualcuno avesse tirato il freno a mano. Io non me ne sono mai accorta.

Ci sono quelle mattine in cui l’aria è elettrica e sai che pioverà e tutte le strade sembrano affogate in un misto di ossigeno, smog e adrenalina. La respiri proprio l’adrenalina, la gente diventa nervosa, in macchina, e sui viali i clacson fanno smadonnare il nonnino che spinge la bicicletta sulle strisce nel tentativo di farsi tirare sotto…A me invece fa impazzire, tutto si accende di una specie di sospetto, tutti i mattoni rossi, tutte le torri stanno come all’erta e la gente cammina guardando in su e ti pare di sentirli pensare “Socc…Ma viene o non viene?”

 

“Bologna per me provinciale, Parigi minore, mercati all’aperto, bistrots, della rive gauche l’odore…”

 

Verso le cinque e mezzo, soprattutto a primavera, scoppia il popolo dell’aperitivo. Eh, d’inverno mica li vedi, stanno chiusi dentro alle Stanze, con i soffitti affrescati, a prendere un the o un Martini prolungando un tardo pomeriggio in attesa delle tartine da assalire per il gusto magnifico di qualcosa di gratuito.

A primavera si apre la stagione dei tavolini, saltano fuori come funghi e anche il Bar Dello Sport (un qualsiasi bar dello sport, uno a caso) li mette fuori, magari con gli ombrelloni per salvarti dalle prime gocce di pioggia che immancabilmente vengono giù finché non è proprio estate.

Anche noi, quanto tempo abbiamo speso su quelle sedie di metallo in piazza, sotto l’arco di pietra di palazzo Re Enzo a sognare il futuro che si avvicinava? Io sempre il Martini o un bicchiere di vino, tu magari il Porto o un Montenegro e intorno a noi centinaia di tavolini, in centinaia di piazze, sotto a centinaia di portici, persi in centinaia di viuzze.

Quelle vie dove l’acqua fa delle pozzanghere piccolissime, ma micidiali, tra un cubetto di porfido e l’altro, quelle chiuse al traffico, in cui camminare di notte ubriachi.

Quelle vie con i portici piccoli e bassi e il rumore dei canali che scorrono e fanno sentire la loro voce, per poi sorprenderti da una finestrella con un angolo quasi veneziano.

Le strade del ghetto, strette in un abbraccio di intonaco giallo e lavori in corso, poi giri l’angolo e ti rendi conto che sei già sotto le due torri.

 E guarda che io a Bologna ci vivo da sempre e tutte le santissime volte sbaglio sempre strada e non sbuco mai dove dovrei…E quando ero piccola il fatto che ci fosse una strada che si chiamasse via dell’Inferno era una cosa misteriosa e affascinante.

 

“Però che Boheme confortevole, giocata tra case e osterie, quando ad ogni bicchiere rimbalzano le filosofie…”

 

Via del Pratello, che la sera diventa un borgo medievale, un passo, un pub, tre passi, un’osteria, dieci passi, pizzeria, tre passi, altra osteria. Quanto ci siamo stati bene dal Sardo? A preoccuparsi che il mirto fosse un po’ toppo calorico, poi a riderci sopra e a fregarsene delle calorie e dell’ora inverosimile, davanti ad un bicchiere scuro e liquoroso. Penso che delle volte avremmo dovuto registrarci e scrivere qualcosa su quel che si diceva, io, tu, il Granrivoluzionario, gli altri…Quanti sogni abbiamo sfiorato, assaporato, creato, da quei tavoli di legno scuro? Che poi son sempre quelli, sia in via del Pratello, sia al Borgonuovo, alle quattro e mezza del mattino mangiare il tris di primi, che il fegato ti odia, ma il tuo umore migliora notevolmente.

E noi a raccontarci che sarebbe sempre stata così, le notti che sembrano cortissime, i giorni eterni e placidi, camminare sulle pietre scomode di piazza S.Stefano per arrivare a sedersi sotto al portico e sentire quei dannati uccellini che cantano anche alle tre di notte.

 

“Bologna è una vecchia signora che fu contadina, benessere, ville e gioielli e salami in vetrina…”

 

Quell’aria da fighetti nati e da Marine Ripa di Meana che ha la gente, i villoni, Galleria Cavour con più polizia e sorveglianti di un carcere di massima sicurezza, che se butti una cartaccia hai paura che ti arrestino. E invece basta sembrare strafighi e spocchiosi, tutta una questione di atteggiamento e nessuno ti viene a dire niente anche se picchi una vecchietta. Che tanto poi qui la gente ha una predisposizione particolare a girarsi dall’altra parte e quando chiamo l’ambulanza per il solito tossico in overdose sotto il mio portone mi guardano come se fossi matta…

Quanto ci guardavano male, a te e a me, truccati come incubi, svestiti come strani rifiuti da marciapiede, lo sguardo torvo per spaventare la signora impellicciata nel tardo pomeriggio, e poi, appena si voltava, guardarci e sorridere, per poi continuare a camminare.

La gente con i macchinoni di lusso che parcheggia in tripla fila, le bellone con i tacchi che annaspano proprio su quelle pietre irregolari davanti alle Settechiese. Magari vengono dal locale figo, dalla discoteca esclusiva, ed io che qua ci sto da sempre, nemmeno so dove siano o se ci siano posti così in questa Bologna…Quella Bologna, perché la mia è un’altra, è il mercato vecchio con i suoi saliscendi, certe vetrine solo da guardare. Ti ricordi? C’erano quei pantaloni bruttissimi che costavano tredici milioni! E quel bracciale che era solo una striscia di pelle e il signor Gucci ti chiedeva quattrocento mila lire. Noi passavamo, riscaldati dal vino o dalla poesia e io avevo gli anfibi con i buchi  e nei tuoi la suola si staccava.

 

“Bologna è una strana signora, volgare matrona, 
Bologna bambina per bene,     Bologna "busona", 
Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto, 
rimorso per quel che m' hai dato, che è quasi ricordo,

e in odor di passato...”

 

Io non posso farci niente, la adoro,  la mattina presto quando tornavo a casa in bici e la ‘guazza’ delle 6.00 mi riempiva i polmoni, la sera all’ora di cena, quando via della Grada risuona di televisori e stoviglie, amo i goliardi ubriachi, amo i postini che chiedono “Mi da il tiro?” e la faccia di chi è a Bologna da poco e non capisce cos’è che vuole quello.

Amo le strade vicino a dove stavi tu, i cancelli, i cortili nascosti, i colli così vicini, il fiume a un tiro di schioppo per farci il bagno di notte, i miei matti, i miei autobus.

Amo i nostri angoli segreti, pieni di incanti che forse solo noi sappiamo cogliere, i moncherini delle torri, gli archi della vecchia cinta muraria, le strade in salita senza motivo apparente.

 

Te l’ ho detto un sacco di volte, anche prima di sapere che quel provino non l’avrei passato, per me casa è qui…No, mica qui da dove scrivo adesso, dico la fuori, dico le strade, la cinta dei viali come un abbraccio d’asfalto con il cuore in dodici porte, dico  le piccole magie nascoste tra i muri, tra la

storia, dico quel parco  che è quasi un bosco per davvero e in cui abbiamo piazzato la nostra Avalon, dico qui fuori.

Dico Bologna.

 

 

 

 

 

Le prove

 

Un momento magico, la scintilla d’inizio di opere d’arte, grandi istanti di comunione artistica e psicologica, ma soprattutto, un catalizzatore di sfighe.

Ecco che cos’è una prova teatrale, catalizza imprevisti e contrattempi di qualsiasi genere, a coppie, in quartetti bene assortiti, arrivano ballando come un Can Can, sorridenti, le signore di ogni prova teatrale! Le sfighe!

Eh, beh, c’è sempre qualcuno che perde l’autobus, quell’altro perde il treno, una ha la febbre, un’altra il mal di denti, poi ci sono parenti, amici, fidanzati, che possono stare male, avere bisogno, necessitare di immediato intervento di chi invece dovrebbe trovarsi a ripetere quella scena un’altra volta…

Frustranti, le prove teatrali poi sono frustranti, il sonno, i problemi quotidiani, il mal di testa, regnano sovrani, e non crediate che i mal di testa che sbocciano durante le prove siano comuni cefalee, emicranie qualsiasi! No, durante la ventesima ripetizione della stessa scena, la tua testa comincia a fare le valige, tre minuti dopo ti ha salutato con una martellata e se ne è andata chissà dove, lasciandoti in compagnia di tutti Les Tambours Du Bronx al completo. Gli occhi si annebbiano e ti sembra che ogni voce, anche quella di chi facevi fatica a sentire un secondo prima, sia insopportabilmente penetrante, la nausea ti assale e se proprio vogliamo dirla tutta, spesso a me si tappa pure il naso.

Spesso te ne stai lì, come un imbecille, a guardare altri ripetere per due ore la stessa scena, osservi la loro inesorabile caduta verso lo sconforto, leggi nei loro sguardi opinioni, poco compatibili con la coesistenza, nei riguardi del regista e dei colleghi.

“Se me la fa ripetere ancora io…”

“Ma non ce la fai?Cosa sei, cretino?!

“Dai, dai, dai, dai…non è difficile, muoviti, dì quella cazzo di battuta!”

“Oddio…vi prego, vi prego…basta!”

 

Ah, il sacro fuoco!

Poi naturalmente tu, dentro di te, insulti il prossimo, cosciente o meno del fatto che il prossimo sta facendo lo stesso, ma pubblicamente lo lodi e sorridi, e sei semplicemente un amore.

Poi ci sono le sigarette…Credo che il cinquanta per cento delle persone che sono sia attori che fumatori abbiano cominciato durante le prove di uno spettacolo. E chi non fuma mangia una mela, un’arancia, si spara dieci gocce di erisimo, ripete la parte (i più zelanti) qualcuno riesce persino a dormire, io sinceramente lo invidio.

 

E alla fine, quando ormai è notte fonda e tu hai passato ore a spostare sedie, ripetere frasi, slogarti parti del corpo, ingurgitare analgesici, te ne esci e il mondo ti sbatte in faccia. Magari vuoi andare a bere qualcosa, vuoi dormire o vuoi fare una passeggiata, poi  finisce sempre che si va al pub lì accanto, due chiacchiere, si mangia e poi di corsa a casa, che domani è un altro giorno, diceva una di cui quell’altro s’infischiava e che abitava in un posto, tra il peso netto e quello lordo.