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BOITO ARRIGO maestro e ... amante
 

«Del primo incontro fra la Duse e Boito si conosce la data: 14 maggio 1884. Esso avvenne al ristorante Cova di Milano, durante una cena offerta alla Duse da un gruppo di frequentatori del teatro Carcano, dove la sera avanti l'attrice era stata applauditissima nella "Signora delle camelie", prescelta per la sua serata d'onore.

Eleonora Duse (1884)

A mensa la Duse sedeva fra Gaetano Negri e Arrigo Boito. Di fronte a lei stavano Cesare Rossi, suo capocomico, e Flavio Andò, primo attore della compagnia. Intorno, fra i frequentatori più assidui della stagione teatrale, Giovanni Verga (del quale a Torino nel precedente gennaio la Duse aveva portato al successo "Cavalleria rusticana"), Eugenio Torelli Viollier, Giovanni Pozza e lo scrittore Luigi Gualdo con il quale la Duse avrebbe stabilito una duratura amicizia.

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Arrigo Boito

La cronaca della serata indugia sul fascino della donna e sulla grazia da essa dimostrata a cena finita passando da ospite a ospite. Di quella grazia e di quel fascino è rimasta traccia anche nella prima lettera indirizzata da Boito alla Duse il 25 maggio, tre giorni dopo la conclusione della stagione al Careano: "Voi siete partita e il filo s'è rotto e noi siamo caduti tutti per terra, Verga, Gualdo ed io, col naso sul pavimento",  l'inizio di una schermaglia epistolare tutto sommato galante che si protrarrà nei mesi successivi.

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Arrigo Boito e Giuseppe Giacosa

Si può supporre che fra il 15 e il 21 maggio Boito e la Duse si siano incontrati altre volte, magari presente il marito di lei, "il cavalier Checchi", al quale nelle prime lettere Boito non dimentica mai di rivolgere un saluto, e del quale la Duse, sposata da due anni, aveva assunto il cognome aggiungendolo al proprio: Eleonora Duse Checchi, è firmata la sua prima lettera. E’ invece certo che nei mesi successivi Boito si incontrò con la Duse, suo marito, Verga, Gualdo, Piero e Giuseppe Giacosa nel Canavese, dove la Duse era andata a curarsi in seguito a un sospetto di  tubercolosi polmonare ( ... ) di tali incontri è rimasta una traccia prevalentemente mondana. La galanteria, se galanteria ci fu, rimase entro limiti ristretti». (Raul Radice, Eleonora Duse – Arrigo Boito: lettere d’amore, Milano, Il Saggiatore, 1979)

Teobaldo Checchi

Eleonora nel 1888

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Giuseppe Verdi

Arrigo Boito è allora legato ad una donna di cui oggi è certo solo il nome: Fanny, donna bellissima ma di salute assai fragile.

Alla fine dell'anno comico 1886-87, Eleonora lascia la compagnia di Cesare Rossi per diventare capocomico con propria formazione, la Compagnia drammatica della Città di Roma, ed è proprio nel 1987 che esplode la passione: lei ha 28 anni, lui 45.

Di lui in seguito l'attrice dirà anche « ... mi aveva fatto per primo conoscere il caviale... In sulle prime mi era parso orribile - non l'uomo, ma il cibo - poi ero diventata pazza dell'uno e dell'altro». (Antonietta Drago, I furiosi amori dell’ottocento, Milano, Longanesi ,1969)

«  ... quando già fra lei e Flavio i sentimenti andavano in sfacelo, un senso di grande ammirazione attraversata da slanci amorosi abbondantemente ricambiati la sospingeva verso Arrigo Boito, musicista e poeta, un gran signore che divenne la sua guida spirituale e l'indirizzò verso mete sempre più alte e difficili che l'attore siciliano nonostante il talento e il naturale ardore non sarebbe stato mai capace non diciamo di raggiungere, quanto d'intravedere. Eleonora chiamava perciò Arrigo "il filo rosso della mia esistenza", un filo elastico però, che non le impediva di andare, venire, tradire e riconciliarsi, fissato per un capo alla tastiera del pianoforte, al piede della scrivania, tenendola né libera né impegnata. Il compositore lavorava con lodevole perseveranza al Nerone, l'opera che gli sarebbe costata un trentennio di fatiche, per nulla scosso dal memorabile fiasco riportato dal suo Mefistofele alla Scala. Non era bello, non era bête, e da lui Eleonora imparò molte cose "ideali", ottima preparazione per accogliere poi l'arcangelo Gabriele, da lui essa prese gusto alla lettura e a postillare i libri importanti che andava leggendo dietro il suo consiglio. Soprattutto fu votata a non aver più pace, una smania ignorata da lei che fino allora non aveva avuto problemi.

Flavio Andò (1884)

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"La Scala" di Milano

A non aver più pace per tante ragioni, la prima delle quali dipendeva dal fatto che Arrigo aveva finito col persuaderla che in arte non basta l'istinto e che bisogna studiare. E a questo proposito qualcuno ha spiegato che resa tutt'a un tratto consapevole della inutilità di dire tante parole inutili per arrivare finalmente a una parola essenziale, a un gesto di vita, Eleonora soffriva come per mille morti, e trascorrendo intere stagioni tra l'infinito del cielo e del mare a meditare e studiare, formulava in se stessa il fermo proposito lapalissiano di uscire vittoriosa dalla lotta o di darsi per vinta.

Ciò dicendo batteva i piedi come una bambina cocciuta, stringeva le mani della persona alla quale si confidava, e cercando di comunicarle la stessa febbre che la consumava ansimava: "Shakespeare... Shakespeare... mio Dio... Che disgrazia non averlo studiato prima [ ... ].  Quel Sardou... Mio Dio, come odio quel Sardou!... - gemeva ingrata - Mi pareva d'impazzire fra quella stoppa e quella cartapesta [ ... ] Voglio Shakespeare! in carne ed ossa; e vene, sottili e gonfie, di sangue nobile e sano. Via rispondetemi e siate buono, come me, che lo sono, buona e riconoscente".

Eleonora come Cleopatra (1888)

Non si trattava di una poesia come a qualcuno potrebbe venire in mente di sospettare ma semplicemente di una lettera a Jarro, il quale aveva promesso dì tradurre espressamente per lei Romeo e Giulietta.  Per questa voglia matta che s'era impossessata di lei di staccarsi dal repertorio comune per dedicarsi a Shakespeare e a Ibsen, aveva finito col rinnegare anche il buon Dumas con le opere del quale aveva saputo innalzarsi fino a essere paragonata a Sarah Bernhardt, alla Desclée dei tempi migliori [ ... ] .

Ma a quel tempo la vita teatrale offriva agli attori molte risorse o libertà negate ferocemente invece ai compositori, ed era pur sfortunata Eleonora d'imbattersi ogni volta in uomini terribilmente imbarazzati da questioni di stato civile e di natura esitante. Avrebbe voluto che Boito abbandonasse ogni altra cura per dedicarsi a lei, seguirla nelle sue peregrinazioni, sacrificando unicamente a lei e transitoriamente al Nerone l'austera sua esistenza. Ma, o ch'egli fosse restio a muoversi da casa sua, da Milano, o non volesse procurare alla moglie [ ?? ] un dolore che avrebbe potuto riuscire mortale, sta di fatto che la sua riluttanza a prendere una qualsiasi decisione segnò la fine, la rottura del sentimento che lo legava ad Eleonora» (Antonietta Drago, I furiosi amori dell’ottocento, Milano, Longanesi ,1969) 

« ... è certo che in Boito la Duse cercava anche un uomo che la dirigesse, una causa cui dedicarsi, un poeta cui legare il suo nome. A ciò la induceva la certezza angosciosa ... che l'arte dell'attore per quanto alta, non ha autonomia e non sopravvive a se stessa:  "Per me - non esiste che qualche attimo, nel momento immediato del lavoro - una frase - un pensiero che rendo - lo so - come meglio non è possibile renderlo - ma sfumata la parola stessa - amen - un pugno di mosche! [Eleonora Duse ad Arrigo Boito, Barcellona il 17 novembre 1890] ... Ma Boito non era quell'uomo.

Nel 1887, a 45 anni, Arrigo Boito, dopo il grande éxploit del Melistofele, aveva esaurito la sua spinta creativa, come anche la sua verve polemica: impantanato senza speranza nella trama di quello che avrebbe dovuto essere i suo opus magnum, il "Nerone", si veniva adattando al mestiere di librettista, e anzi, per Verdi, di librettista riduttore, in una doppia subordinazione al musicista e all'autore del testo originale.

 

il grande "basso" russo  Feodor Chaliapin nel "Mefistofele" di Boito

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...  sembrerebbe l'ideale per una grande attrice [...] : un funzionario colto e intelligente, che le preparasse la trama letteraria su temi non ignobili, lasciandole poi il compito di riempirla, questa trama, con la forza della propria intuizione di attrice.

Ma invece Eleonora non aveva bisogno di un funzionario: i suoi funzionari li aveva già, e si chiamavano Alexandre Dumas, Victorien Sardou, Meilbac e Halévy. Il guaio era che la annoiavano –  "Sardou non è arte"  -   "Quel Dumas - mi è diventato odioso, anche lui". Voleva essere lei funzione di un poeta, profeta di una divinità in cui si potesse credere. Perciò il suo uomo sarà D'Annunzio» (Cesare Molinari, L'attrice divina, Roma, Bulzoni, 1985)

su Arrigo

un moderno caso di effetto

"pigmalione" ovvero: 

Miller & Monroe

ll carteggio "Duse - Boito