5. UTERO IN DONO

 

1) Con la sentenza del 14 febbraio 2000 della giudice Chiara Schettini (Pretura presso il Tribunale di Roma), per la prima volta in Italia, è stato autorizzato un procedimento di fecondazione assistita con uso di embrione congelato, mediante la maternità surrogata.

La realtà concreta espone il caso di una paziente affetta dalla sindrome di Rokitansky Kuster. È, questa, una patologia che colpisce l’apparato genitale femminile, determinando una malformazione che impossibilita il compimento della gravidanza. Nel caso in esame, nella paziente non era preclusa la capacità di produrre ovociti (gli elementi cellulari germinali femminili).

Nei primi mesi del 1995, gli ovociti furono fecondati in provetta. In attesa di una donatrice, gli embrioni furono congelati (il procedimento, per la precisione, si chiama crio-conservazione).

Nel 1999, è intervenuta la disponibilità di una amica della paziente a fungere come madre surrogata, attraverso l'impianto degli embrioni crio-conservati.

Il ginecologo interpellato per l'effettuazione dell'impianto, in virtù del codice deontologico, subentrato il 25 giugno 1995, oppone un rifiuto, vietando l'art. 41 di detto codice le pratiche di maternità surrogata.

La coppia si è rivolta, allora, all'Autorità giudiziaria, con la richiesta del conferimento dell'autorizzazione al ginecologo a trasferire gli embrioni crio-conservati nell'utero della amica resasi disponibile. La richiesta è stata accolta con la sentenza del 14 febbraio 2000, di cui si è detto all'inizio.

Come era facile immaginare, la sentenza ha suscitato un vespaio di polemiche.

Tra gli interventi più duri è da annoverare quello della ministra della Sanità Rosy Bindi (Ppi) che l'1 marzo, durante il "question time" della camera dedicato alle interrogazioni sull'argomento, ha giudicato la sentenza in contrasto con le leggi vigenti.

Forza Italia, Alleanza Nazionale, Ccd, Udeur e Popolari hanno considerato la sentenza "aberrante" e "permissiva".

La sinistra, fatta qualche sporadica eccezione, ha preferito tacere, ritenendo presumibilmente la materia troppo scottante, vista la prossimità delle scadenze elettorali amministrative.

Il 9 marzo la Procura di Roma, richiamandosi all'art. 669 cpc che regola i provvedimenti cautelari di urgenza, ha depositato un ricorso contro la sentenza della giudice Chiara Schettini, richiedendone, altresì, la sospensione dell'esecutività, in attesa della pronuncia di un collegio del Tribunale civile.

Questi, stringatamente, i fatti.

Al solito, la polemica politica ha fatto velo sulla complessità e delicatezza della questione, mettendo in scena fondamentalismi ideologici e religiosi polarmente distanti dalle problematiche etiche, culturali e sociali aperte dalle società altamente differenziate ed evolute. Ora, sotto tutte le latitudini e su tutti i temi possibili della discussione pubblica e della ricerca teorico-etico-scientifica, i fondamentalismi sono una delle più cupe modalità di espressione di pensiero accecante, invariabilmente e implacabilmente paralizzato nelle strettoie dell'agire liberticida.

Nelle società globali contemporanee il progresso dei saperi e delle tecnologie ha una ricaduta istantanea e destrutturante, come mai in passato, sul costume, sugli stili di vita e sulle opzioni etiche. Di fronte a scenari fantascientifici, fino a qualche anno fa letteralmente impensabili, ma ora realtà prossima, se non quotidiana, occorre saper mantenere equilibrio di valutazione. In primo piano va sempre posta l'emancipazione della vita umana da ogni forma di schiavitù ideologico-teologica e da ogni limitazione che mutili l'integrità e il diritto alla felicità del singolo e della collettività.

La sentenza della giudice Chiara Schettini si è mossa con equilibrio in una materia così complessa; le forze politiche, invece, hanno agito con la classica delicatezza dell'elefante in cristalleria.

Cercheremo nei successivi punti di riflettere intorno agli elementi cruciali sollevati dalla questione.

 

2) Opportunamente, in premessa, la sentenza ricorda che il caso implica tematiche di assoluta rilevanza medica, etica, filosofica, religiosa e giuridica. Per quel che concerne il campo delle implicazioni giuridiche, stante la mancanza di una legislazione ad hoc sulla procreazione artificiale, la sentenza precisa subito che l'errore in cui la giurisprudenza dovrebbe evitare di incorrere è quello di "utilizzare modelli normativi inadeguati e superati rispetto alle evoluzioni che si sono venute a determinare in campo genetico conseguenzialmente ai rivoluzionari progressi della medicina, non sfuggendo al pericolo di decisioni arbitrarie e contrastanti con grave pregiudizio per l’evoluzione e la certezza del diritto".

Ecco il punto: non occorre sottrarsi al pericolo del rischio di "decisioni arbitrarie". E il rischio va affrontato per la rilevanza delle questioni in gioco, assolutamente non approcciabili con "modelli normativi inadeguati e superati" nei confronti delle trasformazioni intervenute nella realtà sociale e in tutti gli ambiti del sapere, in particolare modo nel campo genetico.

La giurisprudenza italiana, per solito, non ha esitato — e non esita — a indulgere in decisioni creative dal punto di vista normativo. Laddove si trattava — e si tratta — di comprimere le sfere dei diritti e delle garanzie, la giurisprudenza emergenzialista, affermatisi dalla fine degli anni '70 a tutti i '90 e ancora largamente in auge, puntualmente è stata — ed è — una giurisprudenza creativa ed extranormativa per antonomasia. Al contrario, ogni qualvolta è stata — ed è — in ballo l'indifferibile esigenza dell'allargamento dell'area dei diritti e delle libertà, si è scoperta — e si scopre — puntualmente asseverativa e ultranormativa.

Uno dei primi nodi intorno cui riflettere è che la procreazione artificiale, consentita dagli sbalorditivi progressi della genetica, ci pone di fronte ad un evento tremendamente nuovo: l'indipendenza della nascita dall'accoppiamento sessuale uomo/donna. L'essere madre e padre non passa più esclusivamente per l'atto sessuale che, così, perde la funzione finalistico-redimente attribuitagli dell'etica cattolica. L'atto sessuale è legittimo ed ha valore, secondo quest'etica, soltanto se è finalizzato alla procreazione; non già e non mai in sé e per sé, quale comunione di due esseri alteri che si incontrano, fondono e rifondano senza perdere la propria/e annullare l'altrui identità.

Di più. Per l'etica cattolica, la finalizzazione dell'accoppiamento sessuale alla procreazione fa sì che esso sia legittimo soltanto in ambito matrimoniale. Così stando le cose, i soggetti legittimati all'atto sessuale sono solo marito e moglie e lo sono esclusivamente se subordinano l'atto al fine superiore della riproduzione della specie.

I dilemmi etico-esistenziali che hanno accompagnato la procreazione artificiale hanno fatto vacillare dalle fondamenta tale costruzione ideologico-finalistica, disvelandone sia il riduzionistico apparato teologico-teleologico che la pretesa di ingessare con il fondamentalismo religioso il corpo della società politica e civile, strozzando in radice il repertorio delle opzioni individuali della libertà di scelta.

Sgombrato il campo dai fondamentalismi, l'interrogativo estremo a cui fornire risposte sensate è il seguente: è giusto limitare la possibilità di scelta e il diritto ad essere padre-e-madre, di fronte ad una patologia medica sanabile con un intervento di natura genetica?

Ancora più al fondo: le tecnologie genetiche, ove modifichino radicalmente l'atto del concepimento e della gestazione sono, per ciò stesso, dichiarabili immorali? Se, per esempio, in un futuro prossimo la procreazione non dovesse più passare per l'utero femminile, ma per una gestante artificiale, si potrebbe, per ciò stesso, parlare di atto immorale?

Si tratta di interrogativi, certamente, inquietanti. Le ipotesi che essi adombrano vanno assunte come situazioni limite e, nel contempo, costituiscono un futuribile concreto che modifica radicalmente il modo con cui gli esseri umani hanno finora pensato e organizzato la vita.

Allora, tematiche estreme di questo genere vanno affrontate con grande delicatezza, senza rigurgiti fondamentalistici e fanatismi scientisti.

Quello che rimane certo è che già oggi le tecnologie genetiche consentono di pensare il passaggio a forme superiori di vita, in cui l'esperienza del dolore fisico, della sofferenza morale, della felicità e della libertà sia affrancata dai limiti intorno cui l'esistenza umana è stata finora schiacciata. Intorno a questo discrimine esse vanno misurate e vagliate, prendendo le distanze sia dall'oscurantistico armamentario dei fondamentalismi che dalle algide enfasi della tecnologizzazione della vita umano-sociale.

 

3) Il presupposto da cui muove la sentenza della giudice Chiara Schettini è che a nessuno "può essere interdetta la possibilità di avere figli". Ove questo diritto sia inibito da patologie naturali, è legittimo ricorrere a interventi artificiali. L'impianto degli embrioni congelati nell'utero donato dall'amica si rivela il mezzo conforme al fine.

Degno di tutela primaria, fa osservare la sentenza, è il diritto di diventare genitori; che è diritto fondamentale della persona, in considerazione anche del fatto che lo status genitoriale può costituire una dimensione rilevante dell'autorealizzazione personale.

Dalla "locazione d'utero", così, realizzata si genera una maternità surrogata, a fronte della quale il concetto/situazione di maternità si sdoppia tra "madre genetica" e "madre gestante". Ed è qui che l'antropologia genitoriale salta in aria; in particolare, saltano gli archetipi e stereotipi culturali della maternità.

La sentenza è perfettamente consapevole di questa circostanza: "Certo, la coincidenza tra maternità, gravidanza e parto è un costrutto fondamentale della nostra psicologia, e la figura di una madre genetica ma non gestante assume i contorni quasi di una paternità femminile che sembra contrastare con le stabili linee della concezione dei rapporti familiari e della procreazione. L’abbandono della legge naturale che vuole la donna-madre gestante e partoriente, che pure lascia intravedere la possibilità di riconoscere ad ogni donna il diritto di essere madre senza gravidanza, che in alcuni casi può rappresentare un pericolo per la salute, induce a ridefinire il fenomeno della maternità ridisegnandone i confini".

Ma fino a che punto possiamo parlare di legge naturale a proposito della riconducibilità ad un'unica figura materna degli atti del concepimento, della gestazione e del parto? E ancora più radicalmente: fino a che punto possiamo considerare legge naturale il radicarsi della gestazione nell'utero femminile? Tra qualche decennio o secolo non potrebbe essere perfettamente naturale che gestazione e parto siano il portato di una gestante artificiale? Che, quindi, la fecondazione/gestazione attraverso l'utero femminile sia ritenuta un reperto di epoche barbariche?

Quelli appena allusi in chiave critica sono costrutti culturali, ideologici ed antropologici delle società sessuate al maschile E dipendono — questi costrutti — anche dai limiti contro cui i saperi e le tecnologie vanno storicamente infrangendosi.

Gli stessi diritti naturali che hanno fondato il passaggio alle società moderne e, in gran parte, regolato la transizione verso le società contemporanee sono dei costrutti culturali e ideologici del giusnaturalismo (prima) e del contrattualismo illuminista (dopo).

Nelle comunità socio-umane, il concetto medesimo di natura è una rielaborazione culturale (mutevole) della natura e dei suoi fenomeni. La natura come noi la concepiamo, attraverso interpretazioni culturali, scientifiche e simboliche, non coincide con la natura così come è. Non a caso, nel succedersi delle epoche storiche si sono andate affermando concettualizzazioni e teorie mutevoli della natura, ognuna delle quali ha sempre finito, poi, col rivelare un più o meno elevato grado di fallacia.

Occorre, quindi, procedere con cautela e guardarsi dallo stabilire postulati universalistici e pseudo-naturalistici.

Chi è madre, allora?

Colei che partorisce, innanzitutto. Ma anche colei che ha assicurato per vie artificiali la fecondazione. Fecondazione artificiale e gestazione surrogata mettono meglio in luce che il diritto e la titolarità di madre prescindono dal diritto di proprietà sul feto; che essere madre è qualche cosa di più e di diverso dalla pretesa proprietaria sulla prole (1).

Questi effetti non sconvolgono tanto il "diritto naturale" quanto le culture possessive che intorno alla genitorialità e alla maternità sono state costruite nei secoli.

 

4) Formuliamo ora un interrogativo radicale: tra le due seguenti situazioni qual è quella più "innaturale": quella che prevede che un figlio sia possesso esclusivo della "madre genetica" oppure quella che prevede che sia amato e curato dalla "madre genetica" e dalla "madre gestante"?

L'impiantarsi del concetto di "maternità surrogata" è un motivo di riflessione ulteriore intorno al concetto di "maternità sociale", per allargare e arricchire le relazioni di amore e cura tra tutti gli esseri umani, a prescindere dai legami e dai vincoli di sangue,

È proprio questa concezione di "maternità sociale" a consentire una più puntuale traduzione del principio di "fratellanza universale". È proprio la "maternità sociale" a superare il limite sessista e maschilista del principio di "fratellanza universale" (del resto — e non a caso —, ben lungi dall'essere mai stato realizzato).

Il concetto tradizionale di madre: la donna che partorisce, assunto come unico possibile e, quindi, ritenuto apoditticamente "naturale", è qui ravvisabile in tutta la sua crisi e precarietà. Ne è ben consapevole la sentenza: "Le nuove tecniche di riproduzione mettono, peraltro, in crisi profonda tale concezione. Queste tecniche, che possono modificare la sequenza naturale dell’iter procreativo, fanno sì che partorisca colei che non è geneticamente madre. In alcuni paesi si sono cominciati a sperimentare dispositivi tecnologici, del tipo delle superincubatrici, per lo sviluppo dell’embrione, rendendo possibile che una nascita avvenga indipendentemente da una madre gestante: ed in tali casi come potrebbe mai non essere riconosciuta come madre quella genetica? Attraverso la tecnica della fecondazione in provetta è possibile che un embrione derivante dalla fecondazione di un ovulo sia impiantato nell’utero di un’altra donna dove si sviluppa e da cui si distacca al termine della gravidanza".

Ora, il superamento del costrutto culturale tradizionale di madre, oggi reso necessario dalle tecnologie della procreazione artificiale, consente che l'esperienza della maternità si affranchi dal rischio e dalla morte, a vario titolo incombenti sulla gestante affetta da patologie mediche e, conseguentemente, sul nascituro. Ancora: il passaggio possibile e già largamente avviato in via sperimentale verso gestanti artificiali recupera tutti i processi riguardanti la riproduzione della specie ad orizzonti di civiltà più evoluti, emancipati dal rischio, dal dolore fisico e dalla sofferenza morale, soprattutto per quel che riguarda le donne e la madre in particolare.

V'è, allora, la necessità di elaborare nuovi costrutti culturali di genitorialità e maternità, capaci di sostenere la sfida delle nuove opportunità consentite dal progresso delle tecnologie genetiche e, nello stesso tempo, idonei ad inserire queste stesse tecnologie ed i loro costrutti epistemologici in relazioni socio-umane più evolute, sottraendole alla autoreferenzialità scientista e tecnologista.

Il rapporto tra "madre genetica" e "madre gestante" apre un territorio relazionale ed affettivo nuovo, non necessariamente regolato dalla razionalità del calcolo e del lucro. Al contrario, è non solo auspicabile, ma anche fortemente possibile che la relazione "madre genetica"/"madre gestante" inauguri una dialettica sociale del dono e dell'amicizia.

Anche di questo è consapevole la sentenza: "... matura, nell’opinione pubblica più avvertita, il convincimento che il parto finisca per perdere la sua funzione rivelatrice rappresentando l’evento terminale di una complessa sequenza. Colei che partorisce può, quindi, essere colei che ha co-partecipato, mettendo a disposizione il proprio utero. E tale prestazione ben può essere testimonianza di solidarietà familiare, determinata cioè non da motivi di lucro ma dall’intento, degno di essere preso in considerazione e tutelato, di soddisfare il bisogno di maternità di una donna alla quale, per diversificati motivi, sarebbe invece negato. E il consenso finalizzato a tale risultato, concesso nel rispetto delle condizioni di vita e di salute della madre surrogata, non mosso da intenti speculativi, di commercializzazione, fondato sull’interesse di soddisfare esigenze che a volte trascendono la sfera individuale come può essere vietato aprioristicamente?".

Niente impedisce che la co-partecipazione al parto si prolunghi in co-partecipazione alla cura e all'educazione del neonato, nelle varie tappe della sua vita personale e sociale; anzi. Il concetto di cura e di educazione qui si allarga e, nel contempo, si riempie di una relazionalità socio-umana che fa perno sul dono e sulla generosità. Il coinvolgimento partecipato in universi relazionali unitari ruota qui intorno al principio dell'amicalità interessata: qui la "definizione degli interessi" sta esattamente nella corresponsabilizzazione verso obiettivi di vita condivisi e liberamente scelti.

È assai significativo — e non casuale — che questa dialettica del dono, della generosità e dell'amicalità si realizzi tra donne, attraverso la donazione dell'utero. Quasi a sigillare con maggiore forza espressiva e simbolica l'atto di un "inizio nuovo" dentro e contro le società sessuate al maschile.

Come è stato ricordato recentemente: "Nella maternità, si sa, la qualità del dono è fondamentale"(2). La donazione dell'utero è un plusdono: della donna all'altra donna; delle due donne al nascituro; delle due donne al padre; delle due donne alla società.

(marzo 2000)

Note

(1) In questa direzione, sinteticamente ed efficacemente, Un patto d'amore sottratto alla norma, "il manifesto", 5 marzo 2000; articolo anonimo.

(2) Ibidem.

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