6. MACERIE A SINISTRA.

DALLA DISFATTA DEL 16 APRILE AL GOVERNO AMATO

 

1) Se si analizza il voto del 16 aprile 2000, comparandolo a quello delle regionali del 1995, rimbalza in evidenza il calo di voti del Pds/Democratici di sinistra che passano da 5.854.899 (27,4%) a 4.485.939 (21,5%) e, in contraltare, il forte incremento di Forza Italia che passa da 5.875.261 (22,3%) a 6.449.899 (25,4%).

In ragione di queste risultanze, Forza Italia diviene il primo partito italiano e la coalizione di centrodestra (includendo i voti andati alla Lega) conquista la maggioranza assoluta dei voti, attestandosi al 50,7%.

Per il centrosinistra si è trattato di una sconfitta pesantissima, ma non per questo imprevedibile (anzi). Cercheremo qui, per sommi capi, di individuarne le cause.

Dobbiamo esordire, osservando che il voto del 16 aprile ha chiuso la fase agonica della crisi della sinistra storica italiana. Possiamo ora dire che, in Italia, la sinistra si sia compiutamente dissolta.

Non c’è più la sinistra che avevamo conosciuto e, nel contempo, nel reticolo politico-istituzionale del nostro paese non circola più un’idea e una pratica di sinistra. Non c’è, soprattutto, la sinistra che dovrebbe esserci, capace di prendersi in carico le problematiche e le sfide dell’epoca nuova che stiamo attraversando.

Le elezioni del 16 aprile hanno condotto a coronamento il processo di volatilizzazione della sinistra italiana, originatosi nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e ulteriormente accelerato da "Mani pulite" nei primi anni ‘90. La disfatta del 16 aprile, suggellando percorsi tanto differenziati e anomali quanto convergenti e stringenti, ha sancito post mortem ed in via risolutiva la messa in scacco del patrimonio ideale e politico-culturale dei due maggiori attori politici della sinistra storica italiana del dopoguerra: il Pci ed il Psi.

Duellanti in aperto antagonismo dalla metà degli anni ’70 a tutti gli ’80 e fieri competitori nei primi ’90 in vista dell’egemonizzazione del processo di unità a sinistra, ora vedono i loro "eredi" e/o "resti" ricompattarsi per la definitiva sepoltura della sinistra italiana, ben oltre l’originario disegno craxiano di impronta carismatico-elitaria. L’asse intorno cui, col governo Amato, i brandelli degli ex duellanti ricompongono le antiche divisioni e frizioni è nettamente liberista e mercatista in campo economico, neo-oligarchico e neo-elitista nella sfera strettamente politica.

Dall’esecutivo Prodi in avanti, la sinistra approda al governo per destrutturare e dissolvere quel che di sinistra rimaneva ancora in piedi nella politica, nella cultura e nella società. Le procedure democratiche, dal primo governo D’Alema in poi, sono state sacrificate sull’altare dell’occupazione del potere e della gestione delle sue leve. Il "peccato originale" dei due governi D’Alema col secondo governo Amato si sublima: la soluzione extra-elettorale dei primi due viene mantenuta e sovralimentata dall’ultimo, pur a fronte di una disfatta elettorale di gravi proporzioni.

Certo, sul piano strettamente politico-costituzionale le soluzioni rappresentate dagli esecutivi D’Alema ieri e dal governo Amato oggi conservano una loro legittimità. Ma, in realtà, questa "correttezza formale" rimuove questioni politiche decisive e pesanti come macigni.

Innanzitutto, totalmente aggirato appare il rapporto democratico con il corpo elettorale, surrogato con gli strumenti (di democristiana memoria) di pura e cruda gestione del potere. Inoltre, la questione delle alleanze politiche viene disinvoltamente impostata e gestita, attraverso una mutazione continua dello spettro e della composizione della coalizione di governo.

Ciò non induce chiarezza nel sistema politico; al contrario, alimenta confusione, disaffezione e qualunquismi di ritorno. Ma quello che più conta, il fenomeno ingenera un processo a catena dalle incalcolabili conseguenze negative per i partiti di sinistra: l’astensionismo e la defezione del "popolo di sinistra", posto senza soluzione di continuità alcuna di fronte a scelte neo-centriste e liberiste.

Il fallimento politico e l’emorragia elettorale successiva dei governi di centrosinistra dei secondi anni ’90 trova alimento nell’attivazione di un perverso processo di legittimazione che, alla fine, si è rivolto come un pesante boomerang contro i suoi propri titolari. Anziché alla ricerca ed al potenziamento della legittimazione democratica presso il corpo elettorale, abbiamo assistito alla messa in opera di condotte di accreditamento e legittimazione presso la corte dei poteri politici, istituzionali, economici e finanziari più forti. Il che si è puntualmente tradotto in opzioni di forte sapore conservativo, se non regressivo che, nel mentre strutturavano e consolidavano il rapporto con i poteri, destrutturavano e indebolivano i già precari rapporti con le basi elettorali di riferimento; quelle di sinistra, soprattutto, sentitesi sempre più "tradite" nelle loro proprie aspettative e richieste politiche.

Si è, così, verificato che le coalizioni di centrosinistra che, dal governo Prodi, si sono succedute alla guida del paese si siano sempre più sbilanciate nel rapporto coi poteri, sempre più allentando i legami con le proprie basi elettorali. Siamo stati spettatori della messa in scena progressiva di un suicidio politico annunciato, a metà strada tra la tragedia e la farsa, di cui i gruppi dirigenti dei partiti al governo non sono stati e non sono tuttora consapevoli. Ad errori si è replicato con errori via via più gravi, moltiplicando all’infinito l’errore iniziale, in una concatenazione senza fine di conseguenze perverse.

Il governo Amato spinge all’apice gli effetti boomerang del processo descritto. Ormai, una razionalità controintenzionale ispira il comportamento e gli atti dei partiti che costituiscono la coalizione di centrosinistra. E tale razionalità trova ulteriore alimento nella paura di perdere il potere che li va ultimamente divorando e ossessionando. Ma niente come la paura rende prigionieri di strategie politiche accecanti e accecate; niente come la paura, in politica, causa effetti opposti a quelli desiderati.

Di questo passo, la sconfitta alle prossime elezioni politiche del 2001 si può rivelare ben più di un evento rientrante nel calcolo delle probabilità e ben più del gioco fisiologico dell’alternanza di potere. La strada intrapresa dalle ultime scelte della coalizione di centrosinistra ha come suo orizzonte possibile la catastrofe terminale, oltre la quale non resterà che scavare tra le macerie.

A quest’orizzonte, il rischio che si profila è assai più grave di quello di consegnare il paese in mano ad uno schieramento di destra incolto, populistico e antidemocratico, solcato in sovrappiù da inquietanti venature di razzismo e fascismo etnico.

A quest’orizzonte, il rischio sta nel livellamento politico generale, in ragione di cui saranno fatte eguali e intercambiabili tutte (o quasi) le forze presenti sulla scena politica, rendendo oziosa la competizione elettorale e vana la scelta politica.

Per la sinistra, scongiurare tale esito catastrofico vuole dire spezzare, oggi finché si è ancora in tempo, l’ingranaggio delle forme politiche messe in moto, in controtendenza perlomeno con gli ultimi due decenni.

 

2) La gravità e vastità delle proporzioni della sconfitta alle ultime regionali deve spingere l’analisi all’individuazione delle linee portanti che hanno sorretto il disegno politico che le sinistre al governo hanno alimentato in quest’ultimo quinquennio e che figura come una delle concause strutturali del recente scacco elettorale.

Si deve rilevare, in premessa, che il fenomeno della mutazione regressiva del codice genetico della sinistra è un processo che, ormai, insiste su scala internazionale, trovando nel paradigma neolaburista della "terza via" di Tony Blair la sua punta di diamante (1).

In questi ultimi due decenni, il "vento liberista" ha potentemente soffiato all’interno delle socialdemocrazie europee. Esso, inizialmente, ha anche alimentato grandi illusioni, culminate nella vittoria dei laburisti inglesi sui conservatori e dei socialdemocratici tedeschi sulla Cdu di Kohl. Ben presto, però, la storia ha messo in faccia a tutti le sue evidenze, sottolineando quanto fosse pericoloso e vano illudersi, sventolando le bandiere del neoliberismo. La "guerra umanitaria" del 1999 contro la Serbia è stata la "cartina di tornasole" che ha disvelato impietosamente il carattere conservatore ed arretrato della "svolta liberista" delle socialdemocrazie europee.

Negli ultimi anni ’90, in Italia, l’adesione alla vulgata neoliberista da parte del Pds/Ds è avvenuta sotto il segno di un collegamento pendolare, il più delle volte improvvisato, oscillante tra il programma "New Labour" patrocinato da Blair e quello del "nuovo centro" elaborato da Schroeder. Per gran parte del gruppo dirigente Pds/Ds, la proposta neolaburista/neocentrista presenta il vantaggio di una liquidazione in toto non solo e non tanto del comunismo, quanto e soprattutto del patrimonio storico e culturale delle socialdemocrazie europee medesime.

Ma è, forse, necessario procedere con maggiore ordine.

L’estinzione del Pci risale al febbraio del 1991, data di costituzione del Pds e di Rifondazione comunista. Il Psi sarà spazzato via qualche anno dopo dal ciclone "Tangentopoli".

Sin dall’inizio, sia per effetto di scelte strategiche e tattiche ondivaghe che per una serie di "complessi di inferiorità", il Pds rimane ancora impigliato nella ragnatela di quel "fattore K" che per più di quarant’anni aveva confinato il Pci all’opposizione. La vittoria elettorale dell’Ulivo alle politiche del 1996 lo sancisce in maniera chiara: il Pds, pur risultando di gran lunga il più forte partito della coalizione, non esprime il premier che è, invece, Romano Prodi (ex Dc). Nel passaggio dal Pci al Pds/Ds, il "fattore K" si trasforma in crisi di premiership.

Dopo due anni di governo Prodi, il gruppo dirigente del Pds ha affrontato la crisi di premiership in maniera tutta politicista e furbesca. L’investitura a premier di D’Alema non è avvenuta per via elettorale, ma attraverso un’operazione di trasformismo politico allo stato puro, con il mutamento sostanziale della coalizione uscita vittoriosa dalle politiche del 1996. Fattore, quest’ultimo, che ha indebolito la compagine di governo (dalla scissione di Rifondazione comunista alla nascita in posizione conflittuale dei Democratici di Prodi-Di Pietro) ed esposto il nuovo premier ad una progressiva e crescente perdita di legittimazione. La crisi di premiership, ben lungi dall’essere risolta, è esplosa in maniera rovinosa, prima costringendo al D’Alema 2 e dopo con la disfatta del 16 aprile, circostanza in cui il premier ha incautamente assecondato le strategie berlusconiane di politicizzazione del voto amministrativo.

Il 1996, oltre a sancire la crisi di premiership, segna anche lo stallo della forma partito che il Pds si era dato. Anche per sottolineare la distanza dalla "cosa 1", pensata, voluta e organizzata sotto la leadership di Occhetto, viene immaginato il passaggio alla "cosa 2". L’intento del nuovo gruppo dirigente del Pds è quello di allargare la base dei consensi del partito, fino a porlo come baricentro inamovibile del sistema politico italiano. Per questa via, si pensa di dare soluzione anche alla crisi di premiership che relega il partito ad un ruolo non corrispondente al suo effettivo peso politico.

Dobbiamo ricordare che i "punti di programma" intorno cui, a partire dal 1996 e sotto l’impulso del nuovo segretario D’Alema, entra in gestazione l’idea della nuova formazione politica (i Ds), attraverso la cooptazione molecolare nel Pds dei "residui sani" della ex Dc (i "cristiano-sociali" di Pierre Carniti"), dell’ex Psi (i gruppi vicini a Spini e Ruffolo), dell’ex Pri (la "sinistra" di Bogi) e di Rifondazione (i "comunisti unitari" di Crucianelli), sono nell’ordine:

  1. la costituzione di un nuovo partito di sinistra che ricomprendesse tutte le forze di sinistra e di rinnovamento intorno ad un nuovo "progetto socialdemocratico" di prospettiva europea e apertura mondiale;
  2. l’incardinamento della linea politica e dell’azione di governo intorno un asse di sinistra moderata, capace di rifondere e rilanciare in una nuova piattaforma democratica sia l’eredità moderata che quella di sinistra;
  3. l’allargamento del consenso elettorale fino al conseguimento del 30-35% dei voti (2).

La nuova formazione nascerà nel febbraio del 1998 e precederà di alcuni mesi l’insediamento di D’Alema a Palazzo Chigi. A distanza di soli 2 anni, possiamo misurare il completo venir meno di tutti e tre gli obiettivi programmatici intorno cui essa era stata pensata e costituita. In particolare, va rilevato che l’insuccesso della piattaforma di fondazione dei Ds è coinciso con il fallimento della premiership di D’Alema. L’uno scacco è causa dell’altro, secondo la logica delle reciprocità assorbenti. Il congresso autocelebrativo dei Ds di inizio 2000 al Lingotto è stato soltanto un vano tentativo di esorcizzazione del permanente stato di crisi strisciante del partito e della coalizione di governo.

Le ragioni del doppio naufragio (del partito e del premier) sono profonde e non circoscrivibili alle responsabilità di D’Alema e del gruppo dirigente a lui legato, ma affondano le loro radici in quell’articolato processo storico-politico di cui abbiamo tentato di tratteggiare la genealogia essenziale. Su queste ragioni i Ds e i loro alleati omettono di interrogarsi. Anzi, continuano a proseguire imperterriti sulla strada che li ha condotti alla debacle del 16 aprile.

La candidatura e il successivo governo Amato non pongono affatto rimedio ai motivi della crisi esplosa il 16 aprile; anzi, li aggravano. Del processo che ha condotto al secondo esecutivo Amato, il dato politico che appare maggiormente segnato in negativo non è il, pur inquietante, recupero di parte significativa del ceto politico e intellettuale craxiano, bensì lo stadio di selvaggio mercatismo ed elitismo verso cui si va spingendo la compagine di governo, in uno spazio di totale autoreferenzialità politica.

Resta un ultimo bilico da superare e un ultimo baratro in cui precipitare: quello della "resa dei conti" con il sindacato. Da questo bilico e da questo baratro l’esecutivo Amato — come già i due governi D’Alema — e consistenti settori dei Ds sono fortemente attratti. La traduzione in prassi di questa ipotesi consumerebbe l’ultimo dei suicidi politici annunciati del centrosinistra italiano degli anni ’90: la rottura col sindacato e il conseguente prosciugamento delle residue basi elettorali di riferimento.

(fine aprile/inizio maggio 2000)

Note

(1) Come è noto, Tony Blair lanciò il suo programma di "nuovo socialismo" nel discorso tenuto il 3 ottobre 1995 al congresso dei laburisti. In gran parte, modellato su questo discorso è il successivo manifesto/programma "Nuovo Labour", con il quale i laburisti affronteranno e vinceranno le elezioni del 1997. È altrettanto risaputo che il teorico maggiore del "New Labour" è il sociologo A. Giddens, di cui rileva in proposito The Third Way: The Renewal of Social Democracy, Cambridge, Polity Press, 1998; trad. it. La terza via, Milano, Il Saggiatore, 1999).

(2) Si confronti, in proposito, l’intervista concessa da D’Alema a "l’Unità", 7 novembre 1996.

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